sabato 4 maggio 2013

Domenico Quirico



Quirico: “Il dolore dell’uomo
va condiviso per raccontarlo”

Il metodo di lavoro
dell’inviato de La Stampa.
«Perché torno in Siria».
Da giorni mancano sue notizie
ALESSANDRA STOPPA

Da oltre tre settimane abbiamo perso i contatti  
in Siria con Domenico Quirico, che da anni racconta su «La Stampa» i fronti di guerra del mondo. In attesa di sue notizie, riproponiamo ampi stralci di una lunga intervista che ha rilasciato a marzo alla rivista «Tracce» (www.tracce.it), che gli aveva chiesto di parlare del suo metodo di lavoro.  

Avevano poco più di vent’anni. Non lo avevano mai visto prima, né lui aveva soldi da dargli. Due ragazzi, tra le fila dei miliziani di Gheddafi e senza intenzione di disertare: non avevano nessun interesse a rischiare così tanto per lui e per gli altri tre sahaffia, giornalisti stranieri, appena presi in ostaggio. Eppure hanno convinto gli uomini del comando a rimandare l’esecuzione, ad attendere. Poi li hanno nascosti in casa, mentre fuori passava e ripassava la battaglia, «per toglierci dalla vista». Di nuovo, li hanno difesi quando gli uomini del Rais li hanno trovati e trascinati in strada per giustiziarli. E l’indomani, all’alba, li hanno portati al primo posto di blocco del nemico, dei rivoluzionari.  
«Quel giorno, ho visto la carità. L’unica forma che assume il divino nel mondo». Era l’agosto di due anni fa. Domenico Quirico, inviato de «La Stampa», all’epoca del rapimento in Libia, dopo sei anni da corrispondente a Parigi stava attraversando le varie rivoluzioni arabe: Tunisia, Egitto, Libia, Somalia, Siria, Mali. «Ho avuto questa fortuna», dice. «Ho vissuto cose molto dolorose e complicate, ma ho avuto fortuna. Perché non sono più la stessa persona di prima». Lo raggiungiamo non appena tornato dal Mali. 

Che cosa ha visto?  
«Quello che era inevitabile accadesse, complice il disinteresse dell’Occidente. Da anni mi ero reso conto che là si stava costruendo qualcosa di pericoloso. E ora lo abbiamo sotto gli occhi».  

Cosa intende?  
«Stiamo parlando di una scelta precisa. Al Qaeda non si è africanizzata per piacere o perché non aveva altri posti. Innanzitutto: non ha mai avuto un territorio, è sempre stata una componente della strategia di altri alleati, mentre là, per la prima volta, ha amministrato un territorio, vero e proprio. Il che significa una popolazione e grandi città. Non solo, si tratta di un territorio ben preciso». 

Strategico?  
«È assai più importante dell’Afghanistan, perché al centro di una zona ricca di materie prime fondamentali, dal petrolio all’uranio; è vicino ai Paesi che hanno fatto la rivoluzione araba e che stanno virando sotto il controllo di partiti islamici; è difficilmente controllabile, perché è il deserto, se non ci sai vivere non resisti. E, poi, è ad un’ora di volo dall’Europa, terra di passaggio per droga e clandestini: cioè, la bomba perfetta per scardinare le nostre società. In più, al Qaeda oggi è una straordinaria fusione di fanatici religiosi e delinquenza comune. I suoi capi hanno trasformato i tuareg da musulmani molto tiepidi a salafiti, in un tempo rapidissimo. Tre, quattro anni». 

Che cosa ha permesso che questo accadesse?  
«La responsabilità più grande è non interessarsi della disperazione di quella gente. Perché è su questo che al Qaeda costruisce. Comunque, in questo momento era inutile per me stare là».  

Perché?  
«L’arrivo dei francesi ha messo una gabbia enorme su quello che succedeva: tutti i contatti, spariti. Non c’era proprio la possibilità di raccontare. Questo non fa che aggravare l’incapacità del nostro mestiere. Che in Siria è stato proprio un fallimento».  

Si riferisce alla disinformazione, alla responsabilità dell’Occidente?  
«Quella siriana è una delle tragedie più terribili degli ultimi anni. Io l’ho attraversata in modo diretto: dal 2011 ci sono andato varie volte. E ho visto l’impotenza del nostro lavoro a trasformare i fatti in coscienza, anche collettiva. La Siria non è diventata un problema della società civile occidentale. Io credo che accada perché non si riesce più a creare compassione. Questo è il problema dei giornali, non il bilancio in rosso, la pubblicità. Ma l’incapacità a raccontare il dolore. Si va nei luoghi in cui l’uomo soffre, ma non si comunica nulla, ci si perde dietro ad altre cose».  

Ma cosa vuol dire per lei comunicarlo?  
«Condividere. Andare lì e condividere. E poter trasmettere quanto siano terribilmente vive le cose che vediamo. Il reportage, che è stata la parte essenziale e costitutiva della storia del giornalismo, oggi vive una nuova necessità. Bisogna essere all’interno del fatto, rischiando, senza avere un modo per scampare a ciò che accade. Poi, c’è tutto il disperato tentativo della scrittura di restituire in minima parte gli uomini che vedo, di dare a te che non sei lì, almeno per un’infinitesima parte, il senso di esserci, di vedere».  

Trasmettere compassione basta a far comprendere, a rendere coscienti?  
«Il capire viene dopo questo, non prima. L’emozione stessa è un elemento per capire. Questo non toglie che io sono perfettamente consapevole di raccontare una parte, una piccolissima parte. Ma è inevitabile: devi scegliere dove stare. Non puoi essere un’entità superiore, devi sporcarti le mani».  

Perché, da quando ha ripreso a fare l’inviato, non è più la stessa persona?  
«Questo modo di fare il mestiere mi ha messo di fronte all’eterno problema del male. No, in realtà il male non è un problema... È un mistero. E questo lavoro è calarsi nel mistero del male».  

Cosa intende per mistero?  
«Il male è un mistero perché se lo frequenti, se ci sei dentro - e nella guerra viene fuori da tutte le parti, si manifesta, lo vedi, ti tocca -, scopri com’è difficile da definire. Guardi, io so nome e cognome dell’uomo che voleva ammazzarmi in Libia. Lo ricordo perfettamente, potrei riconoscerlo tra diecimila persone. È un comandante delle milizie di Gheddafi. Allora, io non ero un combattente, non ero un traditore, ero solo lì per raccontare, ma lui voleva farmi a pezzi. Voleva farmi del male. Ma io posso dire così e basta? No, non posso».  

Perché?  
«Perché poi scopro che quell’uomo ha avuto quattro fratelli ammazzati dai ribelli e in me ha individuato, somaticamente, la causa della sua disperazione. Ora, non ho la sindrome di Stoccolma, ma comprendo quell’uomo».  

Il male è un mistero perché è un mistero l’uomo.  
«Sì, possiamo dire così. In fondo, quello di cui parlo è l’eterno problema del peccato e della grazia. Ma lasci stare... Io faccio il giornalista, non sono mica un prete». 

Non sono cose “da preti”. Se il suo lavoro l’ha messa di fronte al problema del peccato e della grazia, vorrei capire perché.  
«Perché gli avvenimenti che ho attraversato mi hanno costretto a pormi delle domande, a fare certi ragionamenti. Mi hanno cambiato. Rimettendomi davanti alla domanda che l’uomo si fa da sempre: Dio esiste o no? La presenza della grazia e del peccato per me è la risposta a questa domanda. Così nell’atto totalmente gratuito di quei due ragazzi, che hanno salvato me e altre tre persone senza guadagnarci nulla, io ho visto la manifestazione della grazia. La prova dell’esistenza di Dio. Lì, così, in un giorno qualsiasi di un Paese africano, in una guerra tremenda, in un massacro senza luce, semplicemente, si è manifestata la grazia».  

Come c’entra questo fatto con il suo cambiamento?  
«Credo che nel destino di ognuno ci sia uno strappo. C’è qualcosa che ci disarticola da ciò che eravamo e ci fa approdare a qualcosa di nuovo. Ecco - se posso dirlo - io in quella vicenda, ma non solo in quella, ho vissuto il mio personale strappo. Qualcosa è cambiato. Il mio rapporto con la vita, gli uomini, la quotidianità è completamente diverso». 

In che senso?  
«È difficile da dire. Ma io ritrovo, o meglio cerco di ritrovare, in ogni posto in cui sono, il segno di quell’esistenza. La cerco negli uomini».  

E ora che è tornato a casa, alla vita quotidiana?  
«Non posso nasconderle un certo disagio. È una mancanza. Ma non dell’adrenalina. È piuttosto il non sentirmi al mio posto. Ognuno ha il suo compito: c’è chi racconta altro, come le vicende della società italiana. Io, per la conoscenza - se pur modesta - di quei posti, mi sento chiamato là. Dove, tra l’altro, mi è più facile riconoscere la grazia. Io non ho mai avvertito così concretamente presente Dio come in un luogo da cui sembra essere stato cacciato con violenza e furia».  

Dove?  
«Nella cattedrale distrutta di Mogadiscio. È un deposito di immondizia, polvere e letame. Là non ci sono più cristiani, o sono stati uccisi o sono scappati. E i poveri somali vivono in quello che resta della chiesa, tra i detriti. Ma in alto, nella navata scoperchiata, c’è un Cristo decapitato. Con le braccia spalancate. Accoglie tutto quel dolore. Mi sono detto: “Lui è ancora qui”. Ho pensato che in quel posto non c’era più niente, ma c’era tutto». 

fonte: www.lastampa.it

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