martedì 10 giugno 2014

Giacomo Matteotti




è stato un politico socialista e antifascista italiano.

Gioventù

Il nonno del politico, il calderaio Matteo Matteotti, era originario di Comasine, nella Val di Peio, in Trentino, da dove si era trasferito a Fratta Polesine nel 1859, l’anno stesso della sua morte. Suo figlio Girolamo (1839-1902) portò avanti e allargò l’attività paterna: commerciante in ferro e rame, aveva investito i profitti in case e in terreni, e raggiunse un'invidiabile posizione economica. L'accusa rivolta al padre di aver costruito la sua fortuna prestando denaro ad interesse provenne dalla stampa cattolica locale di quegli anni, avversaria del figlio socialista, e non è mai stata definitivamente provata.

Il 7 febbraio 1875 Girolamo sposò Lucia Elisabetta Garzarolo (chiamata comunemente Isabella). Ebbero sette figli, quattro dei quali morirono in tenera età: degli adulti, Giacomo Lauro fu il secondo, dopo Matteo (1876-1909) e prima di Silvio (1887-1910), e l'unico a sopravvivere ai fratelli, morti ancor giovani di tisi. Tutti i giovani Matteotti si impegnarono in politica nelle file del Partito socialista, seguendo l'esempio del padre che era stato consigliere comunale di Fratta Polesine dal 1896 al 1897. Matteotti frequentò il ginnasio "Celio" di Rovigo e fu compagno di classe del suo futuro avversario politico cattolico, Umberto Merlin.

Si laureò in giurisprudenza, all'Università di Bologna, nel 1907 ed entrò in contatto con i movimenti socialisti, nei quali divenne ben presto una figura di spicco. Durante la prima guerra mondiale, in cui non fu arruolato in quanto unico figlio superstite di madre vedova, si dimostrò un convinto sostenitore della neutralità italiana. Le sue posizioni antimilitariste e il suo attivismo contro la guerra gli costarono l'allontanamento dal Polesine per tre anni e il confino in una zona montagnosa nei pressi di Messina. Nel gennaio 1916 aveva sposato con rito solo civile la poetessa romana Velia Titta, sorella del baritono verdiano Titta Ruffo. Nel 1918, mentre era ancora in Sicilia al confino, nacque a Roma il suo primogenito Giancarlo, che seguì le orme del padre dedicandosi anche lui all'attività politica.

Primi passi in politica

Matteotti fu eletto in Parlamento per la prima volta nel 1919, in rappresentanza della circoscrizione Ferrara-Rovigo. Fu rieletto nel 1921 e nel 1924, e veniva soprannominato Tempesta dai suoi compagni di partito per il suo carattere battagliero ed intransigente. Nel 1921 pubblicò una famosa "Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia", in cui si denunciavano, per la prima volta, le violenze delle squadre d'azione fasciste durante la campagna elettorale delle elezioni del 1921.

Nell'ottobre del 1922 Matteotti fu espulso dal Partito Socialista Italiano con tutta la corrente riformista legata a Filippo Turati. I fuoriusciti fondarono il nuovo Partito Socialista Unitario di cui Matteotti divenne segretario. Nel 1924 venne pubblicata a Londra, dove Matteotti si era recato clandestinamente nell'aprile di quell'anno, la traduzione del suo libro Un anno di dominazione fascista, col titolo: The Fascists exposed; a year of Fascist Domination, in cui riportava meticolosamente gli atti di violenza fascista contro gli oppositori.

Nella introduzione del libro esplicitamente ribatteva alle affermazioni fasciste, che affermavano l'uso della violenza squadrista utile allo scopo di riportare il paese ad una situazione di legalità e normalità col ripristino dell'autorità dello Stato dopo le violenze socialiste del biennio rosso, affermando la continuazione delle spedizioni squadriste contro gli oppositori anche dopo un anno di governo fascista. Inoltre sosteneva che il miglioramento delle condizioni economiche e finanziarie del paese, che stava lentamente riprendendosi dalle devastazioni della guerra, era dovuto non all'azione fascista, quanto alle energie popolari. Tuttavia, ancora secondo Matteotti, a beneficiarne sarebbero stati solo gli speculatori ed i capitalisti, mentre il ceto medio e proletario ne avrebbe ricevuto una quota proporzionalmente bassa a fronte dei sacrifici.

La contestazione delle elezioni

Il 30 maggio 1924 Matteotti prese la parola alla Camera dei deputati per contestare i risultati delle elezioni tenutesi il precedente 6 aprile. Mentre dai banchi fascisti si levavano contestazioni e rumori che lo interrompevano più volte (un deputato fascista, Giacomo Suardo, abbandonò l'aula per protesta) Matteotti, denunciando una nuova serie di violenze, illegalità ed abusi commessi dai fascisti per riuscire a vincere le elezioni, pronunciava con un discorso che sarebbe rimasto famoso:

« [...] Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni della maggioranza. [...] L'elezione secondo noi è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. [...] Per vostra stessa conferma (dei parlamentari fascisti) dunque nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà... [...] Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse. »

(Giacomo Matteotti)

Terminato il discorso disse ai suoi compagni di partito:

« Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me. »

(Giacomo Matteotti)

In un'altra occasione aveva pronunciato una frase che si sarebbe rivelata profetica:

« Uccidete pure me, ma l'idea che è in me non l'ucciderete mai »

(Giacomo Matteotti)

La proposta di Matteotti di far invalidare l'elezione almeno di un gruppo di deputati - secondo le sue accuse, illegittimamente eletti a causa delle violenze e dei brogli - venne respinta dalla Camera con 285 voti contrari, 57 favorevoli e 42 astenuti. Renzo De Felice ha definito "assurda" l'interpretazione di questo discorso come una richiesta di Matteotti basata su una realistica possibilità di ottenere un successo: secondo lo storico, Matteotti non mirava realmente all'invalidamento del voto, bensì a dare il via dai banchi del parlamento ad una opposizione più aggressiva nei confronti del fascismo, accusando in un colpo solo sia il governo fascista che i "collaborazionisti" socialisti. Una volontà di opposizione intransigente che aveva già espresso in una lettera a Turati precedente alle elezioni:

« Innanzitutto è necessario prendere, rispetto alla Dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fino qui; la nostra resistenza al regime dell'arbitrio dev'essere più attiva, non bisogna cedere su nessun punto, non abbandonare nessuna posizione senza le più decise, le più alte proteste. Tutti i diritti cittadini devono essere rivendicati; lo stesso codice riconosce la legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all'Italia un regime di legalità e libertà, (...) Perciò un Partito di classe e di netta opposizione non può accogliere che quelli i quali siano decisi a una resistenza senza limite, con disciplina ferma, tutta diretta ad un fine, la libertà del popolo italiano." »

(Giacomo Matteotti)

In questa sua intransigenza - tuttavia - Matteotti non riusciva a trovare un collegamento con l'operato e l'ideologia dei comunisti, che vedevano tutti i governi borghesi uguali fra loro e quindi da combattere indifferentemente:

« Il nemico è attualmente uno solo, il fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall'uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell'altro. »

Il discorso del 30 maggio - secondo lo storico Giorgio Candeloro - "diede a Mussolini e ai fascisti la sensazione precisa di avere di fronte in quella Camera un'opposizione molto più combattiva di quella esistente nella Camera precedente e non disposta a subire passivamente illegalità e soprusi".

Il rapimento e l'omicidio

Il 10 giugno 1924 intorno alle ore 16.15 Matteotti uscì di casa a piedi per dirigersi verso Montecitorio decidendo di percorrere il lungotevere Arnaldo da Brescia (per poi tagliare verso Montecitorio), piuttosto che incamminarsi lungo la via Flaminia per poi raggiungere il Corso attraverso gli archi di Porta del Popolo. Qui, secondo le testimonianze dei due ragazzini presenti all'evento, era ferma un'auto con a bordo alcuni individui, poi in seguito identificati come i membri della polizia politica: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo.

Due degli aggressori appena si accorsero del parlamentare social-unitario gli balzarono addosso. Ciononostante Matteotti riuscì a divincolarsi buttandone uno a terra e rendendo necessario l'intervento di un terzo che lo stordì colpendolo al volto con un pugno. Gli altri due intervennero per caricarlo in macchina. In seguito i due ragazzini identificarono anche la vettura, da altri testimoni descritta semplicemente come "un'automobile, nera, elegante, chiusa", per una Lancia Kappa. I due ragazzini, avvicinatisi al veicolo, furono allontanati rudemente, poi la macchina ripartì ad alta velocità.

Nel frattempo all'interno della vettura scoppiò una rissa furibonda e dall'abitacolo della vettura Matteotti riuscì a gettare fuori il suo tesserino da parlamentare che fu ritrovato da due contadini presso il Ponte del Risorgimento. Non riuscendo a tenerlo fermo Giuseppe Viola, dopo qualche tempo, estrasse un coltello e colpì Matteotti sotto l'ascella e al torace uccidendolo dopo un'agonia di diverse ore. Per sbarazzarsi del corpo i cinque girovagarono per la campagna romana, fino a raggiungere verso sera la Macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano a 25 km da Roma. Qui, servendosi del cric dell'auto, seppellirono il cadavere piegato in due. Poi ritornarono a Roma dove lasciarono la vettura in un garage privato. Subito informarono Filippelli e De Bono degli avvenimenti e poi si allontanarono cercando di nascondersi.

Le ricerche e le indagini

L'assenza di Matteotti in Parlamento non fu immediatamente notata, ma già il giorno dopo, 11 giugno, la notizia della scomparsa era sui giornali. Più tardi Mussolini sostenne di aver appreso della morte di Matteotti soltanto la sera dell'11 giugno e di esserne stato, fino ad allora, del tutto ignaro.

Il 12 giugno Mussolini rispose ad una interrogazione parlamentare posta dal deputato Enrico Gonzales:

« Credo che la Camera sia ansiosa di avere notizie sulla sorte dell'onorevole Matteotti, scomparso improvvisamente nel pomeriggio di martedì scorso in circostanze di tempo e di luogo non ancora ben precisate, ma comunque tali da legittimare l'ipotesi di un delitto, che, se compiuto, non potrebbe non suscitare lo sdegno e la commozione del governo e del parlamento »

(Mussolini in risposta all'interrogazione parlamentare del deputato Enrico Gonzales)

Intanto, due giorni dopo il rapimento fu individuata l'auto che risultò proprietà del direttore del Corriere Italiano Filippo Filippelli grazie alla testimonianza di Ester Erasmi e del marito Domenico Villarini che insospettiti da strani movimenti avvenuti la sera prima, avendo notato la vettura sospetta si erano annotati la targa. Da questo importante episodio nacquero le prime indagini, intentate dal magistrato Mauro Del Giudice, intransigente giurista, difensore dell'indipendenza della magistratura di fronte al potere esecutivo, il quale assieme al giudice Umberto Guglielmo Tancredi, fin dall'inizio individuò in Dumini la mano dell'assassino. In breve tutti i rapitori furono identificati ed arrestati, ma dopo pochissimo e dietro diretto interesse del Duce, l'incarico gli venne tolto e le indagini vennero fermate. Fu questa comunque l'occasione in cui Cesare Rossi deporrà il suo memoriale. Del Giudice invece fu successivamente allontanato dalla capitale e qualche anno dopo, portato al pensionamento forzato.

Il 17 giugno Mussolini impose le dimissioni a Cesare Rossi e ad Aldo Finzi che erano indicati dall'opinione pubblica ed anche dalle indagini del magistrato Del Giudice, come i più coinvolti a causa delle note frequentazioni con gli uomini di Dumini. Fu dimissionato anche il capo della polizia Emilio De Bono e il giorno seguente anche Mussolini rinunciò alla guida del ministero degli Interni che affidò a Luigi Federzoni.

I socialisti unitari vicini a Filippo Turati nel frattempo diramarono un comunicato stampa che accusava il governo:

« L'autorità politica assicura solerti indagini per consegnare alla giustizia i colpevoli, ma la sua azione appare totalmente investita dal sospetto di non volere, né potere colpire le radici profonde del delitto, né svelare l'ambiente da cui i delinquenti emersero. »

(Comunicato del partito socialista)
Il 22 giugno, a Bologna fu convocata da Dino Grandi una imponente adunata in sostegno a Mussolini cui parteciparono circa cinquantamila fascisti e nello stesso giorno furono arrestati Giovanni Marinelli e Cesare Rossi che dopo essere stati latitanti si erano costituiti. Il 24 giugno fu riunito il Senato che, a larga maggioranza, riconfermò la fiducia a Mussolini con 225 voti favorevoli su 252.

Il 26 giugno 1924 i parlamentari dell'opposizione si riunirono in una sala di Montecitorio, oggi nota come sala dell'Aventino, decidendo comunemente di abbandonare i lavori parlamentari finché il governo non avesse chiarito la propria posizione a proposito dell'omicidio Matteotti.

Il 27 giugno alcuni parlamentari socialisti si recarono in pellegrinaggio sul luogo in cui Matteotti era stato rapito dove deposero una corona d'alloro. Lo stesso giorno Filippo Turati commemorò Matteotti alla Camera. Questo discorso fu da alcuni storici considerato come l'inizio effettivo della Secessione dell'Aventino. L'obiettivo era quello di ottenere la caduta del governo e poter andare a nuove elezioni

L'8 luglio il governo, approfittando dell'assenza dell'opposizione, ne approfittò per varare nuovi regolamenti restrittivi relativi alla stampa rafforzati due giorni dopo dall'obbligo per ciascun giornale di nominare un direttore responsabile. Costui poteva essere diffidato se contravveniva le leggi e il giornale messo in condizione di non poter più pubblicare. Il 24 luglio Roberto Farinacci in una lettera dichiarò di accettare l'incarico di avvocato della difesa nella causa contro Dumini e compagni che aveva precedentemente rifiutato.

Il ritrovamento e i funerali

Nonostante le ricerche continuassero il corpo di Matteotti fu ritrovato per caso solo il 16 agosto, dal cane di un brigadiere dei Carabinieri in licenza, Ovidio Caratelli nella macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano. Il corpo fu sottoposto al riconoscimento dei familiari e poi trasferito momentaneamente al cimitero di Riano ove restò più di due mesi.

Mussolini ordinò al ministro degli Interni Luigi Federzoni di preparare imponenti funerali da tenersi però a Fratta Polesine, città natale di Matteotti in modo da non dare troppo nell'occhio. La vedova di Matteotti qualche giorno prima dei funerali scrisse a Federzoni chiedendo che al funerale non fossero presenti esponenti del PNF e della Milizia:

« Chiedo che nessuna rappresentanza della Milizia fascista sia di scorta al treno: nessun milite fascista di qualunque grado o carica comparisca, nemmeno sotto forma di funzionario di servizio. Chiedo che nessuna camicia nera si mostri davanti al feretro e ai miei occhi durante tutto il viaggio, né a Fratta Polesine, fino a tanto che la salma sarà sepolta. Voglio viaggiare come semplice cittadina, che compie il suo dovere per poter esigere i suoi diritti; indi, nessuna vettura-salon, nessun scompartimento riservato, nessuna agevolazione o privilegio; ma nessuna disposizione per modificare il percorso del treno quale risulta dall'orario di dominio pubblico. Se ragioni di ordine pubblico impongono un servizio d'ordine, sia esso affidato solamente a soldati d'Italia. »

(Lettera di Velia Matteotti pubblicata su il Corriere della Sera del 20 agosto 1924)

La popolazione del piccolo centro partecipò numerosa al funerale di colui che era affettuosamente chiamato il "Capo dei lavoratori". Il 12 settembre 1924 a Roma, Giovanni Corvi, al grido di "Vendetta per Matteotti!", uccise il deputato fascista Armando Casalini.

Dopo i funerali, il corpo di Matteotti venne sepolto nella tomba di famiglia del cimitero del suo comune natale.

Le accuse a Mussolini

Fin dai primissimi momenti del sequestro e, ancor più dopo la scoperta che il rapimento era degenerato in omicidio, presso parte della pubblica opinione si diffuse la convinzione che Mussolini fosse il responsabile ultimo dei fatti.

Significativamente una canzonetta che iniziò a circolare all'epoca recita:

« Or, se a ascoltar mi state,
canto il delitto di quei galeotti
che con gran rabbia vollero trucidare
il deputato Giacomo Matteotti,

Erano tanti:
Viola Rossi e Dumin,
il capo della banda
Benito Mussolin. »

(Anonimo, 1924)
Rimase anche famosa una vignetta sulla rivista satirica il "Becco Giallo" nella quale un truce Mussolini siede sulla bara di Matteotti. Mussolini stesso, il giorno seguente al discorso del deputato socialista, scrisse sul "Popolo d'Italia" che la maggioranza era stata troppo paziente e che la mostruosa provocazione di Matteotti meritava qualcosa di più concreto di una risposta verbale.

Secondo una delle ricostruzioni, pare che il presidente del Consiglio, rientrato a palazzo Chigi dopo il famoso discorso del deputato socialista si sia rivolto a Giovanni Marinelli (capo della polizia segreta fascista) urlandogli: «Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell'uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare...». Questo sarebbe bastato a Marinelli per ordinare a Dumini di uccidere Matteotti. Fu lo stesso Marinelli ad ammetterlo a Cianetti e Pareschi vent'anni più tardi quando si trovò con loro e gli altri firmatari dell'ordine del giorno Grandi nel carcere di Verona per essere processato.

Il «Memoriale Rossi»

Cesare Rossi, infuriato per essere stato usato come capro espiatorio, prima di costituirsi il 22 giugno, scrisse un memoriale che fu poi pubblicato sul giornale Il mondo di Giovanni Amendola. Nel memoriale Rossi raccontava, quali fossero le attività del gruppo di squadristi a cui veniva affidata l'esecuzione di rappresaglie e di vendette politiche. Questo gruppo spesso chiamato Ceka (come la polizia politica sovietica) era antesignano dell'OVRA. Sempre secondo Rossi, Mussolini aveva approvato e spesso ordinato direttamente i delitti compiuti da quella organizzazione. Anche l'ex capo della polizia Emilio De Bono attribuì la presenza di Dumini presso il Viminale alla benevolenza di Cesare Rossi.

« Io ebbi varie volte occasione di fare presente al presidente del Consiglio la inopportunità della presenza del Dumini negli ambienti del Viminale. Io devo ritenere che S.E. il presidente facesse cenno di questo a Cesare Rossi, perché il Dumini scompariva per qualche giorno (almeno così mi si diceva, giacché, ripeto, io il Dumini non lo vedevo mai), ma poi vi ritornava. Le sue assenze corrispondevano in massima a quando si verificavano atti di violenza sia Roma che fuori; e certo anche questo ha contribuito a riaffermarmi nell'idea che il Dumini fosse compromesso nel delitto Matteotti. »

(Emilio De Bono nella sua deposizione)

L’assunzione di responsabilità politica e morale del delitto Matteotti da parte di Mussolini

Il 3 gennaio 1925, alla Camera, Mussolini respinse inizialmente l'accusa di un suo coinvolgimento nel delitto Matteotti, sfidando anzi i Deputati a tradurlo davanti alla Suprema Corte in forza dell'articolo 47 dello Statuto Albertino. Successivamente, con un improvviso cambio di tono, si assunse personalmente, in due vicini passaggi del suo discorso, la responsabilità sia dei fatti avvenuti e sia di aver creato il clima di violenza in cui tutti i delitti politici compiuti in quegli anni erano maturati, trovando anche parole per riaffermare, di fronte ad alleati ed avversari, la sua posizione di capo indiscusso del fascismo:

« Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi. »

(Benito Mussolini, discorso alla Camera, 3 gennaio 1925)

Infine Mussolini denunciò l'Aventino come sedizioso e concluse con una dichiarazione minacciosa verso l'opposizione:

« State certi che entro quarantott'ore la situazione sarà chiarita su tutta l'area. »

(Benito Mussolini, discorso alla Camera, 3 gennaio 1925)

Nella notte Luigi Federzoni, ministro dell'Interno, inviò ai prefetti due telegrammi riservati che traducevano in pratica i propositi autoritari di Mussolini. Le disposizioni invitavano, in particolare, le autorità ad esercitare la sorveglianza più vigile su circoli, associazioni, esercizi pubblici che potessero costituire pericolo per l'ordine pubblico e, se del caso, ad attuarne la chiusura forzata. Le autorità erano altresì autorizzate ad avvalersi senza scrupoli del fermo temporaneo nei confronti degli oppositori politici. Inoltre i prefetti venivano invitati ad applicare con rigore assoluto il decreto legge atto a "reprimere gli abusi della stampa periodica", approvato durante il Consiglio dei ministri del 7 luglio 1924, ma fino a questo momento usato quasi esclusivamente nei confronti della stampa di ispirazione comunista. Il decreto conferiva ai prefetti, ossia al governo, il potere di diffidare o addirittura sequestrare, il giornale che diffondesse "notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico".

Una successiva circolare interpretativa del ministro Federzoni aveva subito sgombrato il campo dagli equivoci: il giornale poteva essere sequestrato anche se la notizia pubblicata si fosse rivelata vera. Era evidente, pertanto, lo scopo illiberale e dittatorio che il provvedimento doveva raggiungere: l'annientamento, grazie ai continui sequestri, di tutta la stampa d'opposizione. Nell'arco di una settimana il Ministro dell'Interno poté illustrare in sede di Consiglio dei ministri i risultati raggiunti dai provvedimenti adottati nella notte fra il 3 ed il 4 gennaio: i prefetti si avvalevano senza esitazione dei poteri che gli erano stati attribuiti, centinaia di persone erano state arrestate. Lunga era anche la lista di locali ed associazioni che erano stati chiusi usando qualsiasi pretesto. Il 14 gennaio la Camera approvò in blocco e senza discussione moltissimi decreti legge emanati dal governo, poi denominati leggi fascistissime. Il discorso di Mussolini costituì quindi un atto di forza, con cui convenzionalmente si fa iniziare la fase dittatoriale del fascismo.

Successivamente Mussolini ebbe a dire del rapimento e poi del delitto che era «una bufera che mi hanno scatenato contro proprio quelli che avrebbero dovuto evitarla» (alla sorella Edvige) in chiaro riferimento ad alcuni suoi collaboratori (De Bono, Marinelli, Finzi e Rossi, quasi tutti legati alla massoneria). In un'altra occasione ebbe a definire il delitto «un cadavere gettato davanti ai miei piedi per farmi inciampare». Nel discorso alla Camera del 13 giugno Mussolini gridò:

« Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me, poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione. »

Altre reazioni politiche successive all’uccisione di Matteotti

A parte le violentissime accuse a Mussolini da parte delle opposizioni, alcune alte personalità liberali, a partire da Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi e Benedetto Croce, non ritennero Mussolini quale mandante. Subito dopo un discorso di Mussolini (26 giugno 1926) alla Camera fu anzi lo stesso senatore Croce, a Palazzo Madama, a favore del governo Mussolini a farsi promotore di un ordine del giorno e, una volta che esso fu approvato attraverso il voto, definì «prudente e patriottico» quel voto.

Guglielmo Salotti - nella sua biografia di Nicola Bombacci - afferma che l'anziano rivoluzionario (in seguito avvicinatosi al fascismo), avrebbe passato molto tempo nella spasmodica ricerca delle prove dell'innocenza di Mussolini. Bombacci non fece mai nomi sui mandanti dell'omicidio, ma confidò a Silvestri che:

« Purtroppo gli imputati non sono qui. Magari dopo essere stati manutengoli dei tedeschi saranno oggi al servizio degli inglesi o meglio ancora degli americani. »

(Nicola Bombacci.)

Salotti ritiene invece del tutto "fantascientifica" la tesi secondo cui nell'affaire Matteotti sarebbero stati implicati i servizi segreti sovietici.

Retroscena del delitto Matteotti

A conferma dell'intenzionalità del delitto, è utile ricordare che Amerigo Dumini, in data 31 maggio 1924, scrisse al direttore del carcere Poggioreale di Napoli di rilasciare il prigioniero austriaco Otto Thierschwald; il 2 giugno successivo incontrò quest’ultimo a Roma e gli dette istruzioni di pedinare Matteotti e di seguirlo in Austria dove l’uomo politico avrebbe partecipato ad un congresso socialista. Pochi giorni dopo (il 5 giugno), infatti, fu improvvisamente concesso a Matteotti il permesso per recarsi a Vienna, sino ad allora costantemente negato. Nella capitale austriaca era stata preparata una trappola mortale per Matteotti che doveva apparire come una faida interna al movimento socialista. L'organizzazione del delitto quindi era già stata avviata alcuni giorni prima del 10 giugno, se non che Matteotti preferì rinunciare al suo viaggio a Vienna: da ciò sarebbe nata l’improvvisazione oggetto delle argomentazioni di chi nega ogni premeditazione.

Matteo Matteotti, il figlio dell’uomo politico socialista ha sempre sostenuto l’intenzionalità della morte del padre: secondo lui il fatto che i rapitori non avevano con sé né una pala né un piccone per seppellire il corpo una volta consumato il delitto, non bastava a provare che esso non fu premeditato. A sapere che Giacomo Matteotti doveva essere ucciso, sempre secondo Matteo, erano Amerigo Dumini e Amleto Poveromo; mentre ad assassinarlo furono i ripetuti colpi vibrati da Poveromo stesso, il quale, dopo aver chiesto a Dumini (al volante dell'auto) di uscire da Roma, seppellì sommariamente il cadavere con gli altri complici nel bosco della Quartarella (dove il 16 agosto verrà ritrovato da un brigadiere dei carabinieri) presso la via Flaminia, a 23 chilometri dalla città. Matteo Matteotti presume che fu un seppellimento volontariamente sommario: nell’auto non c’erano appunto strumenti da scavo, perché (secondo Matteo Matteotti questo lo sapevano a priori soltanto Dumini e Poveromo) in caso d'arresto l’assassinio doveva apparire omicidio preterintenzionale.

Procedimenti giudiziari

Riguardo al delitto Matteotti furono intentati tre procedimenti giudiziari. Il procedimento principale si ebbe dal 16 marzo al 24 marzo 1926 a Chieti (istruito fra il 1925 e il 1926), contro gli squadristi materialmente responsabili del rapimento e dell'omicidio: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Di questi, Dumini, Volpi e Poveromo furono condannati per omicidio preterintenzionale alla pena di anni 5, mesi 11 e giorni 20 di reclusione, nonché all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, mentre per Panzeri, che non partecipò attivamente al rapimento, Malacria e Viola ci fu l'assoluzione. Il collegio di difesa degli imputati, a seguito di richiesta di Dumini, venne guidato da Roberto Farinacci, a quel tempo segretario nazionale del Partito Nazionale Fascista. L'enfasi di Farinacci nella difesa degli imputati fu tale da indurre Mussolini, che viceversa aveva chiesto un processo senza molto clamore, a costringerlo alle dimissioni dalla carica nazionale una settimana dopo la sentenza del processo.

Già nel 1924, nei giorni immediatamente successivi ai drammatici fatti, era stato intentato un procedimento davanti dall'Alta Corte di Giustizia del Senato nei confronti dell'allora capo della Pubblica Sicurezza e della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), il quadrumviro Emilio De Bono, costretto alle dimissioni da Mussolini, per il quale era stato poi ravvisato il non luogo a procedere.

Nel 1947, in seguito al Decreto Luogotenenziale del 27.7.1944 n.159 (che rendeva potenzialmente nulle le condanne avvenute in epoca fascista superiori ai tre anni), la Corte d'Assise di Roma restituì il processo nei confronti di Giunta, Rossi, Dumini, Viola, Poveromo, Malacria, Filippelli, Panzeri. Dumini, Viola e Poveromo furono condannati all'ergastolo (poi commutato in 30 anni di carcere), mentre per gli altri imputati ravvisò il non luogo a procedere a causa dell'amnistia disposta dal Dpr 22.6.1946 n.4. Solo sei anni dopo il Dumini verrà amnistiato. In nessuno dei tre processi venne mai accertata la responsabilità diretta di Mussolini, ma tutti coloro che sono stati riconosciuti implicati nell'omicidio furono esponenti o sostenitori del regime fascista.

La vicenda delle tangenti della Sinclair Oil

Nel corso dello svolgimento del primo processo, Dumini nulla disse della borsa di Matteotti che, al momento dell’arresto, gli venne sequestrata, pervenendo poi a De Bono (che l’avrebbe consegnata a Mussolini nel vano tentativo di sfuggire alla condanna a morte nel Processo di Verona). Come successivamente sostenuto da Renzo De Felice, tale borsa avrebbe contenuto alcuni documenti sui rapporti tra Vittorio Emanuele III e la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil.

Secondo De Felice, Marcello Staglieno, Fabio Andriola, Matteo Matteotti e, con maggior prudenza, Guglielmo Salotti, le carte del dossier Matteotti sarebbero state gelosamente custodite da Mussolini, e furono inventariate fra quelle sequestrate dai partigiani a Dongo al momento della cattura di quest’ultimo il 27 aprile 1945. Tuttavia, tra i documenti sequestrati, quelli di Matteotti sarebbero andati perduti ed ogni sforzo dello storico reatino di recuperarli presso gli Archivi o il Ministero degli Interni è stato vano.

Successivamente, nel 1933, lo stesso Dumini, quando temeva di essere eliminato dal regime, scriveva e faceva pervenire ad alcuni legali in America una lettera-testamento con l'ordine di renderla pubblica in caso di sua uccisione. Dumini, in tale documento, ammetteva di avere ricevuto l'ordine di uccidere Matteotti, poiché nei vertici del fascismo si temeva che il deputato socialista, nel discorso annunciato per l'11 giugno in Parlamento, avrebbe denunciato la corruzione della convenzione tra lo Stato italiano e la Sinclair Oil, in cui – avrebbe dichiarato Dumini - era coinvolto Arnaldo Mussolini, il fratello del Duce. La lettera-testamento venne ritrovata ai National Archives di Washington da un ricercatore fiorentino, Paoletti, che la pubblicò sulla rivista "Il Ponte".

Per tali motivi, per quasi tutto il ventesimo secolo la storiografia ha tradizionalmente accettato la versione per la quale Matteotti sarebbe stato ucciso unicamente a causa del discorso di denuncia tenuto alla Camera, il 30 maggio 1924. Ma già alla fine degli anni novanta tale tesi è stata messa in discussione dall'altra secondo la quale Mussolini dette l'ordine di assassinare il deputato socialista, per impedire che Matteotti denunciasse alla Camera il grave caso di corruzione esercitato con successo dalla compagnia petrolifera americana Sinclair Oil, fungente in quell'occasione da battistrada degli interessi della più potente Standard Oil, nei confronti dello stesso Mussolini, e di alcuni gerarchi fascisti a lui vicini.

Il governo italiano, infatti, poche settimane prima del delitto, aveva concesso alla società petrolifera americana Sinclair Oil (al tempo sostenuta economicamente da alcuni dei principali gruppi finanziari di New York, tra cui la banca di John Davison Rockefeller, presidente e fondatore della Standard Oil) l'esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento di tutti i giacimenti petroliferi presenti nel territorio italiano, in Emilia e in Sicilia (RDL n.677 del 4 maggio 1924). Le richieste della Sinclair Oil per poter effettuare scavi in diversi territori della penisola, prevedevano condizioni estremamente vantaggiose per la Sinclair stessa (come la durata novantennale delle concessioni e l'esenzione da imposte).

Da parte del governo italiano vennero scelti come mediatori per trattare l'accordo un insieme di politici, imprenditori e diplomatici (tra cui i ministri dell'economia nazionale Orso Mario Corbino e dei lavori pubblici Gabriello Carnazza) strettamente collegati tra di loro da imprese commerciali (molte delle quali attive proprio in Sicilia), conflitti di interesse e legami con diversi gruppi finanziari ed aziendali statunitensi (tra cui la casa Morgan, uno dei finanziatori della Sinclair Oil). I responsabili italiani, seppur con pareri leggermente diversi e nonostante le condizioni palesemente vantaggiose per la Sinclair, appoggiarono tutti l'idea dell'accordo. La possibile presenza della Sinclair Oil sul mercato italiano destò la preoccupazione degli inglesi della Anglo-Iranian Oil Company (controllata dal governo britannico), anche loro interessati allo sfruttamento di possibili giacimenti.

Sulla scia della interpretazione di Mauro Canali risalente al 1997, anche il giornalista ed ex dirigente dell'ENI Benito Li Vigni in un successivo saggio del 2004, Le guerre del Petrolio, in cui dedica alcuni capitoli alla situazione del mercato petrolifero nell'Italia degli anni venti, collega l'affare Sinclair con la morte di Matteotti. Agli inizi degli anni venti l'80% del fabbisogno di idrocarburi italiano era garantito dalla Standard Oil, tramite la Società Italo-Americana pel Petrolio, mentre il restante era fornito dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell. Secondo Mauro Canali, la Standard Oil avrebbe stipulato un accordo sottobanco con la Sinclair Oil, delegando ad essa l'operazione in Italia diretta anche a bloccare la temuta espansione inglese sul mercato italiano.

Successivamente, timorosa che progressi inglesi nel mercato italiano potessero essere coronati da successo, soprattutto se la Sinclair Oil si fosse trovata in difficoltà a causa dello scandalo che la stava travolgendo negli USA, avrebbe deciso di intervenire in Italia direttamente, proponendo prima nel febbraio del 1923 una convenzione per la ricerca del petrolio italiano, senza successo, e successivamente associandosi con la Banca Commerciale Italiana e richiedendo i permessi per esplorazioni in diversi territori, tra cui la Sicilia, dove erano ancora pendenti le richieste della Sinclair. A conferma di questa tesi Mauro Canali documenta come Filippo Filippelli, (personaggio molto influente, legato economicamente ad Arnaldo Mussolini di cui gestiva le fonti di finanziamento, fondatore del Corriere Italiano, giornale a cui peraltro era stato intestato il noleggio dell'auto con cui venne prelevato Matteotti) pochi giorni prima della stipula della concessione, avesse ricevuto una prima rata di alcuni milioni di lire, a cui ne avrebbero dovute seguire altre, dalla Società Italo-Americana pel Petrolio, ovvero proprio la filiale italiana della Standard Oil.

A rendere ancora più complessa la situazione si aggiunse un'inchiesta negli Stati Uniti su una possibile corruzione portata avanti dalla Sinclair Oil per ottenere il controllo di un pozzo rinvenuto di valore strategico nei pressi della Teapot Rock nello stato del Wyoming. L'inchiesta si concluse solo alcuni anni dopo, nel 1929, con la cancellazione della concessione e la condanna del rappresentantante del gabinetto di governo che aveva firmato la concessione, il senatore repubblicano Albert B. Fall (la prima condanna al carcere della storia statunitense per chi ricopriva ruoli nel gabinetto presidenziale) e del presidente della Sinclair, Harry Ford Sinclair. Le notizie di queste scandalo, che negli USA stava suscitando un grande scalpore, non ebbero però molto risalto nei media italiani, forse per non rovinare la possibilità dell'accordo con la compagnia petrolifera.

Il governo italiano nella primavera 1924 accelerò la stipula degli accordi con la Sinclair Oil, che furono firmati il 29 aprile e ratificati dal consiglio dei ministri e dal parlamento pochi giorni dopo. In cambio di tangenti, la Sinclair avrebbe inoltre ottenuto di non permettere a un ente petrolifero statale di intraprendere trivellazioni nel deserto libico.

Il governo inglese (che aveva ottenuto i dettagli dell'accordo tra Sinclair Oil e governo italiano fin da prima che questi venissero ratificati ufficialmente e resi pubblici) percepì la concessione come un attacco diretto ai propri interessi e sui media britannici del tempo questo accordo venne pesantemente criticato. Proprio durante questa violenta campagna stampa contro l'operato dell'Italia, Matteotti effettuò un viaggio in Inghilterra: secondo Mauro Canali, durante questo viaggio il politico socialista avrebbe acquisito (forse da fonti vicine ai Laburisti) le prove della corruzione presente nell'affare Sinclair, o per lo meno avrebbe completato le informazioni già in suo possesso. Li Vigni, a sua volta, fa notare che la tesi, in base a cui la fonte delle informazioni sulla corruzione fosse inglese, venne citata dopo la morte del politico sia dai quotidiani statunitensi, sia dalle stesse fonti vicine al partito fascista (l'articolo non firmato La grande piovra del Popolo d'Italia, sull'edizione del 10 agosto 1924), in questo caso incolpando "la mano stessa che forniva a Londra all'on. Matteotti i documenti mortali (petroli - prestito polacco - buoni germanici ecc.)" di essere anche la mandante dell'omicidio.

La tesi che legava l'omicidio di Matteotti al timore di denunce della corruzione venne ampiamente sostenuta dalla stampa inglese, soprattutto da quelle politicamente vicina ai Laburisti: proprio l'organo di partito del Labour, il Daily Herald, accusò apertamente Arnaldo Mussolini di essere tra i politici destinatari di una tangente di 30 milioni di lire pagata dalla Sinclair Oil per ottenere la concessione. Sulla rivista English Life venne pubblicato postumo un articolo di Matteotti in cui il politico aveva affermato di avere la certezza che vi era stata corruzione tra la Sinclair Oil e alcuni esponenti del governo, di cui avrebbe potuto rivelare l'identità. Mussolini comunque decise di cancellare gli accordi con la Sinclair Oil nel novembre del 1924. Secondo lo studio di Canali, la vedova Velia Matteotti, e i figli Giancarlo e Matteo non accusarono mai Mussolini, neppure dopo la sua uccisione e la caduta del regime nel 1945 e - cosa altrimenti inspiegabile e straordinaria - non si costituirono parte civile nemmeno al processo del 1947, in quanto il fascismo (che però nel 1947 non esisteva più) ne aveva comprato il silenzio. Secondo la documentazione di Canali, infatti, la famiglia Matteotti, in quel momento in una situazione finanziaria drammatica ed a rischio bancarotta, avrebbe ricevuto alcuni milioni dalla polizia fascista; la vedova si sarebbe in cambio impegnata all'acquiescenza nei confronti del regime, a non espatriare e ad interrompere tutti i rapporti con il mondo antifascista esule. L'ultima prova di ravvedimento che il regime volle fu che uno dei figli, che fino ad allora erano andati tutti e tre in scuole private, si iscrivesse e frequentasse una scuola pubblica. Cosa che puntualmente avvenne. (si trattò di Matteo, che venne iscritto al Liceo Mamiani di Roma).

« I familiari di Matteotti hanno sempre sospettato che mandante dell'omicidio fosse re Vittorio Emanuele, secondo loro proprietario di quote della Sinclair. Invece, io sono giunto alla conclusione che fu proprio Mussolini, che aveva intascato tangenti direttamente da questa operazione, a ordinare l'eliminazione del suo avversario politico. Il fatto che gli americani avessero individuato nella Ipsa la società con la quale Mussolini gestiva i profitti dell'estrazione del petrolio conferma un dato importante del consolidamento della sua posizione personale e del movimento fascista. »

(Mauro Canali, intervista ad Oggi 2000, n° 51, di Gennaro De Stefano)

Altre ricostruzioni

Renzo De Felice dedica numerose pagine alle aperture mussoliniane verso sinistra prima e dopo le contestate elezioni del 1924, e bruscamente interrotte dal delitto Matteotti. In particolare al discorso parlamentare del 7 giugno 1924 (tre giorni prima del rapimento di Matteotti), nel quale lo storico individuerebbe fra le righe l'offerta "ai confederali di entrare nel governo". De Felice prosegue anche nel notare che erano proprio i socialisti più intransigenti (Matteotti, Turati, Kuliscioff etc.) i più preoccupati (oltre, ovviamente, all'ala destra del fascismo) da questo possibile "spostamento a sinistra" di Mussolini.

Fra le motivazioni del rapimento o comunque fra gli strascichi del delitto, infatti, una tra le interpretazioni sarebbe che vi fosse il tentativo del fascismo intransigente di colpire direttamente Mussolini e la sua politica di apertura a sinistra e di parziale legalità parlamentare, impedendogli un riavvicinamento con i sindacalisti di sinistra (Mussolini aveva appena chiesto ad Alceste De Ambris di assumere incarichi di governo, ottenendone rifiuto) e perfino coi socialisti e la Confederazione Generale del Lavoro (CGL).

Carlo Silvestri — giornalista al tempo in forza al Corriere della Sera, di fede socialista e amico fraterno di Filippo Turati — fu uno fra i grandi accusatori di Benito Mussolini in rapporto al delitto Matteotti, ma successivamente, riavvicinatosi a Mussolini, durante la Repubblica Sociale Italiana (al punto da esserne definito come l'ultimo suo amico) disse di aver accentuato le proprie accuse per fini di convenienza politica.

Il pubblicista Bruno Gatta ha elencato vari nomi di studiosi della materia, storici o testimoni (fra cui Federico Chabod, Benedetto Croce e Renzo De Felice) i quali in epoche diverse ritennero che Mussolini non avesse avuto responsabilità dirette nell'omicidio Matteotti.

Riconoscimenti

Sul luogo del ritrovamento del corpo di Matteotti è stato eretto un monumento in ricordo. Gli sono state inoltre intitolate diverse strade e piazze in gran parte delle principali città italiane.

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