sabato 27 giugno 2015

taglia nubi: follia NATO


Sassari: giugno 2015
 di Gianni Lannes


Nubi chimiche e nuvole naturali: le immagini parlano. Qualche giorno fa gli ufficiali del servizio meteorologico dell'Aeronautica militare italiana hanno ricevuto l'ordine scritto di non rilasciare dichiarazioni pubbliche ai mass media sul cosiddetto fenomeno delle scie chimiche (così definite nei manuali operativi dell'Us Air Force dal remoto 1990). Allora, perché negare ostinatamente l'evidenza? Forse, in conseguenza delle attività belliche non convenzionali in tempo di "pace" è in atto un avvelenamento indicibile della popolazione tricolore?


Sassari: giugno 2015

Proprio in Sardegna, Nasa e Max Planck Institute già nei primi anni '60 hanno realizzato segretamente uno dei primi esperimenti mondiali con dispersione di bario nell'atmosfera, tanto per vedere l'effetto che fa.


Sassari: giugno 2015
Sassari: giugno 2015

Sassari: giugno 2015

 Sassari: giugno 2015
Sassari: giugno 2015
Sassari: giugno 2015
Sassari: giugno 2015

Sassari: giugno 2015
Sassari: giugno 2015
Sassari: giugno 2015
Sassari: giugno 2015
Sassari: giugno 2015
Sassari: giugno 2015
Sassari: giugno 2015


fonte: sulatestagiannilannes.blogspot.it

a chi viaggia e a chi non viaggia

un ponte lungo 5 giorni, che parte da venerdì e giunge ad oggi. non male.
una lunga salutare camminata, peccato che domani sia finita. com'è potuto succedere?
intanto venerdì mattina mostra di quel gran genio di Leonardo.
che mostra eccelsa.
e poi a spasso per la mia città a vedere qualche novità, come il nuovissimo mercato del Duomo sopra la ristrutturata Feltrinelli.




un caffè e una brioche, buoni.
un giro per il mercato, piccola spesa, cara.
un giro al secondo piano, un bistrot ben messo, abbordabile.
un giro al terzo piano, un ristorante Le bollicine del Duomo, accattivante.
e un altro ristorante Spazio Milano, con i giovani cuochi della Niko Romito Formazione (mah..), senza giudizio, direi apparentemente, economicamente, inavvicinabile.
a volte la sensazione è che un certo nuovo di Milano sia solo per ricchi,  esclusività che accontentano sempre i soliti ultra benestanti. Milano è cara, costosa, seleziona e tiranneggia, e questo, ovviamente, non mi piace. e questo è certamente un grave, gravissimo errore.


certamente bella, e democratica, è la vista, sulla galleria, sulla piazza.
uno sguardo alla galleria ristrutturata, luminosa.
un salto all'ex albergo diurno Capobianchi, in piazza del Duomo 19/A, ora Expo in città Lounge, luogo di eventi, incontri e conferenze. ma anche momenti di barbershop, angoli di lettura, temporary shop, ricarica cellulare, infopoint, guardaroba.
alle 12.00: chiuso.
avranno fatto tardi ieri sera.
ma quando apre allora?
ma l'idea non è nuova, anzi.
Aperto nel 1924, il primo diurno milanese era molto di più di un semplice bagno pubblico: accanto a docce e bagni in tinozza, forniva servizio di deposito bagagli, lavanderia e ancora barbiere, parrucchiere, manicure, noleggio ombrelli, manutenzione cappelli, divanetti di lettura e scrittura, fino alla vendita dei biglietti per treni e spettacoli. Insomma era una vera e propria città sotterranea, costruita per rispondere a un’esigenza igienico sanitaria, ma divenuta in breve luogo di passaggio e svago. L’idea è di Cleopatro Cobianchi che, di ritorno da un viaggio a Londra (era il 1911) decide di importare anche da noi questa struttura dedicata alla cura della persona. Il successo è immediato (come anche l’appoggio del re Vittorio Emanuele III e del Duce) e in più i costi per usufruire del servizio sono alla portata di tutti. “Entrando era come varcare la soglia di un altro mondo”, ci racconta Laura Bolognini Cobianchi, pronipote di Cleopatro, il cui padre, assieme allo zio, gestiva il Diurno di piazza Duomo. “Ci si lasciava alle spalle il caos della città, per entrare in una dimensione ovattata, ma familiare. C’erano i profumi del vapore e gli odori del legno, il rumore delle vecchie macchine da scrivere con i tasti e ancora il banco dei cambi e una serie di cunicoli che correvano nel ventre della città” 
testo di Marilena Roncarà
http://www.clubmilano.net/2015/02/albergo-diurno-cobianchi/ 

strepitosa scoperta. come sia nella veste rinnovata non so, ma l'ex Capobianchi, pensato per dare "a chi viaggia e a chi non viaggia" ristoro, recupero, servizi, è un'idea da irromentabile Milano, avrei voluto vederlo allora. potrei vederlo adesso.

fonte: nuovateoria.blogspot.it

mercoledì 24 giugno 2015

la storia del re folle


Questa storia è tratta dal libro di Paulo Coelho, pubblicato nel 1999 ed intitolato: “Veronika decide di morire” 
“Un potente stregone, con l’intento di distruggere un regno, versò una pozione magica nel pozzo dove bevevano tutti i sudditi. Chiunque avesse toccato quell’acqua, sarebbe diventato matto.
Il mattino seguente l’intera popolazione andò al pozzo per bere. Tutti impazzirono, tranne il re, che possedeva un pozzo privato per sé e per la famiglia, al quale lo stregone non era riuscito ad arrivare. Preoccupato, il sovrano tentò di esercitare la propria autorità sulla popolazione, promulgando una serie di leggi per la sicurezza e la salute pubblica. I poliziotti e gli ispettori, che avevano bevuto l’acqua avvelenata, trovarono assurde le decisioni reali e decisero di non rispettarle.
Quando gli abitanti del regno appresero il testo del decreto, si convinsero che il sovrano fosse impazzito, e che pertanto ordinasse cose prive di senso. Urlando si recarono al castello chiedendo l’abdicazione. Disperato, il re si dichiarò pronto a lasciare il trono, ma la regina glielo impedì, suggerendogli: – Andiamo alla fonte, e beviamo quell’acqua. In tal modo saremo uguali a loro – . E così fecero: il re e la regina bevvero l’acqua della follia e presero immediatamente a dire cose prive di senso. Nel frattempo, i sudditi si pentirono: adesso che il re dimostrava tanta saggezza, perché non consentirgli di continuare a governare?

Cosa ha da insegnare una storia come questa? molti di noi ci si possono 

ritrovare,quante volte nella vita comune ti ritrovi a fare una scelta come quella del Re e della Regina e bevi l'acqua avvelenata per essere come gli altri? per non essere considerato la pecora nera ,per non essere criticato, accusato,
per non avere fastidi

Gli altri anche se sono la maggioranza non hanno necessariamente ragione.

la verita' non sta mai nella maggioranza, segui il gregge e diventerai una pecora, io consiglio di seguire se' stessi, siamo esseri unici e irripetibili e i nostri sogni ci possono portare a raggiungere il nostro destino che è la gioia suprema

Se bevi alla fonte dell'acqua avvelenata, se ti adegui, se segui le informazioni che ti giungono dalle Tv e dai giornali avveleni la tua mente diventi come tutti gli altri uniformata alla massa di menti folli Guidate da menti folli verso obiettivi folli, non credere che in te c'è qualcosa di sbagliato,solo perché non sei come gli altri, questo è quello che vogliono farti credere, la massa non accetta il diverso, ma non per questo tu ti devi adeguare alla massa, sii te stesso è il solo modo di crescere di evolvere.

Bevi alla sorgente pura  che c'è dentro di te, rifiuta l'acqua avvelenata e segui la tua strada,abbi fiducia e arriverai al tuo destino, non c'è altro modo a volte 
il sentiero è arduo altre volte facile da percorrere, ma non c'è altro modo il sentiero è tuo e solo tuo, non si puo' seguire la strada di altri...questo è ciò che credo

Antar Raja


http://divinetools-raja.blogspot.it/
Buon Ritorno... a casa

http://altrarealta.blogspot.it/

domenica 21 giugno 2015

controllo mentale: resistenza all'obbedienza ed alla persecuzione

di Cassandra D’Eleonora

Ci sono letture, che aiutano la razionalizzazione di un dolore acuto come di una ferita sanguinante, non cicatrizzata: non si risana, né si guarisce, né alcun ristoro del danno ingiunge a risarcire del male patito, ma, almeno, scandagliano il vortice del male, lo analizzano come un biologo osserva le particelle dell’atomo, così è questo libro, che  coglie l’analisi psicologica dell’attimo di frantumazione della propria etica morale ed individuale subordinata al giogo collettivo della persecuzione contro una singola persona oltraggiata e danneggiata oltre ogni limite sopportabile a tutela della stima di sè.

Il seguente articolo si propone di essere un’elaborazione personale di argomenti desunti dalla lettura del libro “Obbedienza all’autorità”, di Stanley Milgram, Einaudi, 2003, il cui autore merita alcuni cenni biografici, che successivamente potranno essere meglio acquisiti dalle lettrici e dai lettori, qualora interessati.
    
Nato nel 1933 a New York, figlio di genitori sfuggiti all’ascesa nazista, la sua identità originaria fu rafforzata dall’eredità esistenziale della Shoah, di cui si occupò in età adulta assieme all’interesse della storia. Al conseguimento della laurea in psicologia sociale all’Università di Harvard svolse una intensa attività in qualità di ricercatore e di docente presso l’Università di Yale ed alla City University di New York, il cui ambito si caratterizzò dall’analisi del pericoloso fenomeno del conformismo: fu promotore di indagini pertinenti la psicologia della vita urbana ed infine analista acuto del riverbero causato dal potere condizionante dei programmi televisivi sul comportamento antisociale.
   
Dotato di una creatività inesauribile tra l’altro era dedito alla scrittura di testi destinati all’infanzia ed anche di libretti per musical; ciò nonostante alla sua morte avvenuta nel 1984, ha lasciato, però, poche opere scritte, di cui si riportano i titoli a piè dell’articolo. Principalmente propenso alla divulgazione del sapere scientifico ancora oggi è considerato il pioniere della produzione di documentari educativi destinati al grande pubblico, noti non soltanto negli Usa, ma anche in Europa, come “Obedience” riguardanti gli esperimenti da lui condotti assieme ad un’équipe presso l’Università di Yale.


Premesse dell’esperimento, sue modalità ed i risultati
“Il problema dell’obbedienza, in quanto fattore decisivo nella genesi del comportamento, è emerso in modo drammatico in epoca recente … l’obbedienza è il meccanismo psicologico, che lega azione individuale ai fini politici … che unisce uomini e sistemi di autorità ... è una tendenza profondamente radicata nel comportamento di molti, un impulso prepotente, che supera di gran lunga ogni precetto morale, ogni senso etico, ogni forma di solidarietà … lo sterminio degli ebrei europei compiuto dai nazisti è solo il più clamoroso ed abominevole dell’innumerevole serie di atti immorali progettati da migliaia di individui in nome dell’obbedienza …

Se uno sperimentatore ordina ad  un soggetto di infliggere ad una terza persona delle sofferenze di intensità crescente a quali condizioni costui obbedirà ed a quali condizioni si rifiuterà di eseguire gli ordini? … l’obbedienza assume toni di cooperazione, quando intervengono la forza o la minaccia, l’obbedienza si riveste di un’alea di paura e costrizione … Le nostre ricerche si interessano soltanto all’obbedienza accettata volontariamente in assenza di ogni tipo di minaccia, all’obbedienza, che si fonda sulla semplice affermazione del diritto dell’autorità di impartire ordini ad un individuo. In questa ricerca la forza dell’autorità è derivata dai poteri, che in qualche modo il soggetto le attribuisce e non dall’impiego di pressioni fisiche amorali”

Queste sono le dichiarazioni preparatorie di Stanley Milgram alla sperimentazione svolta presso il dipartimento dell’Università di Yale dal 1960 al 1963, che discende da una tradizione quasi centenaria, allora, di ricerche relative alla psicologia sociale iniziata nel 1898 da Boris Sidis e proseguite successivamente da altri studiosi come Lewin, Block, Cartwright e soprattutto Salomon Asch, frequentemente citato nel libro.
   
I partecipanti furono reclutati attraverso un’inserzione pubblicitaria apparsa su un giornale locale, l’esperimento inscenato mirava all’acquisizione conoscitiva del limite dell’obbedienza scaturente il dissenso, stante la facoltà dell’esercizio delle scelte morali: si incaricavano due soggetti volontari, l’uno espletante il ruolo dell’insegnante, mentre l’altro quello dell’allievo, cui lo sperimentatore informava trattarsi di un’indagine finalizzata allo studio degli effetti della funzione circa l’apprendimento. Al polso dell’allievo veniva applicato un elettrodo, al quale venivano emanate scariche elettriche ad intensità variabile dipendente dalla risposta esatta a quesiti riguardanti l’apprendimento di una serie di associazioni di parole poste dall’insegnante, il quale manovrava un generatore falso di corrente: l’allievo era finto, l’insegnante era il ruolo della persona reclutata, vero soggetto dello studio sperimentale di Milgram, che si proponeva l’analisi dei fattori motivanti l’obbedienza, cioè dell’individuazione delle condizioni soggiacenti alla sottomissione, tra cui quello decisivo era la risposta all’autorità. 

Più precisamente lo spettro sperimentale afferiva la capacità dell’insegnante all’adempimento del suo ruolo ed anche all’opzione del dissenso, quindi della ribellione all’autorità per scelta morale. Interessanti sono le analisi dei casi studiati, per i quali il libro merita una lettura scrupolosa, tuttavia se ne riporta una sintesi forse infelice: “gli esperimenti sull’obbedienza ci insegnano, che nelle concrete situazioni sociali possono agire vincoli e costrizioni, che riescono a calpestare il nostro senso morale”.
    
Infatti, accadde, che non pochi turbamenti furono causati dalle conclusioni acquisite dalla ricerca, poiché numerosi soggetti prestatisi all’esperimento non dimostrarono alcuna pietas verso la vittima, come si evince dal testo: “essi (i risultati emersi, n.d.A.) mostrano la possibilità, che la natura umana o più precisamente il tipo di carattere prodotto dalla democratica società statunitense, non costituisce  difesa sufficiente per arginare la brutalità e la crudeltà  contenute negli ordini di un’autorità immorale. Un numero impressionante di persone esegue i comandi senza porsi problemi morali, perché questi ordini provengono da un’autorità legittima”.
   
Fra gli estimatori dell’esperimento si menzioni H.V. Dicks, che in uno studio pubblicato nel 1972 constatava dei parallelismi motivazionali delle leve psicologiche tra i soggetti sperimentati da Milgram e le ex SS. 


Conformismo sociale, conformità ed obbedienza
Il conformismo sociale non si sviluppa in ossequio né ad un comando, né ad alcuna legge, d’altronde l’idea del proprio sé rientra nella gestione dell’autocontrollo della condotta e dell’autonomia morale, pertanto le comunità di appartenenza e/o di riferimento sono elettive da parte del singolo soggetto, padrone della sua scelta decisionale. 

Di contro un gruppo folto di persone attiva dei mutamenti psicologici silenti e subdoli rivolti ad una regressione della propria coscienza individuale per acquisire quella collettiva, quasi avvenisse una suggestione inconscia paralizzante le istanze morali della individualità singola; ne consegue una condotta sociale permeata dall’emulazione e dall’imitazione del gruppo, in questo modo si conclama la resa dell’iniziativa personale. Di solito tale mutazione si innesca negli ambienti e nei contesti disocializzazione totalizzante; a questo punto, per precisazione di termini e di concetti, seppure il confine appaia labile, occorre distinguere la conformità dall’obbedienza, secondo le asserzioni di  Milgram, riportate in sintesi: la conformità disciplina il comportamento fra persone di identico status fino all’omogeneizzazione, anche se le pressioni verso tale direzione sono implicite e ne può scaturire una condotta assunta di propria volontà, non cogliendone l’induzione sottostante. Invece, l’obbedienza prescrive l’accettazione di regole impartite nonché espresse esplicitamente da una struttura gerarchica ai suoi subordinati, in modo del tutto acquiescente e … cosciente recepite da questi ultimi, essendo considerati particolarmente suscettibili (e suggestionabili) ai segnali provenienti dal livello superiore al proprio.


Il gruppo obbediente e l’autorità
Nel dimenticatoio deresponsabilizzante sono relegati i conflitti morali ed i pensieri riflessivi del subordinato, la cui preoccupazione è l’adempimento dell’ordine ricevuto, realizzando il proprio sé attraverso la sottomissione, insomma un obbediente privo di pensiero, la cui responsabilità dell’operato è proiettata verso il livello elevato della struttura, che ne determina la legittimità morale e le sanzioni alle infrazioni. Tra le cause  determinanti la sottomissione sono annoverate: la ligia osservanza delle norme di buona educazione, l’assunzione di un impegno, la frustrazione dal mancato adempimento ai compiti prefissati, gli aggiustamenti adattivi quali la diligenza operativa, l’incapacità di contrapposizione ad un diniego, la deresponsabilizzazione ed il timore di sanzioni sia da parte del gruppo che dall’autorità.
   
A quest’ultima appartiene la capacità di strumentalizzazione dei gruppi sottomessi secondo il paradigma della sottomissione e dellasubordinazione, imponendo scale gerarchiche, le quali ad hoc applicano lo schema “ricompensa-punizione”, premessa dello stato eteronomico, cioè una fase di organizzazione  mentale inducente alla passività ed all’assuefazione autoregolante l’obbedienza.
   
Per stato eteronomico si intende il mutamento interno di controllo gerarchico: acquisito dalla cibernetica questo concetto si ravvisa applicabile all’essere umano in termini  di atteggiamento mentale: un comportamento viene adeguato contritamente alle aspettative dell’autorità, fattivamente  una consegna di resa per l’esecuzione di ordini impartiti. Detto con maggiore chiarezza,  lo stato eteronomico costituisce il presupposto di atti di obbedienza, laddove la loro definizione ed il loro imperativo dell’esecuzione siano complementari al comando ricevuto oppure altra definizione, se si preferisce, è lo stato mentale inibente, che  predispone all’adempimento di istruzioni provenienti dall’autorità, alla quale è riconosciuta deferenza come un obbligo situazionale. Purtroppo il soggetto subente non distingue l’autorità realeda quella apparente, semmai propende per quest’ultima, purché assuma un’aria autorevole, paventi atteggiamenti di superiorità da status dominante e ne abbia le sembianze anche esteriori con l’abbigliamento, da una posizione di controllo sociale confacente una certa situazione, quando al contrario, invece, assolutamente non lo è: questi sono gli elementi esteriori e superficiali idonei alla percezione di un’autorità legittima. Di fatto e per definizione l’autorità non deriva dalle sue caratteristiche personali, piuttosto dalla posizione occupata nellastruttura (piramide) sociale, a cui ne consegue la percezione di legittimità, pre-condizione necessaria allo stato eteronomico.
   
Il passaggio ulteriore è caratterizzato dalla volontarietà perigliosa della sua adozione al sistema autoritario, contiguo alla determinazione di unimpegno schiavizzante, nonostante situazioni soltanto apparentemente scevre da coercizioni esterne.  Affatto trascurabile è  il sistema relazionale oppure il contesto sociale, che  svolge una funzione determinante per il conferimento della coerenza e dell’attendibilità all’autorità, soprattutto della legittimazione all’esercizio della suainfluenza condizionante adoperata contro gli adepti, in altre parole devono risultare attributi di rango consoni all’ambiente soggiogabile, non escluso il disprezzo contro il prossimo all’insegna dello strapotere e della supremazia tout court abusando ogni capacità manipolatoria.
   
Sinteticamente, se privatamente una persona è dotata di requisiti di coscienza e di resistenza contro gli istinti nocivi dei suoi simili, di contro allo stato eteronomico la stessa interiorizza la modalità punitiva tipica dell’ambiente gerarchizzato, né è capace di arginare il flusso irrompente dell’emulazione, che le frantuma ogni residuo di inibizione etica, preoccupata com’è dalle minacce sanzionatorie dispensate dall’autorità. Del resto il suo impegno forzato di adattamento alle aspirazioni generali ed alle pratiche sociali del gruppo profonde verso la conformità delle esigenze organizzative della gerarchia, che gli garantirebbe una continuità malintesa perché nefasta.


Il disprezzo contro la vittima
Uno di tanti aspetti riguardanti gli obiettivi dei gruppi gerarchizzati finora descritti è l’attività denigratoria contro una persona ridotta a mero bersaglio sia della violenta  diffamatoria propaganda quanto delle altre attività lesive, laddove l’una è propedeutica alla seconda. Alla base di questo stalking vige la considerazione preconcetta della presunta inferiorità della persona-vittima-bersaglio risultante spregevole e quindi meritevole di denigrazione del gruppo gerarchizzato organizzante trame ordite e criminose a danno delle sue proprietà, della sua sopravvivenza economica, della sua salute , del suo nome, della sua reputazione sociale, non ultima della sua riservatezza esistenziale. 

Strettamente contestuale a questa condizione pregiudizievole si ravvisa il reclutamento degli adepti ed il loro giudizio pseudo-morale sospinto dalla pressione collettiva sotto lo spirito dell’emulazione del gruppo, innestando gravi processi di deindividualizzazione e di desensibilizzazione  condivise persino coltivate, non ultimo anche con la supervisione prolungata della vittima (varie tipologie esistenti di sistemi illeciti di spionaggio e violazione di ogni privacy, domestica, postale, telefonica, ect.), a sua insaputa, oggetto di scherno e di denigrazione con la proposizione di situazioni artificiose pianificate ovunque e con qualunque mezzo. In pratica si disattiene il principio elementare, secondo cui non bisogna fare del male ad una persona inerme ed innocua sia a sé che agli altri.

Questo copione stranoto venne svolto dal nazifascismo. Ed oggi … si sta replicando.


Riferimenti:

Obbedienza all’autorità, S. Milgram, Einaudi, 2003

Opere di Stanley Milgram:
- Dynamics of obedience. Experiments, in  “Social Psychology-Mineographed Report”, National   Science    Foundation, 1961;
- Behavioral Study of Obedience in “Journal of abnormal psychology”, 1963;
- Group pressure and action against a person, in  “Journal of abnormal social psychology”, 1964;
- Issue in the study of obedience. A reply to Baumrind, in “American Psychology”, 1964;
- Liberating effects of group pressure, in “Journal of personality and social psychology”, 1965;
- Obedience (a filmed experiment), distribuito dalla N.Y. University film Library, 1965;
- Some conditions of obedience and disobedience to authority, in “Human relations”, 1965;
- Integration Obedience. Error and Evidence, A reply to Orne and Holland, in A.G. Miller, 1972;
- Obedience to authority, Harper Collins Publishers Inc. 1974.

fonte: freeondarevolution.blogspot.it

The Score



è un film del 2001 diretto da Frank Oz, con Robert De Niro, Edward Norton e Marlon Brando.

Questo è l'ultimo film in cui recita Marlon Brando, l'unico interpretato assieme a De Niro. Le sue condizioni di salute infatti peggiorarono progressivamente non consentendogli più di girare altri film sino alla sua morte avvenuta nel 2004.

Trama

Montreal, Québec: Nick Wells è un ladro professionista di gioielli e opere d'arte che decide di ritirarsi dal giro e dedicarsi alla gestione di un raffinato ristorante che lo tiene impegnato legalmente. D'ora in avanti è infatti intenzionato a rigare dritto e a vivere una vita tranquilla con la sua fidanzata, Diane, che fa l'assistente di volo.

Viene però fermato dal vecchio amico e socio Max che, presentandosi nel locale che Nick gestisce come copertura, gli propone il colpo della vita: rubare uno scettro del 1661 dal valore inestimabile, nascosto dentro la gamba di un vecchio pianoforte che si trova situato nella cantina di una dogana, lì bloccato perché ritenuto dalle autorità infestato da insetti nocivi.

Assieme a loro si unisce Jack Teller, ladro ambizioso che si finge disabile per poter lavorare come bidello nella dogana (in modo da poter meglio pianificare il furto) e fingendo di chiamarsi Brian.

Nick successivamente contatta il suo amico Steven, un ragazzo genio dell'informatica, per chiedergli di introdursi nel sistema di sicurezza per ottenere i codici di bypass che consentiranno loro di manipolare temporaneamente i protocolli di avviso del sistema durante la rapina.

Una volta pianificato il tutto, Nick utilizza un tunnel della rete fognaria per entrare nel seminterrato e riesce poi a far esplodere la cassaforte dove è conservato lo scettro (lì conservato dato che nel frattempo le guardie avevano scoperto - grazie all'intervento di Jack che fa il finto tonto - essere nascosto nella gamba del pianoforte, che avevano iniziato a bruciare). Intanto Jack che sta manomettendo il segnale delle videocamere di sicurezza viene scoperto da Danny, uno dei custodi, ma Jack lo minaccia con una pistola e lo chiude in uno sgabuzzino.

Dopo aver preso lo scettro e averlo nascosto in una custodia, Nick si trova nella cantina faccia a faccia con Jack che ha intenzione di fregarlo: infatti gli punta una pistola costringendolo a consegnargli lo scettro e fa poi scattare l'allarme antifurto.

Inseguito da alcuni poliziotti, Nick riesce a fuggire attraverso le fogne e a salvarsi, dopodiché telefona a Jack (anch'egli scappato dalla dogana) facendogli capire di aver commesso un grave errore: infatti Jack è stato fregato da Nick poiché non ha lo scettro, ma nella borsa ha solo un rozzo simulacro fatto di pezzi di ferro, mentre il vero scettro è nelle mani di Nick.

Attraverso un notiziario, si scopre che Jack è ricercato (è stato infatti Danny, il custode, a sporgere denuncia) mentre il complice Nick non è stato identificato. Il film si conclude con Nick che raggiunge la fidanzata Diane all'aeroporto dove si abbracciano, i due iniziano così una vita normale, come Nick le aveva promesso.

Produzione

Durante la produzione, il regista Frank Oz ebbe numerosi screzi con l'attore Marlon Brando che derideva il regista chiamandolo "Miss Piggy", per via del suo passato lavoro come doppiatore dell'omonimo personaggio dei Muppets. Non riuscendo ad andare d'accordo, Robert De Niro fu costretto a dirigere Brando al posto di Oz con quest'ultimo a dargli istruzioni via cuffia.

Accoglienza

Il film ha ricevuto recensioni positive. Su un budget di 60.000.000 di dollari ha incassato più di 110 milioni di dollari.

Curiosità

De Niro e Norton sono tornati a lavorare insieme nel film Stone.
La maggior parte dei dialoghi fra De Niro e Brando sono improvvisati.
Norton successivamente ammise di non amare molto la sceneggiatura, recitando nel film solo per lavorare con De Niro e Brando.

fonte: Wikipedia

FINALE

venerdì 19 giugno 2015

Libia: la lucrosa caccia al negro per mandarcelo

artblòondertlòemonde
DI MAURIZIO BLONDET

effedieffe.com

«Siamo qui per essere venduti»: così i migranti – quasi tutti subsahariani – che sono parcheggiati nel centro di raccolta di Zaouia, in Libia, un 50 chilometri ad ovest di Tripoli. Due inviati di Le Monde sono riusciti a avvicinarli (non si conoscono i particolari): come risultati dai loro agghiaccianti racconti, diversi sono rimasti vittime di retate delle ‘autorità’ libiche della zona e del momento.


«Le autorità ci accusano di voler partire per l’acqua, ma è falso», dice uno (Le Monde lo mostra in video): «C’è chi viene preso in casa, negli appartamenti, altri sono presi per strada; come me, io sono stato preso per strada».

«I veri traghettatori sono loro», spiega un compagno. «Dicono agli europei che ci hanno catturato in mare ma è falso! Ci stanno vendendo. Sono loro che gestiscono la prigione e organizzano le partenze per andare in Italia. Sono padroni di appartamenti in riva all’acqua, raccolgono la gente nelle ‘connection houses’. La ‘connessione’ sono loro, la fanno tra di loro, è il loro business. Siamo qui per essere venduti, alcuni a quasi mille dinari (libici). Mangiamo pochissimo, Quando arrivate voi giornalisti, fanno finta, è organizzato».

«Mi chiamo Roland», interviene un terzo, «sono nigeriano. Siamo venuti qui per lavorare, io e i miei amici. Guarda, ho addosso ancora i miei abiti da lavoro. La polizia ci ha arrestato per la strada. Noi non siamo venuti per fare la traversata, siamo venuti per lavorare. Io lavo le auto, questo faccio. Non so più che fare. Tutti i miei soldi, il telefono... tutto! Mi hanno preso tutto, sono in piedi senza niente. Non abbiamo alcun contatto... il mio telefono, tutto! Tutto m’hanno preso. Guardami, sono davanti a te».

«Io mi chiamo Samir, sono somalo. Siamo rifugiati e adesso cerchiamo una vita migliore... ma siamo stati arrestati in Libia. Nove mesi in Libia, capisci, e tre mesi in questa prigione. Cerchiamo la libertà, chiediamo aiuto».

«Mi chiamo Fussa. Sono venuto in Libia tre mesi fa, vivo in Libia, io lavoro. Sono venuto con i miei amici. Ieri tornavamo dal lavoro quando ci hanno arrestati. Ci hanno preso tutti i nostri beni, non abbiamo più niente... e l’acqua qui, è acqua salata. Qui siamo perduti, non mangiamo bene, per favore, domandiamo al Governo di Questo paese di venire in nostro aiuto, e di lasciarci rientrare a casa, nel nostro Paese. Chiediamo la libertà. Prego il Governo di questo Paese di aiutarci. Per favore, chiediamo soccorso, per favore…».

«Se ho l’opportunità di lavorare ancora in Libia lo farò», dice un altro, «se ho questa possibilità lavoro: sono muratore, sono un buon lavoratore».

Un altro ancora: «La sola cosa che vogliamo è tornare al nostro Paese –– è tutto quello che si vuole perché ci hanno affaticato qui, non si mangia, non si beve, non si dorme. Ci sono molte persone malate qui. Abbiamo perduto tutto: il denaro, i nostri passaporti....».

«Ci sono persone che sono qui da più di sei mesi, sette mesi... altri quattro mesi... senza contatto coi parenti. Le nostre famiglie non sanno se siamo vivi o morti».

Il pezzo di Le Monde (qui) non dice molto di più, è costruito come un articolo «di colore», di impressioni e sentimenti (sarebbe come, ai tempi di Stalin, entrare in un Lager siberiano e fare del «colore»). Tuttavia, dal poco si ricava questa visione:

I prigionieri sono tutti negri dell’Africa nera, non vengono dal Medio Oriente, non fuggono le guerre e l’IS.

Molti di loro sostengono essere emigrati per lavoro nella Libia di Gheddafi; si dicono vittime di sistematiche retate da parte di poliziotti (o quel che sono) libici, comunque gente di un qualche «Governo» in combutta con i trafficanti, o trafficanti essi stessi, per essere mandati in Italia su barconi o gommoni.

In Libia c’è la caccia all’africano nero, perché il traffico rende. Siccome l’Italia li accoglie tutti (Manconi e Papa Francesco: «Accogliamoli tutti!») l’industria della tratta libica ce ne manda sempre di più. Se ne procura di sempre nuovi con arresti e retate, li caccia nei suoi campi, e li imbarca –– alcuni contro la loro volontà: quanti? Non sappiamo. Altri di sicuro si sono mossi per venire in Italia via mare. Sarebbe interessante sapere se il business li raccoglie nei loro Paesi, li attrae con la promessa: in Italia vi prendono tutti! Dateci tremila dollari.. .poi furto di denaro, dei passaporti, dei cellulari (tanto in Italia ve ne danno uno nuovo), in compenso un costoso satellitare sul barcone per chiamare i soccorritori italioti.

In un certo senso è una storia di razzismo libico che continua.

Cercando in archivio trovo un titolo del 2011: «È caccia all’africano nero in Libia, ma nessuno lo dice». È un comunicato dell’agenzia Habeshiaper la comunicazione e lo sviluppo (un gruppo di eritrei), e parlava di un altro genere di caccia in voga allora: tutti i neri, per lo più immigrati lavoratori nella prospera Libia di Gheddafi (i libici si sa non lavorano; avevano – diciamo – il reddito di cittadinanza, potevano pagarsi i negri come servi e schiavi) quando Gheddafi è stato rovesciato sono stati presi di mira come «mercenari al soldo del colonnello, e per questo inseguiti, perseguitati e uccisi. (...)» . Vi si racconta di «una donna eritrea, picchiata e buttata fuori di casa dal proprietario, a Tripoli, zona Medina, perché nera. Voi neri africani, gli ha detto, siete mercenari del regime. E fatti di questo genere stanno accadendo ovunque, soprattutto di notte».

«A Bengasi due eritrei sono stati linciati e uccisi dalla folla mentre cercavano di portare assistenza a due connazionali gravemente feriti. I profughi rimasti in vita hanno chiesto aiuto ad una nave inglese, pregando che mettesse in salvo almeno i due feriti, ma hanno ricevuto un rifiuto secco».

A Tripoli, «le famiglie di origine sub-sahariana non possono uscire nemmeno a fare la spesa perché temono il linciaggio. Sono le vittime preferite degli sciacalli depredatori. Molti sono stati rapinati, altri sequestrati. È una persecuzione». «Centinaia di richiedenti asilo politico che erano tenuti nelle carceri libiche, con l'aggravarsi della crisi sono stati costretti dai loro carcerieri a imbracciare le armi per colpire la piazza. Chi si è rifiutato di farlo, è stato ucciso».

La pulsione del linciaggio razzista, la caccia al negro di allora, sembra adesso perfezionata in industria del rastrellamento e vendita del negro all’Italia, che li accoglie tutti.

«Dal gennaio 2015 la guardia costiera libica non salpa più in mare per pattugliamenti», scrive Deutsche Welle in un servizio di poche settimane fa. In aprile, Deutsche Welle non ha fatto un pezzo di colore, ha persino parlato col capo della guardia costiera libica, Mohamed Baithi: il marpione, pieno di compassione umana, gli ha detto che i migranti presi in mare «non vogliono tornare in Libia –– e non si fa fatica a crederlo. Sono loro che «vogliono andare in Europa. Certe volte quando li prendiamo e portiamo indietro, piangono o cercano di distruggere le nostre imbarcazioni».

Messe insieme, le asserzioni del brav’uomo con il servizio fotografico-impressionistico di Le Monde, si intuisce che è la guardia costiera libica a fare i business, o almeno a prenderci la sua parte. Infatti Baithi spiega a DW  (quiquel che già sappiamo: «I barconi mandano un messaggio di SOS, le navi mercantili o i pescherecci nelle vicinanze sono obbligati in base al diritto internazionale marittimo a soccorrerli. Devono prender tutta questa gente a bordo». E il gioco è fatto.

«Siamo qui per essere venduti», dicono i negri imprigionati, e gli impressionisti di Le Monde non chiedono dettagli: venduti da chi? E soprattutto: a chi? Chi vi vuole comprare? Per quanti soldi?

Allo stesso modo, i valorosi inchiestisti di DW non chiedono a Baithi: come mai la guardia costiera libica «non esce più in mare dal gennaio 2015»? Si capirebbe avesse detto: non usciamo più in mare dal 2011, perché l’apparato statale è collassato. Invece: dal gennaio 2015, ossia dall’inizio di quest’anno. Perché? E da allora che il numero dei migranti gettati sui barconi volenti o nolenti è aumentato in modo esponenziale. Ancor più dei 17 0 mila del 2014, che erano già quattro volte di più di quelli messi in mare nel 2013. Centinaia e centinaia arrivano ormai ogni giorno, immediatamente soccorsi dall’Italia e dalla UE, la cui operazione è stata potenziata.

Ad alimentare quella che anche Le Monde chiama «una cinica industria. Il numero degli annegati in mare è salito alle stelle: alla data del 7 maggio, 1829 affogati, nove volte di più del periodo corrispondente del 2014. Fanno economie, li gettano in galleggianti marci promessi a naufragio certo. Sulle coste libiche, i trafficanti li parcheggiano in stamberghe dopo averli spogliati, le autorità li arrestano per mostrare all’Europa che fanno qualcosa e mascherare le loro connivenze occulte».

La nostra carità senza limiti aumenta il numero degli annegati? È una modesta domanda. Tanto più urgente visto che anche da noi fiorisce il business sull’immigrato salvato-in-mare: con la differenza che a pagare il business criminale italiota siamo noi contribuenti italioti. Carità pelosa?

Da noi domina l’accoglienza totale, la carità senza limiti, e guai a chi storce il naso; che non sia quello il fomite dell’industria del negro con retate dall’altra sponda? Che più ne accogliamo e più loro ce ne trovano?

«Siamo qui per essere venduti»; dicono i poveri negri del campo di Zaouia: venduti a chi, precisamente? I trafficanti della loro carne hanno preso i 3-4 mila dollari a ciascuno di loro, li hanno depredati del cellulare e del soldino in tasca, li hanno già puliti e spolpati come ossi di seppia: da loro non possono certo prendere altro. E allora da chi aspettano altri soldi? A chi li hanno venduti o intendono venderli?

Chi li compra in Italia, in Europa, in Occidente?

Viene qualche dubbio: che ci siano organizzazioni occidentalissime che «comprano» i negri dai libici. I complottisti più fanatici (da cui mi dissocio) dicono che c’è un interesse globalista ad inondarci di immigrati, un progetto per affondarci nella destabilizzazione che l’Occidente ha portato in Libia, Siria, Iraq, Yemen. Perché «una fonte dell’intelligence di Londra» accredita la stima di “migliaia di migranti” in pericolo e rilancia l’allarme su possibili ulteriori partenze imminenti, indicando in almeno “mezzo milione” le persone radunate sulle coste libiche in attesa di nuovi imbarchi? Come sanno quella cifra? E perché le navi inglesi che raccolgono gli immigrati dai barconi, prodigandosi in modo eccezionale, poi li sbarcano in Italia? Perché non se li prendono e se li portano? Dopotutto, le navi militari sono pezzi di territorio nazionale.

Maurizio Blondet

Fonte: www-effedieffe.com

fonte: alfredodecclesia.blogspot.it

martedì 16 giugno 2015

Grecia: 10.000 suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio

Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì, ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della nazione».
Giannaros ha un passato nelle truppe speciali: mostra le foto delle sue ultime missioni, in mimetica, immerso in un fiume fino alle ginocchia. È come se avesse bisogno di una pausa, vuole raccontare ancora qualcosa della sua famiglia, degli altri due Theodoros Giannarosfigli, 24 e 28 anni. «Anche il più piccolo è un soldato». Lo dice con un sottinteso chiaro: lui si è salvato. Ma quanti sono i giovani senza speranza? Le statistiche si afflosciano come svuotate di senso al cospetto della forza, della dignità di quest’uomo. «Appena arrivato qui incontravo pazienti che mi chiedevano: ma quanto devo pagare per operarmi qui? Quanto per una lastra? Nulla, rispondevo, questo è un ospedale pubblico. Poi mi sono fatto portare il registro delle prenotazioni e ho capito. La lista d’attesa risultava sempre infinita, ma con una buona “fakelaki” si poteva comodamente saltare la fila». “Fakelaki”, la bustarella. «In cortile ho fatto mettere dei cartelli con una busta sbarrata con una grande x rossa. Significa che qui non si accettano tangenti».
Le parole del più atipico dei manager conducono nell’antro della crisi. I ragionamenti sulla sostenibilità del debito lasciano il posto alla scarsità di siringhe, bisturi, persino guanti per la sala operatoria. «Abbiamo sviluppato un network di scambi tra le diverse cliniche. Andiamo avanti anche grazie a donazioni in arrivo dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania». Theodoros accende un’altra sigaretta. Aspira profondamente, poi scarica fumo e una lunga invettiva. Contro le vecchie classi politiche, le dieci famiglie che hanno monopolizzato l’economia del paese, le «idiote» prescrizioni della “Troika”, il Fondo Monetario, la Tsipras e MerkelBce, la Commissione Europea, Angela Merkel. Spera che Alexis Tsipras possa raggiungere qualche risultato, «ma deve avere dietro tutti i partiti, tutta la Grecia. Questo è l’unico modo che abbiamo per sopravvivere». Già, «sopravvivere».
«Penso continuamente a quei 10 mila morti che abbiamo seppellito nel silenzio. Penso a mio figlio. E penso che se in Germania un cane muore in malo modo, ecco che il caso finisce sui giornali, se ne dibatte in tv. Ma avete mai sentito parlare dei nostri giovani, dei nostri anziani che si sono suicidati? La guerra civile della Jugoslavia ha fatto 20 mila morti. Quella, però, era una guerra. Che cos’è, invece, questa nostra strage? È una domanda a cui non so rispondere, posso solo dire che in questo momento mi vergogno di essere un europeo». Forse è arrivato il momento di andare. Ma Theodoros ha ancora qualcosa da dire: «In questi anni sono stato corteggiato da tutti i partiti, avrei potuto fare il ministro cento volte. Invece ho sempre voluto restare un uomo libero e mi sono fatto un mare di nemici. Continuo a stare qui, a lavorare per 1.400 euro al mese, cinque volte meno di qualche anno fa. Non posso permettermi la macchina, viaggio in scooter e giro con una pistola. Prima che mio figlio se ne andasse così, mi sentivo anche un privilegiato».
(Giuseppe Sarcina, “Grecia: il conto della disperazione? Diecimila suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio”, dal sito del “Corriere della Sera” del 10 giugno 2015).

fonte: www.libreidee.org