domenica 16 giugno 2019

cosa davvero dice il libro di Carlo Infanti sul caso di Yara





Come molte persone ho letto il libro di Carlo Infanti sul caso della povera Yara In nome del popolo italiano. Ho letto la versione digitale. Il libro non è scritto bene, ha parecchi errori, non solo semplici refusi. Non credo dettati dalla fretta di portarlo a termine prima della sentenza della Cassazione sul caso Bossetti. Ma il contenuto del libro è tale, che si sorvola benissimo su tutto ciò. L’autore, dopo aver esposto tutte le sue perplessità sul caso, peraltro pienamente condivisibili, fa addirittura nome e cognome di colui che ritiene l’assassino. Non fornisce, a mio parere, un movente credibile, si ha quasi l’impressione che poco gli interessi, tuttavia fornisce dettagli impressionanti che pare siano stati trascurati dall’inchiesta. Il libro è uscito nell’attesa della sentenza della Cassazione che doveva decidere se ripetere o meno l’esame del DNA che aveva collocato Bossetti sulla scena del crimine. Un DNA molto discusso, trovato sugli slip e sui leggins della povera bambina. La ‘prova regina’ in questo caso, perché manca l’arma del delitto, a esempio, e non ultimo, manca il movente anche se si sostiene quello sessuale. Bossetti non ha mai confessato. Ora, a questo DNA Carlo Infanti, giustamente, dà la massima importanza. Sappiamo che la Cassazione ha deciso poi che la prova non è ripetibile. Da sempre viene detto che la prova non è ripetibile perché manca il materiale sul quale ripetere appunto l’esame. A parte la grande perplessità che mi procura il fatto che qualcuno che è in carcere accusato di un orrendo delitto, non possa a sua difesa, chiedere la ripetizione di una prova che lo inchioda in quel carcere, pare che in realtà il materiale necessario per ripetere l’esame esista. Almeno così afferma il giornalista Giangavino Sulas inviato del settimanale «Oggi». Nella trasmissione televisiva Iceberg del 14 febbraio 2019 il giornalista, verso la fine della puntata (il video è reperibile su youtube a questo indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=yahmj2l3NT0 ), afferma che il 20 novembre 2015 il professor Nevio Casari del san Raffaele di Milano deponendo in aula al processo Bossetti come testimone, dice di avere a disposizione ancora del materiale DNA per ulteriori indagini, volendo.
Sul DNA Carlo Infanti si dilunga moltissimo nel libro, soffermandosi anche su particolari squisitamente tecnici e forse difficili da affrontare per un lettore comune che alla fine può trovarli anche noiosi e saltare l’intero capitolo. E tuttavia, non è questa specifica parte del libro la più interessante, quanto quella che riguarda ancora il DNA, ma relativamente alla paternità di Massimo e Laura Bossetti. Credo non occorra riassumere tutta la penosa questione della relazione extraconiugale della povera Ester Arzuffi, mamma di Bossetti, massacrata dai giornali e dalle tv, ‘accusata’ pubblicamente di aver concepito Massimo e la sorella gemella Laura con l’autista di bus Pierpaolo Guerinoni. La questione però è di basilare importanza perché poi è da lì che si arriva alla identificazione di “ignoto1”. E, da “ignoto1” si arriva a Massimo Bossetti. Ora, la signora Arzuffi ha sempre negato di aver avuto una relazione extraconiugale e mai, su questa questione, ha avuto un cedimento. Infanti, nel libro, mostra di crederle e motiva bene, secondo me, il perché di questa sua convinzione. Anzi, si spinge molto al di là, raccontando dei fatti che di per sé, potrebbero anche avere un impatto più ampio del nome e cognome che lui fa del vero colpevole dell’omicidio della bambina, e che potrebbero spiegare perché Massimo Bossetti ‘deve’ stare in prigione. I fatti che spiegano il legame genetico tra Guerinoni e Massimo Bossetti, sarebbero fondamentali in tutta questa storia. Un legame genetico che la madre di Massimo avrebbe sempre ignorato fino all’arresto del figlio. Carlo Infanti afferma che c’è un vero e proprio mistero sul concepimento dei gemelli Massimo e Laura Bossetti. Racconta che la signora Ester non riusciva a rimanere incinta, e per questo, all’epoca, consultò diversi medici specialisti. Avanza l’ipotesi che la signora Arzuffi, come altre donne di quella zona che non riuscivano a restare incinta, siano state sottoposte a loro insaputa a inseminazione artificiale. Ciò spiegherebbe, secondo l’autore, negli stessi anni, diversi parti gemellari nella zona. Infanti presume che Guerinoni fosse, assieme ad altri uomini, un donatore di sperma. Spiega come non sia così incredibile che la signora Arzuffi all’epoca, e altre donne, non possano essersi rese conto di essere state inseminate. E afferma che la pratica era comune, e portata avanti da molti ginecologi per ‘aiutare’ donne che non riuscivano a rimanere incinta naturalmente. A un certo punto Infanti ipotizza addirittura l’esistenza di un “terzo gemello”, un figlio del quale la signora Arzuffi non voleva si scoprisse l’esistenza. Carlo Infanti scrive di aver avuto accesso alle cartelle cliniche della signora relative al parto, e di aver potuto così escludere alla fine la teoria del “terzo gemello”. Scrive poi che la signora Ester gli raccontò di aver ricevuto delle cure “particolari” da un ginecologo di Clusone (stiamo parlando del 1969) che riuscì a curarla e a farla rimanere incinta con iniezioni e: «candelette, ovuli scuri tipo cera e ovuli freddi». Inoltre, durante la somministrazione delle cure, il ginecologo faceva uscire dallo studio perfino le infermiere. Tutti elementi che farebbero ipotizzare un’inseminazione artificiale. Per cui, riassumendo, secondo Infanti, Massimo Bossetti e la sorella gemella Laura sarebbero figli di Guerinoni per via di un’inseminazione artificiale e non per una relazione extraconiugale della madre. E Guerinoni potrebbe non essere padre ‘genetico’ dei soli gemelli Bossetti ! Se le ipotesi di Carlo Infanti sono giuste, capite bene che si apre un baratro non solo per l’inchiesta sul caso di Yara. Perché, se molte donne all’epoca, negli anni Settanta, in quelle zone della Lombardia furono inseminate artificialmente a loro insaputa, magari con lo sperma dello stesso uomo, che valore può mai avere, in casi giudiziari gravissimi tipo quello di Yara, la prova del DNA? Forse, approfondire troppo la questione di “ignoto1” e riprendere in mano i migliaia di esami fatti non è bene. Ricordiamo che per individuare la madre di “ignoto 1” furono eseguiti migliaia di tamponi salivari, oltre tredicimila campioni etichettati con nomi e cognomi, accatastati sugli scaffali del laboratorio analisi del Reparto Investigazioni Scientifiche (Ris) di Parma analizzati, comparati, schedati. Una mole enorme di lavoro, che tra l’altro può comportare anche degli errori. Che, in questo caso, nemmeno si vogliono ipotizzare, sembra. Forse anche per l’enorme spesa.
Ma un’altra cosa mi colpisce in questo racconto di Infanti: la storia del “terzo gemello”. Escludendo Massimo Bossetti come colpevole, e partendo dalla “sicura” inseminazione artificiale della signora Arzuffi, Infanti ipotizza addirittura l’esistenza di un “terzo gemello” sottratto alla nascita (?) che sarebbe il vero colpevole, evidentemente. Scordandosi in questo caso tutta la controversa questione sul DNA scoperto sugli slip della povera bambina. Il Dna nucleare combacia con quello di Bossetti, mentre quello mitocondriale, che indica la linea materna (contiene solo i geni della madre e quindi non permette di identificare con certezza un soggetto), non corrisponde. Questa anomalia, impossibile in natura, per i legali di Bossetti è la prova che il Dna è stato contaminato e che c’è stato un errore nella procedura. Da qui è poi nata la richiesta di un nuovo test del Dna. Ora, se ciò vale per Massimo Bossetti, varrebbe anche per un “terzo” gemello. Dunque, mi chiedo, perché citare questo “terzo gemello” ? E, infatti, nella trasmissione Iceberg lo stesso avvocato Carlo Taormina si accorge della debolezza di questa argomentazione. Ma, forse, questa storia del “terzo” gemello ha una sua logica, ed è un vero e proprio messaggio. Forse l’unico veramente notevole del libro, credo.
“Il terzo gemello”, qualcuno ricorderà, è un thriller di Ken Follett pubblicato nel 1996. E’ ambientato nel mondo dell'ingegneria genetica, della manipolazione dei geni e della clonazione. Vi rimando per la trama alla pagina di Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Il_terzo_gemello .
Protagonista della storia è Jeannie Ferrami una scienziata incaricata di condurre uno studio sui gemelli per conto d'una prestigiosa Università di Baltimora. Scopo dello studio è capire se due gemelli separati alla nascita e sistemati in ambienti differenti possano presentare delle somiglianze nel carattere, nei gusti e nel comportamento. 
Se tutta questa storia della quale ho scritto fino ad ora fosse un film, mi domanderei se la questione del “terzo gemello” di Massimo e Laura Bossetti, sia stata usata in realtà per attirare l’attenzione su ciò che accadde veramente nella zona di Brembate negli anni Settanta, a molte donne che non riuscivano a rimanere incinta. Zona di Brembate o Lombardia, o Italia?
Se fossimo in un film di fantascienza mi domanderei se in quegli anni non siano avvenute strane sperimentazioni sulla popolazione femminile italiana. E mi domanderei se quelle migliaia di esami fatti per individuare la madre di “ignoto1” in realtà, poi, non abbiano rischiato di scoperchiare molto altro, mettendo di fatto una pietra tombale su tutta l’inchiesta. Sarebbe un’ottima trama, quasi un x-files. Infatti, credo di aver guardato troppo seriamente la famosa serie americana. O forse, molto più semplicemente, Carlo Infanti ha letto il libro di Ken Follet.

fonte: LARA PAVANETTO

giovedì 6 giugno 2019

patto trasversale: il “Malleus Maleficarum 2.0”


Marcello Pamio
Ieri pomeriggio all’Aula Magna della Statale di Milano è avvenuta la presentazione del «Patto trasversale per la Scienza».
Un progetto voluto da Guido Silvestri e Roberto Burioni e avallato da personaggi come Mentana, Lorenzin, Di Grazia, Matteo Renzi e perfino Beppe Grillo.
Stiamo parlando di un patto antidemocratico ed estremamente pericoloso per le libertà di questo Paese.
Un patto molto desiderato anche da Big Pharma.
A rischio ci sono la libertà di cura, di pensiero, di espressione, di critica e di confronto scientifico.
Un patto che puzza di zolfo e che preannuncia una dittatura ancor più serrata dell’attuale.
Le foto del congresso dimostrano che il Patto si è trasformato in un bel Pacco: la partecipazione è stata un totale fallimento su tutta la linea, e le pochissime persone in sala saranno state parenti e/o amici degli ospiti…
La super affluenza alla presentazione ufficiale!
Ed ecco le poltrone dei vip intervenuti...
«Il Patto trasversale per la scienza - dice Roberto Burioni - punta a diventare una sentinella nei confronti della società, al fine di verificare che alla base di ogni decisione ci sia il rispetto delle evidenze scientifiche».
Lo dice candidamente il "diversamente-umile": vogliono “diventare una sentinella”. Ecco il vero scopo.
Il pensiero unico dei promotori è quello di respingere l’oscurantismo scientifico, e cioè estirpare con ogni mezzo la folle mania di mettere in discussione i vaccini, per non parlare delle cure alternative al cancro prive di ogni fondamento, per giungere alle resistenze nei confronti delle biotecnologie in ambito alimentare (leggasi OGM), e al negazionismo adottato nei confronti di alcune malattie.
Tutto questo, se fosse vivo George Orwell, lo chiamerebbe il “Ministero della Verità“.
Questi attori, tra comparsate a congressi a dir poco ridicoli, stanno rieditando il «Malleus Maleficarum 2.0» (Il Martello delle streghe): il più famoso trattato medievale sulla stregoneria, divenuto il manuale dell’Inquisizione e cioè il testo ecclesiastico ufficiale della persecuzione contro le streghe!
Solo che le streghe moderne sono incarnate da tutto quello che esce dal paradigma ufficiale....

fonte: https://disinformazione.it/

sabato 1 giugno 2019

l'animalino docile di Indro Montanelli


Sappiamo tutti cos'è il R.D.L. 880 del 19 aprile 1937?
Ad intuito possiamo comprendere che sia una legge promulgata dal regime fascista, ma ne conosciamo anche il contenuto?
In sostanza è la prima legge a tutela della razza, che andava a colpire gli italiani che vivevano nelle colonie africane di Somalia, Eritrea, Etiopia e Libia. Da quel giorno, il cosiddetto madamato diventava fuorilegge, perseguibile con una pena da 1 a 5 anni di reclusione. Ma andiamo per gradi….
Le prime leggi razziali in Italia non furono contro gli ebrei. La promulgazione della R.D.L. 880, denominata Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra cittadini e sudditifu la prima a sancire la superiorità assoluta della razza italiana rispetto alle genti delle colonie, ritenuti di razza inferiore. Si vietò definitivamente qualsiasi unione mista. La propaganda fascista in quegli anni aveva speso fiumi di parole e inchiostro per ribadire la superiorità della propria razza rispetto ad altre. Si rischiava, tollerando certi comportamenti, di cadere in contraddizione, soprattutto perché nessuna prudenza era usata rispetto alla possibilità di mettere al mondo dei figli. Due concetti fondamentali erano ribaditi con fermezza: la politica demografica doveva essere volta a salvaguardare la razza bianca, ma allo stesso tempo si doveva combattere il preoccupante calo demografico in atto in quegli anni. Chiunque avesse ignorato questo divieto, avrebbe commesso un duplice reato: uno biologico, inquinando la razza, e uno morale, portando allo stesso livello una donna indigena.


Un anno dopo arrivarono le leggi contro gli ebrei, che proiettarono il nostro paese a fianco della Germania nella seconda Guerra Mondiale.
Ma cos’era il madamato? E dove trova origine questa parola?
Un tempo la parola madama era utilizzata per indicare le signore in modo generico, ma anche, con accezione dispregiativa, le tenutarie delle case chiuse. Durante l’epoca coloniale, era chiamata madama la donna del luogo che conviveva con un uomo bianco, nel nostro caso con un italiano.
Inizialmente la parola madamato fu utilizzata in Eritrea, per poi estendersi a tutte le altre colonie italiane; indicava la relazione di carattere temporaneo fra una nativa del posto e un cittadino italiano senza che questi avessero contratto matrimonio. Nell’Africa orientale questa unione trovava giustificazione nel dämòz, che secondo la tradizione locale era un “matrimonio per mercede”. In cosa consisteva? In sostanza si traduceva in un contratto matrimoniale fra due persone, con una serie di obblighi reciproci, fra cui, per l’uomo, quello di mantenere i figli anche dopo che il contratto si fosse sciolto. Venuti a conoscenza di questa usanza locale, gli italiani delle colonie decisero di adeguarsi e di approfittarne, per avere così, fino alla fine della loro permanenze nel territorio, una donna che svolgesse sia funzioni domestiche che di prestazione sessuale, ignorando però la reciprocità degli obblighi. A fare largo uso del madamato furono soprattutto i soldati.


L’allora governatore dell’Eritrea, Ferdinando Martini, aveva assunto una posizione contraria rispetto a questo costume, rendendosi conto che ad usufruire del dämòz erano anche soldati che in patria avevano già contratto matrimonio. Ma questa soluzione era preferita fra le truppe, che si sentivano più tutelate rispetto alla larga diffusione di malattie a carattere sessuale che vi era in quel tempo.
Come prevedibile da queste unioni nacque un numero imprecisato di bambini che, in molti casi, non fu mai riconosciuto dal legittimo padre, il quale sapeva con certezza che quella situazione sarebbe stata solo temporanea e una volta rientrato in Italia il problema non sarebbe stato suo. Ma non mancarono i casi di riconoscimento e di assunzione di responsabilità da parte di chi era celibe e pertanto libero di prendersi carico di una famiglia.
Il fenomeno si stese anche alla Libia, tanto che nel maggio del 1932, Rodolfo Graziani, ricordato come il "macellaio del Fezzan"per i suoi metodi poco ortodossi, emanò un decreto di espulsione con il quale rinviava in patria quattro ufficiali italiani che avevano fatto ricorso al madamato, specificando che il loro comportamento era ritenuto deplorevole dal punto di vista politico e morale.
Le leggi razziali avrebbero dovuto mettere un freno a questo mal costume, per evitare la contaminazione della razza, ma così non fu. Va sottolineato che nessuno si preoccupava del fatto che molto spesso, le madame, erano ragazzine, minorenni. Si avanzava come giustificazione a un atto oggi condannato dal mondo intero come abominevole, il fatto che nelle colonie era normale, che nessuno si scandalizzava.


Questi fatti tornarono prepotentemente alla ribalta quando nel 1982, quando il giornalista Enzo Biagi intervistò durante un programma televisivo un suo collega, Indro Montanelli.
Indro Montanelli, che tutti conosciamo, raccontò davanti alle telecamere, con grande naturalezza e come se stesse parlando di un cucciolo esotico, che nel 1936 aveva acquistato per 500 lire, trattabili, una bambina di 12 anni, che divenne la sua “madama”. All’epoca dei fatti il giornalista aveva 27 anni ed era un uomo adulto. Nella cifra spesa erano compresi anche un cavallo e un fucile. La bambina lo seguì sempre durante tutto il periodo che rimase nei territori colonizzati.
Il pensiero di Montanelli sull’argomento credo sia chiaro. A quel tempo scriveva per la testata Civiltà Fascista, un mensile dell'Istituto Nazionale Fascista di Cultura, edito dal 1934 al 1943. Oltre a lui scrissero per il giornale anche Giovanni Gentile e Telesio Interlandi, molto attivo nella diffusione delle idee razziali sulla superiorità indiscussa di alcune razze su altre.
In più di una occasione Montanelli espresse la sua convinzione che l’operato degli italiani nelle colonie era necessario, per dare una civiltà ad un popolo evidentemente inferiore. Alla domanda in merito alla sua giovane sposa, l’uomo rispose con grande naturalezza: «aveva dodici anni, ma non mi prendere per un Girolimoni, a dodici anni quelle lì erano già donne.»
Nessun imbarazzo. Raccontò che l’aveva comprata a Saganèiti, una piccola città del sud dell’Eritrea. La definì un animalino docile. Attrezzò per lei un tucul, con lo stretto indispensabile e prese dei polli. Era molto bella. La chiamava Milena. Ogni due settimane la sua sposa lo raggiungeva, ovunque si trovasse, insieme alle mogli degli ascari, ufficiali eritrei. Arrivava a piedi, con una cesta in testa piena della biancheria pulita di cui l’uomo aveva bisogno. Al momento del rimpatrio in Italia, la giovane moglie restò a vivere in Eritrea, mentre il giornalista rientrò in patria, dove fu travolto, come tutti gli italiani, dallo scoppio del secondo conflitto mondiale.
Il suo adattamento alle usanze del luogo fu pari a quello di molti altri ufficiali e soldati che si trovarono nelle colonie. Le leggi razziali misero un freno a questo mal costume, che oggi sarebbe condannato con più severità, soprattutto dall’opinione pubblica.
In patria Indro Montanelli minimizzò sempre la questione, giustificandosi appunto sul fatto che… paese che vai usanza che trovi. Alcuni lo condannarono, altri lo giustificarono. Lui stesso prese una posizione sul suo comportamento, rimanendo della propria idea che quei giorni in Eritrea con la sua madama furono felici e senza costrizioni.
Il giornalista si spense il 22 luglio del 2001; negli anni immediatamente precedenti alla sua morte e successivamente, furono pubblicate molte versioni su questa vicenda. Lui stesso ne parlò, ribadendo il concetto che la sua fu una scelta dettata prevalentemente dalla necessità di trovare una “compagna intatta per ragioni sanitarie”. I dettagli sul prezzo e sul nome cambiarono, come del resto l’età, che passò da 12 a 14 anni. In un’altra intervista dichiarò: «… Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile…»
Circa il fatto che Montanelli ebbe o meno dei figli con la ragazza, non si seppe mai con certezza. Lui respingeva con fermezza ogni attribuzione di paternità rispetto a un bambino che portava il suo nome, asserendo che fosse nato da una successiva regolare unione della piccola con un altro uomo, 20 mesi dopo il suo rientro in Italia. Ogni considerazione sulla vicenda resta prettamente personale. Io mi sono limitata a riportare i fatti. Personalmente ritengo che la scusa dell’adattamento alle usanze delle colonie fu avanzata solo per liberarsi la coscienza di fronte a una nazione che guardava a lui e a quelli come lui come a dei “Girolimoni”.

Rosella Reali

fonte: I VIAGGIATORI IGNORANTI


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...