domenica 31 agosto 2014

morire ammazzati di marzo


di STEFANO NAZZI
Io ricordo Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci. Fausto e Iaio. Avevano 18 anni, li ammazzarono 36 anni fa, il 18 marzo 1978. Era sabato, le otto di sera, in via Mancinelli, a Milano, a due passi dal Leoncavallo che allora era lì, al Casoretto. Piazza Durante è a 500 metri, oggi i giardini in piazza si chiamano Giardini Fausto e Iaio. È passata una vita, è cambiato tutto da allora. Il muro di via Mancinelli però è ancora lì a chiudere qualsiasi fuga e speranza. Una vita è passata, quell’immenso fiume di ragazzi che allora sfilò davanti alle bare coperte di fiori rossi oggi non c’è più, tanta acqua è passata sotto i ponti, quel fiume si è disperso in mille rivoli.
Ricordo Fausto e Iaio perché 36 anni dopo i loro assassini sono ancora liberi. Il 6 dicembre 2000 il giudice per le indagini preliminari Clementina Forleo emise il decreto di archiviazione. C’era scritto: «Pur in presenza di significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva e in particolare degli attuali indagati, appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite indiziario e ciò soprattutto per la natura del reato delle pur rilevanti dichiarazioni». C’è una verità storica, come spesso in Italia ma una verità giudiziaria non c’è. Viene in mente Pasolini: «Io so ma non ho le prove…».
Ricordo Fausto e Iaio perché erano due come noi, come decine di altre migliaia. Poteva essere chiunque, quella sera. Si erano dati appuntamento in via Leoncavallo, fuori dalla Crota Piemunteisa, dovevano andare a casa di Fausto, la mamma stava facendo il risotto. I testimoni raccontarono che quel pomeriggio nella sala biliardo del locale c’erano stati tre giovani mai visti prima. Quel pomeriggio Fausto era stato al parco Lambro con gli amici, Iaio in centro a fare un giro con la ragazza. Erano di sinistra, i cortei, le discussioni, ma non erano di nessun gruppo, facevano la vita di tanti. La musica, le partite di calcio all’oratorio, i concerti, la chitarra, qualche serata al Leoncavallo.
Era cupa Milano in quelle ore, era cupa l’Italia. La mattina di due giorni prima, il 16 marzo, le Brigate Rosse avevano rapito Aldo Moro, i cinque uomini della scorta erano stati massacrati. C’era un misto di paura e sbigottimento, Toni Negri avrebbe parlato della «geometrica potenza delle Brigate rosse». Quella sera Fausto e Iaio uscirono da via Leoncavallo, presero via Lambrate, piazza San Materno e poi via Casoretto, via Mancinelli. Li ammazzarono all’altezza della scuola inglese Sir James Henderson School. Un testimone vide tre uomini, due avevano un impermeabile chiaro, il terzo un giubbotto di pelle. Si avvicinarono e dissero qualcosa, poi spararono, otto colpi di calibro 32, attorno alle pistole avevano un sacchetto di plastica per raccogliere i bossoli. Non erano sprovveduti. Il campanile della chiesa del Casoretto batteva le 20. Raccontò una testimone, Marisa Biffi, che stava andando in parrocchia con le due figlie (tutte le testimonianze sono raccolte nel libro di Daniele Bianchessi, La speranza muore a 18 anni):
«Odo tre colpi attutiti che lì per lì sembrano petardi tanto che penso che quel gruppo di quattro persone sta scherzando. Non vedo alcuna fiammata di arma da fuoco. I tre giovani sul marciapiede scappano velocemente mentre quello che è piegato su se stesso cade in terra. Solo allora comprendo che è successa una cosa pazzesca e mi avvicino al giovane caduto anziché entrare subito nella parrocchia. Scorgo la fisionomia di un ragazzo steso per terra in una pozza di sangue. Subito oltre il suo corpo e quindi più vicino alla via Leoncavallo, c’è davanti a me, a un paio di metri, il corpo di questo ragazzo che prima non avevo visto né in piedi né a terra. Posso senz’altro affermare che quello che cade è Lorenzo Iannucci mentre quello già steso a terra è Fausto Tinelli. Nessuno dei due ragazzi pronuncia alcuna parola, neppure un’invocazione di aiuto. Altrettanto fanno gli assassini che fuggono nel silenzio, avviandosi verso via Leoncavallo. Escludo di aver visto mettersi in moto una macchina verso via Mancinelli, subito dopo gli spari».
Iaio agonizzò fino all’arrivo della prima ambulanza, Fausto era già morto. C’è una foto in bianco e nero, si trova su Internet: la macchia di sangue si allarga, il corpo di Fausto è vicino al marciapiede. La polizia arrivò sul posto e parlò di regolamento di conti, lo faceva sempre allora, per prendere tempo probabilmente. Ma la notizia viaggiò veloce, ricordo la rabbia di quei giorni.
Arrivò una rivendicazione dai Nar, Brigata Franco Anselmi. Anselmi era un militante fondatore dei Nar che 12 giorni prima era stato ucciso durante una rapina a un’armeria, a Roma. Della brigata Franco Anselmi faceva parte Massimo Carminati, un fascista che faceva i lavori sporchi per la banda della Magliana.
Ci sono stati anni di inchiesta, la condusse Armando Spataro e poi altri sostituti procuratori. In quel 1978 un giornalista dell’Unità, Massimo Brutto, raccolse testimonianze, si era impegnato senza sosta. Il 25 novembre, di sera, aveva un appuntamento con una sua fonte. Lo videro uscire da un bar di via Murat, una Simca 1100 bianca lo investì e scappò. La borsa di Brutto sparì, la ritrovarono qualche ora dopo, vuota. Della Simca e del suo guidatore non si è mai più saputo nulla.
Fece un’inchiesta importante Umberto Gay, giornalista di Radio Popolare, poi consigliere comunale. Gli indizi portavano a Roma, all’area del terrorismo diffuso che gravitava intorno ai Nar senza farne ufficialmente parte. Terroristi neri in trasferta a Milano. I nomi dell’inchiesta poi archiviata nel 2000 sono quelli di Massimo Carminati e Mario Corsi. Il 18 marzo 2000 Umberto Gay convocò una conferenza stampa. Disse: «Io accuso Mario Corsi di essere nella migliore delle ipotesi la “spalla” e nella peggiore il killer di Fausto e Iaio. Mi assumo le mie responsabilità e per la prima volta siete di fronte ad un soggetto privato che sceglie di accusare una persona con nome e cognome per quel delitto».
I funerali di Fausto e Iaio si celebrano il 22 marzo 1978. A Milano è una giornata tersa come se ne vedono poche. Non ci sono striscioni, lo hanno chiesto le mamme dei due ragazzi. Da una finestra Biagio Longo descrive in diretta per Radio Popolare quello che sta succedendo, si commuove. Una marea di gente, 100.000 secondo la Questura, un silenzio spaventoso. Arrivano i furgoni con le bare, sono i compagni di scuola di Fausto e Iaio a prenderle in spalla, le portano sul sagrato della chiesa Santa Maria Bianca. Nelle fabbriche di Milano il lavoro si è fermato, dal deposito Atm escono i lavoratori, salutano a pugno chiuso le bare che passano, il sagrato è pieno di fiori rossi. Piangono in tanti, piange Don Perego che non riesce a finire la messa. La bara di Iaio va verso il cimitero di Lambrate, quella di Fausto verso Trento, la famiglia è di lì.
Le decine di migliaia di persone continuano a camminare, passano in via Mancinelli, dove c’era il sangue il marciapiede è rosso di fiori, c’è solo silenzio.
Quando in questi 36 anni mi è capitato di passare da lì ho chinato la testa. Lo farò sempre. Per sempre ricorderò Fausto e Iaio, morti ammazzati una sera di marzo.
fonte: www.ilpost.it

il re pallido



Il re pallido: un romanzo incompiuto (The Pale King) è un romanzo postumo e incompleto di David Foster Wallace pubblicato negli Stati Uniti nell'aprile 2011 da Little, Brown and Company. In Italia il romanzo è stato pubblicato a novembre del 2011 da Einaudi.

Trama

Il romanzo, incompiuto, è frutto del lavoro di sistemazione dei materiali reperiti nell'archivio dello scrittore dal suo editor Michael Pietsch; descrive, da angolazioni diverse, la vita di un gruppo di funzionari della IRS (l'agenzia tributaria statunitense) impiegati in un ufficio del Midwest. Il filo conduttore che lega le vicende dei diversi personaggi è la necessità di affrontare "l'intensa tediosità" del loro lavoro. Tra le vicende e gli oggetti della narrazione si segnalano: a) l'arrivo di un neo assunto, che corrisponde alla figura dell'autore e ne assume il nome, David Foster Wallace, nella sede della Agenzia, il suo impatto con la routine della struttura, intensamente gerarchizzata e burocratizzata, e il suo essere scambiato per un omonimo funzionario anziano ed esperto con una serie di effetti tragicomici a cascata (tra cui essere costretto a godere, forzosamente e a tradimento, dei frettolosi favori carnali di una assistente, profuga convinta di pagare un dovuto pegno a una figura autoritaria); b) la disumanizzante quotidianità del lavoro di verifica delle dichiarazioni dei redditi nella quale l'autore prosegue nella sua opera di chirurgica analisi dei movimenti apparentemente meno eccitanti dell'Io; c) l'interiorità e il retroterra, spesso di dolore o paradossale, di molti dei funzionari.
Tra questi David Cusk, personaggio terrorizzato dall'essere preda di attacchi di sudore incontrollato, che peraltro sono provocati dallo stesso terrore di esserne vittima. Leonard Stecyk, di cui si conosce sia il presente di brillante funzionario sia il passato di studente vessato da tutti i compagni più svegli di lui, ma che mostrerà un'improvvisa rivelazione delle sue doti di comando quando sarà l'unico a gestire l'emergenza di un grave incidente capitato all'insegnante durante la lezione di falegnameria. Toni Ware, autodidatta e perfida, impegnata a elaborare crudeli simulazioni a carico di innocenti (ad esempio, la commessa di un bar, colpevole solo di essere stata gentile con lei), quale frutto di un'infanzia traumatica, che comprende anche aver dovuto assistere all'uccisione della madre da parte di un uomo conosciuto poche ore prima dalla madre stessa, simulando di essere morta mantenendo gli occhi aperti per un tempo inenarrabile e oltre la soglia del dolore.
Si segnalano poi alcune digressioni, per lo più nella forma del flash back, circa esperienze pregresse dei diversi personaggi, e in particolare il lungo episodio di un dialogo tra uno dei liquidatori più produttivi, Shane Drinion, da tutti considerato persona talmente noiosa da riceve il soprannome ironico di Mister X (Excitement) e Meredith Rand, da tutti considerata bellissima e brillante. Nel corso di una lunga conversazione il baricentro dei personaggi si sposta lentamente ma impercettibilmente, fino a far loro compiere una rivoluzione quasi completa: il lettore apprende che Drinion è in realtà, nella sua perfetta adesione alla noiosa quotidianità del mondo, una sorta di misconosciuto essere superiore (che addirittura comincia a levitare durante la discussione) e Rand una donna con un passato e un presente di grande sofferenza nervosa culminato anche in un ricovero in ospedale psichiatrico. Abbondano altresì situazioni sospese tra il surreale e il dolente, quali il bambino che dedica tutta la sua vita a cercare di baciare ogni parte del suo corpo, a costo di sottoporsi a un costante e dolorosissimo programma di contorsioni ed esercizi sul proprio corpo e alcune invenzioni tipicamente wallaciane fondate su paradossi logici, quali la descrizione dei test per la messa alla prova della genuinità degli atteggiamenti del personale. Il testo "non" si conclude, secondo una scansione tipicamente wallaciana, presentando nelle ultime pagine la descrizione della seduta di un personaggio non meglio individuato presso quella che appare una terapista. Il libro si segnala anche per la collocazione della introduzione dopo diverse decine di pagine dall'inizio e nella esposizione dettagliata di una serie di informazioni sul copyright, che singolarmente entrano in cortocircuito con il resto della narrazione, dove si espone in dettaglio la battaglia di Wallace contro l'editore e la sua determinazione di ritenere il libro un'opera di invenzione, mentre è tutto al vero 100%". Il tema centrale della storia ricalca quello contenuto nel discorso di fine anno tenuto presso il Kenyon College nel 2005 dallo stesso Wallace, in cui egli incoraggiava gli studenti ad essere "consci e preparati a sufficienza nello scegliere ciò a cui prestare attenzione e come trarre significato dall'esperienza".
Una possibile ascendenza/correlazione del tema del libro può essere ravvisata con Oltre il giardino, film di Hal Ashby, tra i cui temi risulta la paradossale superiorità dei "semplici".

Edizioni

David Foster Wallace, Il re pallido: un romanzo incompiuto, traduzione di Giovanna Granato, Torino, Einaudi, 2011, p. 714.

Curiosità

Wallace iniziò a lavorare a questo romanzo nel 1996 e ha continuato fino alla morte nel settembre del 2008. Durante la stesura l'autore aveva assegnato all'opera diversi titoli provvisori, tra cui 'Gliterrer', 'SJF' and 'What is Peoria for?'. Secondo il blog Planned Obsolescence tenuto da Kathleen Fitzpatrick, collega di Wallace al Pomona College, Michael Pietsch (editor della Little, Brown and Company) avrebbe dichiarato che "il manoscritto di The Pale King è in fase di revisione ed è di oltre 1000 pagine suddivise in 150 capitoli. La versione definitiva conterà più di 400 pagine e sarà esplicitamente sottotitolata come 'romanzo incompiuto' "

sabato 30 agosto 2014

il segreto di Mayak, peggio di Chernobyl e Fukushima

Chernobyl e Fukushima non sono state le uniche catastrofi nucleari planetarie. Dietro gli Urali, nella regione di Chelyabinsk, una delle più inquinate di tutta la Russia, si sono infatti verificati tre gravissimi incidenti. La centrale di Mayak (che in russo significa “faro”) nacque nel 1949 per produrre plutonio per armi nucleari, e dal 1949 al 1952 riversò circa 76 milioni di metri cubi di rifiuti liquidi altamente radioattivi – principalmente cesio e stronzio – nel Techa, fiume lungo il quale vivevano circa 124.000 persone, divise in villaggi dediti all’agricoltura e all’allevamento. Nel 1957, nell’impianto di Mayak esplose un serbatoio di rifiuti radioattivi e, oltre al cesio e allo stronzio, si aggiunse il ben più pericoloso plutonio; l’esplosione formò una nube radioattiva che coprì un’area di circa 23.000 chilometri quadrati, creando l’area della “East Ural Radioactive Trace” e sprigionando almeno il doppio dei radionuclidi dell’incidente di Chernobyl.
Il terzo incidente ebbe luogo nel 1967, quando il Lago Karachay, usato per lo smaltimento dei rifiuti nucleari più pericolosi, si asciugò a causa di un’estate L'area radioattiva attorno alla centrale di Mayak, in Russiatorrida, e i venti spazzarono le sue polveri radioattive per un’area di circa 2.000 chilometri quadrati. Questi incidenti, la cui gravità si evince anche solo dai numeri, furono tenuti completamente segreti fino all’esplosione di Chernobyl. Dopo questo incidente, che più di quello di Three Mile Island (Usa) focalizzò l’attenzione dell’intero pianeta sulla pericolosità della produzione di energia da fonte nucleare, il governo sovietico non fu più in grado di nascondere i disastri precedenti. Oggi, a cercare di fare luce su queste remote stragi ambientali e sociali sono tre italiani: il documentarista Alessandro Tesei, già autore del pluripremiato film Fukushame, in cui si mostrano le falle del sistema giapponese nell’affrontare la strage di Fukushima, il fotoreporter Pierpaolo Mittica e il ricercatore e antropologo Michele Marcolin. Obiettivo dei tre? Raccontare in un documentario cosa è successo in quei luoghi dimenticati dalla storia.
«La ricerca si è sviluppata tra visite nei luoghi contaminati e interviste a persone coinvolte all’epoca dai vari incidenti, per capire come hanno vissuto in quegli anni, e come ora affrontano l’aumento esponenziale di morti per tumore e di malformazioni e problemi mentali alla nascita», racconta Tesei: «Abbiamo trovato una grande confusione, e diversi modi di trattare sia il problema che le persone: alcune vivono ancora a ridosso del fiume Techa, e il governo russo gli concede una misera pensione di circa 6 euro al mese. Altre sono state evacuate in zone ugualmente contaminate. Altre ancora sono riuscite, dopo intense battaglie legali, a ottenere dei risarcimenti che gli hanno permesso di spostarsi in zone più salubri». Il farsi riconoscere lo status di vittima della contaminazione è però complesso, aggiunge il filmaker, «e ovviamente il governo russo, così come sta facendo a Fukushima quello Alessandro Teseigiapponese, crea dei muri di burocrazia che confondono e spesso dissuadono le persone dal far valere i propri diritti».
I documentaristi italiani sono stati guidati in questo viaggio da Nadezhda Kutepova, storica attivista e avvocatessa che aiuta le persone di quelle zone a farsi valere tramite azioni legali. «Grazie a lei abbiamo avuto addirittura la possibilità di assistere a un processo per il riconoscimento dello status di vittima delle radiazioni, che è stato vinto dalla sua assistita. Una spinta per tutti quelli che pensano di rinunciare in partenza, spaventati dalle prime difficoltà», rivela Tesei. «Molte altre cose ci sarebbero da aggiungere – conclude il regista marchigiano – ma ciò che davvero spaventa e lascia increduli è il fatto che ogni governo, sia esso russo, giapponese o italiano, nel corso del tempo e perfettamente consapevole delle conseguenze di scelte scellerate, continui imperterrito a comportarsi in maniera criminale ai danni della comunità». Da Kyshym a Fukushima sono passati 54 anni. Ma la storia, in effetti, sembra sempre la stessa.
(Andrea Bertaglio, “Nel 1957 a Mayak la catastrofe nucleare più grave della storia”, da “La Stampa” del 2 agosto 2014).

fonte: www.libreidee.org

Red Love, la super mela rossa



Mela 'Red Love' varietà creata in Svizzera. Buon sapore, immune alle malattie come la ticchiolatura, quindi non c'è bisogno di fare trattamenti chimici, piena di anti ossidanti. Fioritura esuberante di colore rosso intenso - viola, più tipica per un melo ornamentale che per un melo da frutto. 

Foto e descrizione di Vladimiro Rocco - da Facebook


Red Love, la mela rossa di Markus Kobertis avrebbe fatto invidia sia a Eva che al serpente, e di certo avrebbe conquistato Biancaneve. Red Love è una mela completamente rossa, sono rosse la buccia e la polpa.
La produzione del frutto è inglese - l’azienda Suttons ha acquistato il brevetto - ma l’agronomo che ha lavorato alla nascita di Red Love, incrociando per vent’anni specie diverse, è lo svizzero Markus Kubertis. Red Love è un frutto biologico, la sua produzione è al 100% naturale; per la sua creazione non si è fatto ricorso ad alcun Ogm. Per evitare l’impollinazione casuale da parte delle api, gli alberi di Red Love sono stati tenuti in una gallerie apposite invece che all’aria aperta.
Red Love, non solo è bella a vedersi, è anche buona. Il frutto è ricco di proprietà antiossidanti ed ha una caratteristica molto particolare: Red Love tagliata a pezzetti per la macedonia o a fette per essere servita a fine pasto, non annerisce.

Fonte: focus.it


fonte: www.nocensura.com

lunedì 25 agosto 2014

John Pilger, è tutto falso e disumano

Geopolitica, massacri e guerre promosse dall’Occidente? «Si è realizzato nel modo più soffice il totalitarismo orwelliano, dietro l’illusione dell’“era dell’informazione” e del multiculturalismo». S’impone un’unica visione del mondo, e nessuno protesta: «Figure capaci di esprimere efficacemente un’alternativa radicale» mancano del tutto, oppure «sono sommerse dal frastuono» del mainstream, rileva John Pilger. A teatro, un’opera profetica come “1984” di Orwell viene liquidata come «un pezzo storico: remoto, innocuo, quasi rassicurante». Dunque, «come se Snowden non avesse rivelato niente, se il Grande Fratello non fosse ora una spia digitale, se lo stesso Orwell non avesse mai detto: “Per essere corrotti dal totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario”». Mentre le società avanzate vengono de-politicizzate, i cambiamenti sono sottili e spettacolari. «Nei discorsi di tutti i giorni il linguaggio politico viene capovolto, come profetizzato in “1984”».
Lessico reinterpretato: la parola “democrazia” è ormai «una figura retorica», la pace è diventata «guerra perpetua», “globale” significa «imperiale». E il Pablo Picassoconcetto di “riforma”, «un tempo foriero di speranze», nella neo-lingua del 2014 «significa aggressione, perfino distruzione», più o meno come “austerità”, che è «l’imposizione del capitalismo estremo ai poveri e il dono del socialismo ai ricchi: un sistema ingegnoso in cui la maggioranza paga il debito dei pochi». Nelle arti, scrive Pilger in un post ripreso da “Controinformazione”, l’ostilità verso la verità politica è un articolo di fede borghese, come dimostra l’“Observer” che se la prende col “periodo rosso” di Picasso. Suona strano, detto da «un giornale che ha promosso il bagno di sangue in Iraq presentandolo come una crociata liberale». Sicché, «l’opposizione di Picasso al fascismo durante tutta la sua vita è una nota a margine, così come il radicalismo di Orwell». Terry Eagleton, già professore di letteratura inglese all’università di Manchester, considerava che «per la prima volta negli ultimi 200 anni non c’è un eminente poeta, drammaturgo o romanziere britannico pronto a mettere in questione le fondamenta del modo di vita occidentale».
Nessuna Mary Shelley che parli dei poveri, nessun William Blake che sforni sogni utopici, nessun Byron che condanni la corruzione della classe dominante, né un Thomas Carlyle o un John Ruskin che rivelino «il disastro morale del capitalismo». William Morris, Oscar Wilde e George Bernard Shaw «non hanno equivalenti al giorno d’oggi». Per Pilger, Harold Pinter fu l’ultimo a far sentire la sua voce. Non c’è più nessuna Virginia Woolf, che descrisse «l’arte di dominare altre persone, di governare, uccidere, acquisire terre e capitali». Sempre a teatro, lo spettacolo “Gran Bretagna” fa satira sullo scandalo delle intercettazioni telefoniche che ha visto alcuni giornalisti processati e condannati, compreso un ex redattore di “News of the World” di Rupert Murdoch. Descritto come «una farsa mordente che inchioda l’intera cultura dei media incestuosi e la ridicolizza senza pietà», ha come bersagli i «beatamente divertenti» personaggi della stampa scandalistica britannica. Ok, ma che dire dei media non scandalistici, «che si considerano rispettabili e L'arresto di David Lawley-Wakelincredibili e invece svolgono il ruolo parallelo di braccio dello Stato e del potere aziendale, come nella promozione di guerre illegali?».
L’inchiesta sulle intercettazioni telefoniche ha fornito uno scorcio su questo argomento tabù: Tony Blair si stava lamentando delle molestie dei tabloid su sua moglie, quando il regista David Lawley-Wakelin chiese che lo stesso Blair fosse arrestato e perseguito per crimini di guerra. «Ci fu una lunga pausa: lo shock della verità». Secondo copione, fu ordinato di cacciare «colui che diceva la verità», con mille scuse al «criminale di guerra». I complici di lunga data di Blair sono più rispettabili di chi intercetta le telefonate, scrive Pilger. Quando la presentatrice artistica della Bbc, Kirsty Wark, lo intervistò riguardo al decennale della sua invasione dell’Iraq, gli regalò un momento che poteva solo sognare: gli permise di angosciarsi della sua «difficile» decisione presa sull’Iraq, «anziché chiamarlo a rispondere del suo crimine epico». Nel nel 2003, la Bbc dichiarò che Blair poteva sentirsi «discolpato», e programmò l’influente serie televisiva “Gli anni di Blair”, per la quale David Aaronovitch fu scelto come scrittore, presentatore e intervistatore. «Quale valletto di Murdoch che aveva promosso gli attacchi militari in Iraq, Libia e Siria, Aaronovitch adulò da esperto». L’accusatore del Processo di Norimberga, Robert Jackson, definì l’invasione dell’Iraq «il crimine internazionale supremo»? Niente paura: «A Blair e al suo portavoce e complice principale, Alastair Campbell, è stato concesso ampio spazio sul “Guardian” per riabilitare la loro reputazione», anche se Blair manovra Campbell e Blairtuttora in Medio Oriente e lo stesso Campbell è consulente della dittatura militare egiziana.
Mentre l’Iraq viene smembrato in conseguenza dell’invasione di Blair e Bush, il “Guardian” titola: “Rovesciare Saddam era giusto, ma ce ne siamo andati troppo presto”. Autore del pezzo: un ex funzionario di Blair, John McTernan, che aveva lavorato anche per il dittatore Iyad Allawi, installato dalla Cia. «Invocando una seconda invasione del paese che il suo ex padrone aveva contribuito a distruggere, non menzionava la morte di almeno 700.000 persone, la fuga di 4 milioni di rifugiati e i conflitti settari in una nazione un tempo fiera della sua tolleranza comunitaria». Per “bilanciare” politicamente il profilo del “Guardian”, Seumas Milne scrisse: «Blair rappresenta la corruzione e la guerra». Peccato che il giorno successivo lo stesso giornale abbia pubblicato a tutta pagina un maxi-annuncio sul caccia stealth F-35, prodotto dalla Lockeed Martin – la stessa azienda, ricorda Pilger, che fabbrica le bombe “di precisione” da 250 chili sganciate sulla popolazione civile in Afghanistan.
A un’altra star del mainstream politico, Hillary Clinton, aspirante presidente degli Stati Uniti, il programma “Women’s Hour” della Bbc ha concesso di presentarsi come «un’icona di successo femminile», evitando accuratamente di interrogarla sulla «campagna di terrore della sua amministrazione che usava droni per uccidere donne, uomini e bambini». In effetti, ironizza Pilger, la conduttrice Jenni Murray una «domanda scottante» l’ha posta: la Clinton aveva perdonato Monica Lewinsky per aver avuto una storia con suo marito? Proprio lui, Bill Clinton, che all’epoca del sexgate «stava invadendo Haiti e bombardando i Balcani, l’Africa e l’Iraq». Per inciso, «stava anche distruggendo le vite di bambini iracheni: l’Unicef riportò la morte di mezzo milione di bimbi iracheni al di sotto dei 5 anni, in conseguenza di un embargo guidato da Usa e Gran Bretagna». Tutto normale: «I bambini per i media non Hillary Clintonerano persone, così come le vittime di Hillary Clinton nelle invasioni che ha supportato e promosso: Afghanistan, Iraq, Yemen, Somalia».
In politica, così come nel giornalismo e nelle arti, sembra che il dissenso un tempo tollerato nei media “mainstream” sia regredito a dissidenza, osserva Pilger: negli anni ‘60, era perfettamente accettabile criticare il potere occidentale. Basta leggere i celebri resoconti di James Cameron sull’esplosione della bomba H nell’atollo di Bikini, la guerra barbarica in Corea e il bombardamento americano del Vietnam del Nord. «La grandiosa illusione di oggi è di essere in un’era dell’informazione mentre, in verità, viviamo in un’era dei media in cui l’incessante propaganda delle multinazionali mediatiche è insidiosa, contagiosa, efficace e liberal». Nel suo saggio del 1859, “Sulla libertà”, a cui i moderni liberali porgono omaggio, John Stuart Mill scrisse: «Il dispotismo è una forma di governo legittima nel trattare con i barbari, purché il fine sia il loro miglioramento e i mezzi siano giustificati dall’effettivo ottenere quel fine».
I “barbari” erano vaste porzioni di umanità da cui era richiesta “obbedienza implicita”. «E’ un mito simpatico e conveniente che i liberali siano pacifisti e i conservatori guerrafondai», scrisse lo storico Hywel Williams nel 2001. Forse aveva in mente un discorso di Blair in cui l’allora primo ministro prometteva di «riordinare il mondo intorno a noi» secondo i suoi «valori morali». Richard Falk, rispettata autorità in campo di diritto internazionale e inviato speciale Onu in Palestina, una volta ha parlato di «uno scudo legale-morale autoreferenziale e unilaterale, con immagini positive di valori occidentali e di innocenza presentata in pericolo, che giustifica una campagna di sfrenata violenza politica, così largamente accettata da essere praticamente incontrastabile». Su Bbc Radio 4, Razia Iqbal ha intervistato Toni Morrison, la premio Nobel afro-americana: la Morrison si chiedeva come mai la gente fosse «così arrabbiata» con Barack Obama, che era «figo» e desiderava costruire «una forte economia e sanità». Aggiunge Pilger: «La Toni MorrisonMorrison era fiera di aver parlato al telefono con il suo eroe, che aveva letto uno dei suoi libri e l’aveva invitata alla sua inaugurazione».
Né lei né la sua intervistatrice, scrive Pilger, hanno menzionato le 7 guerre di Obama, compresa la sua campagna del terrore con i droni, nella quale sono state assassinate intere famiglie, i loro soccorritori e chi li piangeva. «Quello che sembrava importare era che una uomo di colore “che parlava in modo raffinato” fosse salito ai livelli massimi di potere». In “The Wretched of the Earth” (Gli abietti della Terra) Frantz Fanon scrisse che la «missione storica» dei colonizzati era di fungere da «cinghia di trasmissione» per coloro che governavano e opprimevano. «Ai nostri giorni – aggiunge Pilger – l’impiego delle differenze etniche nei sistemi di potere e propaganda occidentali è visto come essenziale. Obama ne è l’epitomo, sebbene il gabinetto di George W. Bush – la sua banda di guerrafondai – fosse il più multirazziale nella storia presidenziale». Ieri, mentre la città irachena di Mosul veniva presa dai jihadisti dell’Isis, Obama ha affermato: «Il popolo americano ha fatto investimenti e sacrifici enormi per dare agli iracheni l’opportunità di forgiare un destino migliore».
Quanto è “figa” questa bugia? E com’era “raffinato” il discorso di Obama all’accademia militare di West Point il 28 maggio sullo «stato del mondo», indirizzato a quanti «assumeranno la leadership americana» in tutto il pianeta. «Gli Stati Uniti – ha detto Obama – useranno la forza militare, unilateralmente se necessario, quando lo richiedono i nostri interessi cruciali. L’opinione internazionale ha importanza, ma l’America non chiederà mai il permesso». Ripudiando il diritto internazionale e i quelli delle nazioni, il presidente americano si presenta come una divinità basata sulla superpotenza della sua nazione. Inequivocabile: «E’ un messaggio famigliare di impunità imperiale». Evocando l’ascesa del fascismo negli anni ‘30, Obama ha aggiunto: «Credo nell’eccezionalismo americano con ogni fibra del mio essere». Lo rimbecca lo storico Norman Pollack: «A chi faceva il passo dell’oca sostituiamo l’apparentemente più innocua militarizzazione della cultura totale. E al posto del leader magniloquente abbiamo il riformatore Obamamancato, allegramente al lavoro, che pianifica ed esegue assassinii mentre sorride tutto il tempo».
A febbraio, gli Usa hanno montato uno dei loro golpe “colorati” in Ucraina, con la regia di Victoria Nuland, consigliera alla sicurezza nazionale di Obama, seguita dal vicepresidente Joe Biden e dal direttore della Cia John Brennan, giunti a Kiev per pilotare «le truppe d’assalto per il loro putsch», ovvero «fascisti ucraini». Così, «per la prima volta dal 1945, un partito neonazista apertamente antisemita controlla aree-chiave del potere statale in una capitale europea», senza che nessun leader occidentale abbia aperto bocca. «Dal collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno circondato la Russia con basi militari, bombardieri nucleari e missili come parte del loro progetto di allargamento della Nato». Rinnegando una promessa fatta a Gorbaciov nel 1990, secondo cui la Nato non si sarebbe espansa «un centimetro ad est», di fatto la Nato ha occupato militarmente l’Europa orientale, costituendo – a partire dal Caucaso – «il più grande accumulo militare dalla seconda guerra mondiale». Nel mirino l’adesione di Kiev, e sullo sfondo due operazioni, “Tridente rapido”, con truppe americane e britanniche sul confine russo dell’Ucraina, e “Brezza di mare”, con navi da guerra statunitensi a distanza di avvistamento dai porti russi. «Immaginate la reazione se questi atti di provocazione, o intimidazione, venissero compiuti ai confini americani?».
Nel reclamare la russa Crimea, “regalata” all’Ucraina da Nikita Krushev nel 1954 –  Mosca si è semplicemente difesa, come sempre: più del 90% della popolazione ha votato per tornare con la Russia, inoltre la Crimea è sede della flotta del Mar Nero, vitale per la marina russa. Putin ha spiazzato «i partiti guerrafondai a Washington e Kiev» esortando i russi di Ucraina ad abbandonare il separatismo? «In modo orwelliano, in Occidente ciò è stato invertito nella “minaccia russa”», e Hillary Clinton «ha paragonato Putin a Hitler». Altro problema: «Senza ironia, commentatori della destra tedesca hanno fatto altrettanto». Peggio ancora: «Nei media, i neonazisti ucraini vengono definiti eufemisticamente “nazionalisti” o “ultra-nazionalisti”». Quello che temono, continua Pilger, è che Putin stia abilmente cercando una soluzione diplomatica, che potrebbe avere successo. Il presidente russo ha chiesto al Parlamento di togliergli i poteri speciali di intervento in Ucraina? John KerryPuntuale l’ultimatum di John Kerry: la Russia doveva «agire entro le prossime ore, letteralmente» per far terminare la rivolta nell’est dell’Ucraina.
«Nonostante Kerry sia ampiamente riconosciuto come un pagliaccio – sostiene Pilger – il vero scopo di questi “avvertimenti” è di attribuire alla Russia lo stato di paria e di sopprimere le notizie sulla guerra del regime di Kiev al proprio popolo». Un terzo della popolazione dell’Ucraina è russofona e bilingue. «Da tempo desiderano una federazione democratica che rifletta la diversità etnica ucraina e sia autonoma e indipendente da Mosca. La maggior parte non è né “separatista” né “ribelle”, ma composta da cittadini che vogliono vivere in sicurezza nella loro patria». Il separatismo? «E’ una reazione agli attacchi della giunta di Kiev contro di loro, che hanno causato la fuga di 110.000 rifugiati (stima Onu) verso la Russia. Generalmente, donne e bambini traumatizzati. Come i bambini iracheni vittime dell’embargo, e le donne e ragazze “liberate” dell’Afghanistan, terrorizzate dai signori della guerra della Cia, queste popolazioni dell’Ucraina per i media occidentali non sono persone: la loro sofferenza e le atrocità commesse contro di loro vengono minimizzate o taciute».
media mainstream occidentali non fanno percepire la dimensione della tragedia. L’ultimo libro di Phillip Knightley, “La prima vittima: il corrispondente di guerra come eroe, propagandista e creatore di miti”, ricorda la figura di Morgan Philips Price del “Manchester Guardian”, «l’unico reporter occidentale a restare in Russia durante la rivoluzione del 1917 e a riportare la verità di una disastrosa invasione degli alleati occidentali». Imparziale e coraggioso, Price «da solo disturbò quello che Knightley chiama un “oscuro silenzio” anti-russo in Occidente». I russi restano carne da macello: come i 41 manifestanti bruciati vivi a Odessa nella sede dei sindacati, mentre la polizia ucraina stava a guardare. Il leader di “Settore Destro”, Dmytro Yarosh, salutò il massacro come «un altro giorno luminoso nella nostra storia nazionale». Ma nei media americani e britannici, l’eccidio venne riportato come «una tragedia opaca», conseguenza di «scontri» tra Pilger«nazionalisti» (neonazisti) e «separatisti», cioè le persone che raccoglievano le firme per il referendum sull’Ucraina federale.
Il “New York Times” lo seppellì, liquidando come propaganda russa gli avvertimenti sulle politiche fasciste e antisemite dei nuovi agenti di Washington, mentre il “Wall Street Journal” condannò le vittime: “Mortale incendio ucraino probabilmente innescato dai ribelli, dice il governo”. E Obama si congratulò con la giunta golpista di Kiev – i carnefici – per la «moderazione» dimostrata. Il 28 giugno, il “Guardian” dedicò quasi una pagina alle dichiarazioni del “presidente” del regime di Kiev, l’oligarca Petro Poroshenko. «Di nuovo venne applicata la regola dell’inversione orwelliana». Non c’era alcun colpo di Stato, nessuna guerra contro la minoranza ucraina, la colpa di tutto era dei russi. «Vogliamo modernizzare il mio paese», disse Poroshenko. «Vogliamo introdurre libertà, democrazia e valori europei. A qualcuno questo non piace. A qualcuno non piaciamo per questo». Non una parola, dal reporter del “Guardian”, Luke Harding, sulla strage di Odessa, i bombardamenti sui quartieri, l’uccisione e il Leni Riefenstahlrapimento di giornalisti, l’incendio di un giornale di opposizione e la minaccia di Poroshenko di «liberare l’Ucraina dalla feccia e dai parassiti».
Il nemico sono i «ribelli», i «militanti», gli «insorti», i «terroristi» e gli agenti del Cremlino. «Ripensate ai fantasmi del Vietnam, del Cile, di Timor Est, dell’Africa meridionale, dell’Iraq: notate le stesse etichette», avverte Pilger. «La Palestina è la calamita di questo immutevole inganno. L’11 luglio, in seguito all’ultimo massacro israeliano a Gaza – 80 persone, compresi 6 bambini in una famiglia – equipaggiato dagli americani, un generale israeliano scrive sul “Guardian”, titolando: “Una necessaria dimostrazione di forza”». Negli anni ‘70 Pilger incontrò Leni Riefenstahl, l’autrice dei film di propaganda che glorificavano il nazismo: usando «in modo rivoluzionario» la cinepresa e le tecniche di illuminazione, la Riefenstahl aveva prodotto «una forma di documentario che aveva ipnotizzato i tedeschi». Un “trionfo della volontà” che ha presumibilmente agevolato il maleficio di Hitler. Domanda: come funziona la propaganda nelle società che si ritengono “superiori”? La replica: i «messaggi» nei suoi film non dipendevano da «ordini dall’alto», ma dal «vuoto sottomesso» della popolazione tedesca. Compresa la borghesia liberale e istruita?, Ma certo: «Chiunque, e naturalmente anche gli intellettuali».

fonte: www.libreidee.org

non smettere


domenica 24 agosto 2014

il cielo sopra Berlino



« Il tempo guarirà tutto. Ma che succede se il tempo stesso è una malattia? »

(Marion)

Der Himmel über Berlin è un film del 1987 diretto da Wim Wenders. Le poesie di Rainer Maria Rilke hanno parzialmente ispirato il film: Wenders ha dichiarato che gli angeli vivono nelle poesie di Rilke. Il regista ha chiesto la collaborazione di Peter Handke per scrivere molti dei dialoghi, e nel film ricorre spesso la poesia Lied vom Kindsein.

Presentato in concorso al 40º Festival di Cannes, ha vinto il premio per la migliore regia.

Ha avuto un sequel, Così lontano, così vicino, nel 1993, e un remake, La città degli angeli, nel 1998.

Trama

Il film è ambientato nella Berlino degli anni ottanta prima della fine della Guerra fredda. Due angeli chiamati Damiel e Cassiel vagano nella città come entità: sono invisibili e impercepibili dalla popolazione e in questa condizione osservano i berlinesi e ascoltano i pensieri dei passanti, tra i quali una donna incinta, un pittore, un uomo che pensa alla sua ex ragazza. Il loro motivo di vita non è lo svolgimento della stereotipata funzione dell'angelo ma piuttosto quello di vedere, memorizzare e preservare la realtà. Il film non è solo la storia di due angeli ma più in generale è una riflessione sul passato, presente e futuro di Berlino. Damiel e Cassiel sono sempre stati angeli quindi hanno vissuto Berlino prima ancora che questa fosse una città e, anzi, prima ancora che nascesse il genere umano.

Tra i molti berlinesi che incontrano nel loro girovagare c'è un uomo anziano di nome Homer che come il poeta greco Omero sogna un'epica della pace. L'angelo Cassiel segue l'uomo anziano che cerca la Potsdamer Platz, una piazza che prima della Seconda guerra mondiale era una delle più belle d'Europa. Al suo posto l'uomo trova una spianata incolta, una specie di terra di nessuno, e il Muro di Berlino coperto di graffiti. Damiel e Cassiel sono solo osservatori, incapaci d'interazioni con il mondo fisico.

Nonostante ciò Damiel, percorrendo la città, finisce per arrivare in un circo dove vede Marion, una trapezista bella e brava che si sente molto sola, e finisce per innamorarsene. Marion vive sola in un camper del circo, balla da sola sulla musica di Nick Cave and the Bad Seeds, e percorre sola la città. Una storia secondaria del film segue Peter Falk che nel film interpreta sé stesso. Falk arriva a Berlino per girare un film sui nazisti e durante la storia si scopre che in passato era anch'egli un angelo, che decise di rinunciare alla sua immortalità per poter partecipare e vivere il mondo e non semplicemente osservarlo.

Damiel dopo un breve incontro con Falk decide di diventare umano e abbandona la sua esistenza spirituale. La prima cosa che Damiel sperimenta sono il sangue e il dolore: durante la caduta dall'immortalità si era ferito alla testa. Damiel per la prima volta vede i colori: l'esperienza da angelo nel film è rappresentata in bianco e nero, e le uniche note di colore fino a quel momento vengono utilizzate dal regista proprio per rappresentare l'allontanamento di Damiel dalla scena. Come umano Damiel sperimenta il caffè caldo, il cibo e altre esperienze della vita quotidiana. Nello stesso periodo Cassiel assiste impotente agli ultimi istanti di vita di un ragazzo che disilluso della vita si suicida lanciandosi da un palazzo.

La presenza di questi angeli che osservano la realtà degli uomini, potrebbe aver tratto parziale ispirazione, dal testo teatrale "Sangue sul collo del gatto" di R.M.Fassbinder, nel quale una decina di personaggi raccontano la propria vita in presenza di un'aliena, Phoebe Zeitgeist, giunta sulla Terra per farsi un'idea della democrazia tra gli uomini. Alla fine Damiel incontra Marion durante un concerto di Nick Cave e lei gli parla come si conoscessero da sempre. Il film si conclude con Marion che esegue il suo numero, volteggia come un angelo con Damiel che la assiste. La storia continua nel seguito Così lontano, così vicino prodotto da Wenders nel 1993.

Realizzazione del film

Genesi del Film

Il film venne progettato da Wenders dopo il suo ritorno in Germania. Il regista aveva trascorso otto anni negli Stati Uniti dove aveva girato quattro film in inglese. Wenders in quel periodo stava preparando anche un altro film, Fino alla fine del mondo, ma si era reso conto che non avrebbe potuto iniziare a girarlo per almeno un altro anno e quindi, dato che aveva comunque una società di produzione con dei dipendenti da pagare, doveva realizzare un lavoro nel frattempo. Decise di realizzare un lungometraggio veloce e spontaneo, nella sua lingua nativa, che lo riavvicinasse alla sua essenza di tedesco e alla sua infanzia: decise perciò di ambientarlo a Berlino. Tornato a Berlino Wenders vagò inizialmente per la città annotando sul suo taccuino ciò che vedeva e lo colpiva, cercando ispirazione dalla città: nelle sue passeggiate notò che erano presenti molte raffigurazioni di angeli. In quel periodo stava anche leggendo le poesie di Rilke che spesso evocano angeli. Poco alla volta il regista cominciò a prendere seriamente in considerazione l'idea di un film che avesse angeli custodi come protagonisti.

Discusse dell'idea con Peter Handke, il quale la considerò interessante ma si rifiutò di aiutarlo a scrivere per esteso la sceneggiatura. Infatti lo scrittore aveva appena finito di scrivere un libro e si sentiva esaurito, non in grado di affrontare un lavoro così impegnativo. Comunque Handke non rifiutò completamente la proposta di Wenders, ma acconsentì a collaborare scrivendo alcuni testi (il regista inserì per esempio nel film Lied vom Kindsein). Quando Wenders iniziò le riprese aveva solo due dialoghi di Handke, che vennero poi sviluppati ulteriormente durante la realizzazione del film.

Il regista decise di girare il film utilizzando alcune zone di Berlino a lui care. In particolare la Biblioteca di Stato era una location che riteneva molto importante, ma la direzione non aveva concesso il permesso di effettuare le riprese, dato che la biblioteca non era mai chiusa al pubblico. Con perseveranza e con l'aiuto del sindaco della città riuscì a ottenere il permesso di utilizzare la biblioteca per le riprese la domenica mattina.

Wenders iniziò le riprese del film senza avere un vero copione in mano; aveva deciso a grandi linee le scene e le ambientazioni, ma non aveva fissato una vera tabella di marcia con le scene da svolgere e con le battute da far recitare agli attori. Wenders considerava i dialoghi di Handke come delle isole sicure, che doveva raggiungere con i dialoghi e le scene che improvvisando si venivano a formare. Questa mancanza di copione gli consentì una grande libertà espressiva ma allo stesso tempo era fonte di grandi preoccupazioni. Il regista ha affermato che spesso la notte si coricava sperando in qualche buona idea per il giorno successivo e che a volte non riusciva nemmeno a dormire per la preoccupazione.

Wenders voleva un personaggio pubblico molto famoso e inizialmente aveva contattato Willy Brandt. L'ex-cancelliere rifiutò decisamente la possibilità di recitare in un film e quindi Wenders iniziò a cercare un attore molto famoso disposto a girare una parte secondaria nel film, e dopo alcuni colloqui Falk acconsentì. Le parti girate da Falk e da Curt Bois all'inizio non erano previste nel film. Ma Wenders, parlando con la troupe, si rese conto che gli serviva un ex-angelo per spingere Damiel a fare il grande passo: infatti Peter Falk venne contattato quando le riprese erano iniziate già da due settimane.

Quando Peter Falk arrivò in Germania non riuscì a incontrare subito Wenders, ma dovette preoccuparsi di scegliere il vestito adeguato alla situazione, senza aver parlato con il regista e senza avere un copione come guida. Questo rese la scelta del vestito e del cappello molto difficile. Infine Wenders incontrò Falk e l'attore mostrò al regista il vestito e i vari cappelli che aveva provato e le sensazioni che gli davano, ogni cappello con il suo problema. Wenders trovò la situazione simpatica e decise di aggiungere una scena dove Falk, che recitava nel ruolo di se stesso, cercava il cappello adeguato per il film che doveva girare. Peter Falk interpretava il ruolo di un ex-angelo che spinge Damiel a effettuare il grande passo e a diventare umano.

Per la parte di Curt Bois, che interpreta il ruolo di un anziano di nome Omero, inizialmente Wenders aveva pensato a un angelo anziano che viveva nella biblioteca. Però Handke non sapeva come sfruttare l'idea. Handke preferì realizzare dei monologhi per un uomo anziano che aveva vissuto nella Berlino degli anni 20, nell'epoca del Nazismo, attraverso la seconda Guerra Mondiale con i suoi bombardamenti, l'occupazione alleata e il muro di Berlino. Questo uomo rappresenta la memoria storica della città.

Solveig Dommartin interpretò la parte di Marion e per poterla interpretare al meglio si allenò per tre mesi al trapezio e alla corda: durante le riprese tutte le sequenze acrobatiche vengono svolte effettivamente dall'attrice senza l'ausilio di reti di protezione o di altri strumenti di sicurezza. Durante le riprese l'attrice eseguendo un esercizio commise un errore cadendo da cinque metri, ma si riprese subito e continuò l'esercizio.

Le scene più costose furono quelle realizzate vicino al muro e nella terra di nessuno tra Berlino est e Berlino ovest. Non era possibile ottenere il permesso di girare in quelle zone, anche perché la terra di nessuno era minata, e quindi il regista fece necessariamente ricostruire in uno spiazzo aperto 150 metri di muro, in modo da poter girare le scene.

Nei primi giorni di riprese il regista e il costumista non avevano ancora deciso che costume dare agli angeli. Per gli angeli il costumista recuperò tutte le armature e tutti i costumi alati che poteva e li fece provare agli attori, ma Wenders non era soddisfatto dell'effetto scenico e infine decise di fornire gli angeli di un semplice cappotto, abbandonando armature e ali. Solo in una breve scena onirica si vede Damiel che appare in sogno a Marion vestito con l'armatura, la stessa armatura che Damiel venderà per recuperare un po' di soldi.

Ambientazione

Essendo il film girato a Berlino ovviamente l'ambientazione è di tipo urbano, sebbene il film spazi dai luoghi più urbani e comuni come quelli delle vie commerciali di Berlino a quelli più decadenti della zona di nessuno a ridosso del Muro di Berlino.

Un luogo molto importante nel film è la Biblioteca di Stato (Staatsbibliothek). Nella biblioteca gli angeli vivono e le scene girate all'interno del film sono tra le più riuscite, grazie alla splendida architettura di Scharoun, una struttura accogliente, non la classica biblioteca dove si preleva un libro per leggerlo a casa ma un luogo dove si prende un libro e lo si legge. Un luogo deputato all'elevazione degli uomini tramite la cultura e dove gli angeli scrutano i lettori e infondono loro coraggio nei momenti di sconforto.Un luogo con un notevole potere simbolico è la Siegessäule, la statua della Vittoria che è posta sulla Colonna della Vittoria posizionata al centro di una della principali rotatorie della città. Spesso gli angeli siedono sulla statua della Vittoria e dall'alto osservano la vita dei berlinesi.

L'ultimo luogo simbolico nel film è il muro di Berlino. Il muro è sempre presente nel film, i Berlinesi sono coscienti che quel muro è il simbolo di una città divisa, di una nazione separata e occupata che non ha ancora risolto i suoi problemi con il passato. Il muro è presente direttamente nel film o tramite la sua vista o tramite i discorsi dei protagonisti. Significativo è il pensiero di Marion su Berlino: "In ogni caso non ci si può perdere, alla fine si arriva sempre al Muro".

Fotografia

La fotografia del film venne seguita da Henri Alekan, famoso per aver lavorato con Jean Cocteau a La bella e la Bestia.

Alekan utilizzò il colore per le scene con il punto di vista umano e una tinta monocromatica virata seppia per le scene con il punto di vista degli angeli. Significativa l'ultima scena del film, la scena è a colori tranne nell'angolo dove staziona Cassiel che essendo un angelo rimane monocromatico. L'utilizzo del monocromatico rappresenta il fatto che gli angeli captano le cose essenziali della vita; sono esseri che possono sentire i pensieri più reconditi degli uomini, in grado di conoscere i fatti prima che questi accadano ma allo stesso tempo limitati da non poter vedere i colori, sentire i sapori e tutte le sensazioni che un essere umano apprezza quotidianamente. Durante la produzione del film Alekan e Wenders utilizzarono una calza di seta come filtro per realizzare le sequenze monocromatiche.

Il primo film a utilizzare il monocromatico per gli angeli e il colore per gli umani fu Scala al paradiso (A Matter of Life and Death) di Michael Powell ed Emeric Pressburger nel 1946.

Il film non fa quasi mai uso di effetti speciali, lo stesso registra ha ammesso che durante la preparazione e la realizzazione del film uno dei suoi grandi problemi era l'invisibilità degli angeli e come renderla al meglio. Il regista in collaborazione con Alekan girò alcune scene utilizzando la sovrimpressione per rendere l'attore semitrasparente in modo da dare l'idea di un'entità incorporea. Comunque alla fine Wenders utilizzò molto raramente questa tecnica preferendo far recitare gli attori normalmente senza utilizzare artifici tecnici per simulare l'invisibilità degli angeli.

DVD

Nel 2003 è stata pubblicata la versione in DVD del film. Nel DVD oltre al film si trovano una serie di contenuti speciali. I contenuti speciali comprendono il commento al film da parte di Wim Wenders e Peter Falk e una raccolta di scene tagliate. Le scene tagliate sono commentate dal regista e si scopre che Wenders aveva fatto girare una scena in cui Cassiel decideva anch'esso di diventare umano. Il film aveva anche una scena che prevedeva che dopo l'incontro tra Marion e Damiel arrivi Cassiel in forma umana e dopo una fase iniziale di stupore da parte di Damiel questo inizi a scherzare con Cassiel. La scena termina con un lancio di torte in faccia tra Cassiel, Damiel e Marion. Lo stesso regista ammette nei contenuti speciali che la scena non ha un vero legame con la storia e con l'atmosfera del film, infatti non venne inserita nel montaggio finale. Curiosamente anche Stanley Kubrick quando realizzò Il dottor Stranamore seguì un percorso simile. Inizialmente il film doveva concludersi con una sequenza di torte in faccia, il regista fece girare effettivamente la scena ma infine decise di non includerla nel film dato che il finale stonava con il resto della storia.

Remake

Nel 1998 venne prodotto un remake statunitense chiamato La città degli angeli (City of Angels). L'ambientazione si sposta a Los Angeles e i protagonisti sono Meg Ryan e Nicolas Cage.

Nel remake gli angeli, se vogliono, possono interagire con gli umani; il film è girato interamente a colori e i dialoghi sono molto più diretti e semplici, meno poetici, non sottintendono i concetti ma li esplicitano direttamente per lo spettatore. Ad esempio, all'angelo che vuole diventare umano, vengono spiegati da un ex angelo i passi da compiere mentre nel film di Wenders non viene spiegato nulla a Damiel: la sua caduta è simbolica, più simile a un percorso spirituale che a una caduta reale.

giovedì 21 agosto 2014

Padoan? Disco rotto

«Ricordiamoci che lo Stato continua a prelevare dall’economia reale più di quanto eroghi, al netto degli interessi. La politica rimane di austerity. E finché rimane di austerity saranno guai». Parola di Emiliano Brancaccio, economista dell’università del Sannio, intervistato da “Radio Radicale” all’indomani dell’ultimo bollettino di guerra sulla situazione italiana: altro giro di vite della recessione (-0,2%), nonostante i sorrisi di Renzi e le rassicurazioni del ministro Padoan, secondo cui l’industria è comunque in ripresa. Gli italiani? Devono «mantenere la fiducia e spendere al meglio quegli 80 euro». C’è da ridere per non piangere: «Lasciamo stare l’invito del ministro a spendere», replica Brancaccio. «La verità è che quel bonus di 80 euro da un lato non funziona perché i lavoratori hanno dovuto comunque far fronte al deterioramento dei risparmi che si è verificato nel corso di lunghi anni di crisi. Dall’altro, quel bonus si inscrive comunque in una politica economica complessiva che rimane di austerità».
Nel mainstream, la “verità” della tragedia italiana viene regolarmente oscurata, minimizzata. Gli interventi come quello di Brancaccio, limitati a Emiliano Brancacciobrevissimi spot. L’infernale ordinamento della macchina tecnocratica europea – la Troika, l’Eurozona, il rigore come “normalità istituzionale” – non è minimamente analizzato. Non si dice mai che l’unica economia “ammessa” è quella neoliberista, che prescrive il suicidio dello Stato come soggetto strategico: l’interesse pubblico deve sparire, per non ostacolare la privatizzazione epocale di tutti i servizi e la frantumazione del lavoro, sempre più precario. La cosiddetta crisi europea non è “un incidente”, ma un piano preciso. E persino quando la stessa Ue ammette che la crisi peggiora, nessuna analisi ha vera cittadinanza sui grandi media. Così, a commentare gli ultimi dati sulla catastrofe sono Renzi e Padoan, che si appellano alla “fiducia” come provvidenziale soluzione, un minuto dopo esser stati smentiti – per l’ennesima volta – sulle loro previsioni, cioè la mirabolante e imminente “ripresa”.
«Mi spiace doverlo dire, ma quello di Padoan è un disco rotto», dichiara Brancaccio. «E’ un film che ormai vediamo dal 2011: è da allora che il governo e la Commissione Europea continuano a prevedere crescita e a vedere finalmente l’uscita dal tunnel, e vengono poi seccamente smentiti dai dati reali e dai fatti». Secondo Brancaccio, anche Padoan «non fa altro che reiterare questi errori di previsione, e francamente questo significa una cosa molto semplice». Ovvero: «Governo e Commissione Europea continuano a negare una realtà di fatto: l’austerity deprime l’economia e non migliora – ma peggiora – i conti pubblici». Il che non è affatto una sorpresa, ovviamente: tagliando la spesa pubblica, crolla anche il sistema privato e cala il gettito fiscale, aggravando il debito. Sono le condizioni perfette per indebolire il paese e renderlo indifeso di fronte alla “soluzione finale” programmata, ovvero la privatizzazione di tutti i servizi. A questo “serve” l’austerity di cui parla Brancaccio. Renzi e Padoan, in realtà, recitano: sanno benissimo quale sarà il finale, e lavorano esattamente per quell’obiettivo, la fine dell’Italia così come l’abbiamo conosciuta.

fonte: www.libreidee.org