mercoledì 30 gennaio 2019

Ernest Egri Erbstein, l'allenatore ebreo del grande Torino



Ve lo ricordate Ernest Egri Erbstein? Io che non seguo e non ho mai seguito il calcio non conoscevo la sua storia, ma leggere di lui mi riporta indietro a quando ero bambina e mio padre mi raccontava del Grande Torino, con la voce rotta dalla commozione e gli occhi pieni di lacrime. Era il 4 maggio 1949. Il tempo era brutto, pioveva, c’era il temporale. Quel maledetto giorno l’aereo che trasportava l’intera squadra del Torino, il suo allenatore e il direttore tecnico, Ernest Egri Erbstein, si schiantò sulla collina di Superga, rientrando da Lisbona. Nessun superstite. Trentuno persone, campioni, padri di famiglia, mariti, giovani nel pieno del vigore della loro vita, perirono nell'incidente, entrando nell'Olimpo delle leggende del calcio. Solo il presidente della squadra, Ferruccio Novo, si salvò, perché non era partito per motivi personali. Fu proprio lui, dopo la fine della seconda guerra, a richiamare alla guida della sua squadra Ernest Erbstein. Ernő Erbstein (suo vero nome) era un ungherese di origine ebraica. Nacque a Nagyvárad, vicino ai Carpazi, nella parte ungherese dell’allora impero austro-ungarico. Oggi la città si chiama Oradea e si trova in Romania. Una volta cresciuto, con tutta la famiglia, si trasferì a Budapest, dove ebbe la possibilità di frequentare scuole prestigiose. Grazie alla sua abilità, entrò nell'associazione locale di atletica, Budapesti Atle'tikai Klub; a soli 17 anni fu ingaggiato dalla locale squadra di calcio, il Bak, come mediano. Diplomatosi al Magyar Testnevelesi Foiskö, accademia di educazione fisica, iniziò la carriera di agente di borsa, non smettendo mai di militare nelle fila del suo team. Sognava di diventare un grande calciatore. In Ungheria non avrebbe avuto quella possibilità, dato che a quel tempo non esistevano squadre di calcio professioniste.


Decise così di partire e inseguire il suo sogno. Nel 1924 si trasferì in Italia. Arrivò a Fiume, dove iniziò a militare nell’Olympia, con un contratto di un anno, al termine del quale rimase senza ingaggio. Non si perse d’animo. Notato nell’ambiente, fu chiamato a giocare nel Vicenza, in seconda divisione, attuale serie B. Con lui partì anche la moglie, Jolanda Hunter, con cui ebbe la prima delle sue due figlie. Giocò 28 partite. Ma i suoi desideri andavano più lontano. 
Il lavoro come agente di borsa e il talento come calciatore, gli permisero di andare in America. Fu il suo amico Nathan Agar, a fargli la proposta. Lui accettò. Questa volta partì solo per New York, la moglie non lo seguì. Non se la sentiva perché la loro bambina era ancora troppo piccola. 
Iniziò a giocare per il Brooklyn Wanderes, insieme ad un altro ungherese, Béla Guttmann. La realtà che si trovò di fronte era decisamente diversa da come aveva sperato. Dopo due anni, durante i quali si aggiunsero la crisi dell’attività borsistica e la nostalgia crescente per la famiglia rimasta in Italia, decise di tornare indietro. 


Iniziò così a studiare il calcio come fenomeno, le tattiche di gioco e come preparare fisicamente i giovani. Finalmente nel 1928 fu chiamato come allenatore del Bari. Iniziò così per lui una nuova fase di vita. L’anno successivo passò, sempre come tecnico alla Nocerina e poi al Cagliari, dove vinse il campionato di quella che oggi è la Serie C. Nel 1933 approdò alla Lucchese, dove fece un salto di qualità portando la sua squadra dalla Serie C alla Serie A, arrivando ad ottenere il settimo posto, nel 1937, a pari merito con l’Ambrosiana. 
Ma mentre lui scalava le classifiche, in Italia il partito fascista prendeva il potere. Si arrivò al 1938, quando il consiglio dei ministri approvò le leggi razziali. L’allenatore amato dai calciatori e osannato dalle folle, essendo di origine ebraica, non poteva più circolare liberamente, accedere ai locali pubblici, mandare le proprie figlie a scuola. Ma qualcuno lo aveva notato e lo voleva alla guida della sua squadra: Ferruccio Novo. Dal 1939, l’imprenditore ed ex giocatore di calcio, di origine Torinese, assunse la presidenza del Torino. Ernest Erbstein era l’uomo che cercava, quello che avrebbe reso il Torino una formazione fra le migliori. L’ungherese accettò, felice di quella nuova possibilità e di poter iscrivere le sue figlie ad una scuola privata nella città piemontese, sperando così di tenerle al riparo dalla nuova situazione politica italiana. 
Il primo giorno come allenatore del Toro iniziò per lui con una frase che rimase nella storia: «Voi non sapete calciare la palla». Mi sarebbe piaciuto vedere i volti allibiti dei giocatori in quel momento…. In breve tempo Erbstein seppe conquistare i suoi uomini, dando ogni giorno un esempio di rettitudine e serietà, trattandoli come figli. Costruì uno spogliato unito e solidale, imponendo una disciplina ferrea ma allo stesso tempo motivata. Allenava in modo diverso da chiunque altro, curando sia la tecnica, che la preparazione fisica, che l’alimentazione di ciascun giocatore. Era sempre accanto a loro, con il bello e con il cattivo tempo, non perdendo mai un giorno, anche quando la sua schiena cominciò a causargli problemi, correndo sul campo in ricordo di quei giorni in cui era lui a rincorrere il pallone. Non partì solo da Lucca. Lo seguì anche il portiere Aldo Olivieri, che era diventato campione del mondo proprio nel 1938 con la Nazionale Italiana. 
In quella stagione il Torino si piazzò secondo in classifica, dietro al Bologna. Un allenatore avanti di trent’anni rispetto a quei tempi, un uomo capace di guidare il suo team come un esercito ben organizzato, in attacco e in difesa. La sua abilità era riconosciuta da tutti, tanto da fargli guadagnare sul campo il soprannome di “Napoleone della panchina”. 
Intanto la situazione in Italia peggiorava a causa delle leggi razziali, sempre più restrittive e severe. Erbstein era preoccupato per la sua famiglia, per le sue bambine. 


Una brutta sera, una qualsiasi, finito l’allenamento, Erbstein fu chiamato da due agenti in divisa che lo aspettavano fuori dagli spogliatoi. Gli chiesero i documenti, davanti a tutti, solo a lui, come se non lo conoscessero, come se il suo viso noto al mondo calcistico, per loro fosse uno dei tanti. L’esito di quell’incontro era ovvio fin dall’inizio. Il suo cognome ungherese, con discendenza ebraica, faceva di lui un indesiderato. Poche parole, sibilline, fredde. La sua risposta? «Faccio parte della razza umana». Chiesero se andava alla sinagoga, per sentirsi confermare quello che già sapevano, ma ancora una volta la sua replica li lasciò senza parole: «Io al sabato e alla domenica vado allo stadio, sempre». In quel momento l’allenatore del Torino capì che nulla lo avrebbe salvato. A breve lui e la sua famiglia avrebbero dovuto lasciare l’Italia. Decise tutto molto in fretta, con l’appoggio del presidente Novo e con l’aiuto di un collega, Ferenc Molnar, con il quale si scambiò il ruolo: Erbstein sarebbe partito per allenare la squadra di Rotterdam, mentre Molnar avrebbe allenato il Torino, continuando il suo lavoro. 
Lasciò l’Italia. Nulla andò come doveva. Molnar arrivò in Italia, ma fu incaricato di allenare la Fiorentina. Erbstein invece fu bloccato alla frontiera con L’Olanda, cominciando un travagliato e duro viaggio che si concluderà dopo un mese con il suo arrivo a Budapest. Confinato nella città, iniziò a lavorare come operaio di una ditta tessile italiana. Grazie a questa nuova attività, riuscì ad incontrarsi segretamente con il presidente del Torino, per ideare nuove strategie da utilizzare in futuro, con lo scopo di costruire una squadra sempre più grande e forte, in grado di sbaragliare tutti gli avversari. Fu presente con la sua consulenza anche per l’acquisto di Ezio Loik e Valentino Mazzola. Ma purtroppo anche in Ungheria la situazione precipitò velocemente. Si era scatenata una feroce caccia agli ebrei, per mano di un gruppo armato chiamato Croci Frecciate, che si aggirava nelle città con l’autorizzazione a compire ogni tipo di violenza in nome della tutela della razza. Molto fu il sangue versato per le strade. Nessuna punizione, nessun colpevole. 
Ma Erbstein non si fermò. Continuò a compiere viaggi clandestini per incontrare il presiedete Novo, per dargli consigli e seguire le sorte di quella che per lui era ancora la sua squadra. Nell’ottobre del 1944 i nazisti occuparono l’Ungheria. In seguito a questo fatto, l’allenatore fu deportato in un campo di lavoro. Organizzò una fuga, per tornare dalle figlie e dalla moglie, per salvarle dalle squadre della morte e dall’orrore delle leggi razziali. Riuscì nel suo intento, guadagnò la libertà e tornò a Budapest. Sottrasse alla morte la sua famiglia, con un intervento all’ultimo momento, possibile solo grazie alle sue numerose conoscenze. Tutti insieme si rifugiarono a Pest, in casa da alcuni parenti, dove rimasero nascosti per la maggior parte del tempo, fino alla fine del conflitto, vivendo nelle cantine. 
Nel 1945, con le sue donne, si trasferì nuovamente in Italia, richiamato alla guida del Torino, dal presidente Ferruccio Novo, che lo aveva aspettato per tutto quel tempo. 
E come ogni grande comandante, Ernest Egri Erbstein riprese in mano la sua squadra, con la stessa passione che lo aveva guidato prima dello scoppio del conflitto, con l’immutato affetto di sempre. Urlava, correva, dava consigli, da bordo campo sembrava scalpitare, come un vero condottiero. Ma questo non fu sufficiente per fargli conquistare il rispetto che meritava da parte dell’opinione pubblica e dei tifosi, troppo intenti a tessere le lodi della squadra, ma non dell’uomo che l’aveva resa grande. 


Le sue origini ebraiche lo resero detestabile agli occhi di molti anche dopo la guerra, la sua lingua sciolta, incapace di dire falsità, lo rendeva spesso inviso a chi aveva a che fare con lui. Fu accusato di essere una spia dei russi, di essersi salvato per questo motivo dal lager, non per il suo coraggio. Ci fu perfino chi lo accusò di aver truccato la partita Italia-Ungheria del 1947, finita con una vittoria della nostra formazione. Si difese con vigore da ogni illazione, ma la sua reazione accorata e sincera non gli fece guadagnare punti agli occhi della gente. La persecuzione per lui non finì negli anni della guerra, continuò anche dopo, fino ai giorni nostri, tanto che spesso quando si menziona il Grande Torino, ci si scorda di fare il suo nome. Eppure quell’uomo di origine ungherese aveva, con la sua tenacia e con il suo carattere, contribuito sostanzialmente a consegnare alla storia una squadra di calcio che altrimenti sarebbe stata come tante. Ricordiamoci di lui allora e di tutti quelli che quel maledetto e piovoso 4 maggio del 1949 perirono a Superga in un incidente aereo. Ricordiamoci di Ernest Egri Erbstein, che da Lisbona portò in dono una bambola, che giunge fino a noi attraverso le braccia amorevoli di sua figlia Susanna.

Rosella Reali

fonte: I VIAGGIATORI IGNORANTI

Bibliografia 
Leoncarlo Settimelli, L'allenatore errante. Storia dell'uomo che fece vincere cinque scudetti al Grande Torino, 2006 

Dominic Bliss, Erbstein: The triumph and tragedy of football's forgotten pioneer, 2014 

Angelo Amato de Serpis, Arpad ed Egri, 2016


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

venerdì 25 gennaio 2019

della rivoluzione gialla abbiamo visto l'arco, non la freccia

Ho ascoltato con interesse l’incontro tenuto a Roma con Véronique Rouille e Yvan Yonnet dei Gilets Jaunes, presentato da Moreno Pasquinelli di “Programma 101”, con la presenza di Antonio Maria Rinaldi e Mariano Ferro. Ma la conferenza mi ha destato molte perplessità sulla reale efficacia di questo movimento, soprattutto quando Yvan Yonnet ha consigliato di boicottare le elezioni europee con l’astensionismo, sostenendo che se tale astensione raggiungesse il livello dell’80%, il sistema Europa crollerebbe sotto le proprie contraddizioni. Vero che in meno di due mesi il movimento francese ha dato un’ulteriore spallata al governo Macron e alle oligarchie europee, sconvolgendone il panorama politico. Vero anche che per diverse settime consecutive le dimostrazioni sono continuate in tutto il paese anche dopo le deboli concessioni di Macron, mentre ispiravano un’ondata di manifestazioni anche in paesi limitrofi come il Belgio e l’Olanda, e mentre i media corporativi cercavano di demonizzare il movimento nella speranza non si diffondesse altrove. Il fenomeno è nato spontaneamente e i metodi stessi della sua affermazione ne hanno rivelato anche le tante fragilità.
I Gilets Jaunes si sono spesso radunati in luoghi molto frequentati, dove potevano trovare facilmente visibilità mediatica: gli Champs-Elysées a Parigi, le piazze principali di altre città e le numerose rotte del traffico ai margini delle piccole città. AGilet Gialli sugli Champs-Elyseesdifferenza delle manifestazioni tradizionali, le marce di Parigi erano molto libere e spontanee, spesso le persone passeggiavano e si parlano, senza leader e senza discorsi. L’assenza di leader è inerente al movimento, e questo lo predispone al rischio di facili strumentalizzazioni. Dalla loro apparizione di circa due mesi fa, i giubbotti gialli hanno sventato tutti i canoni della mobilitazione sociale: nessun leader carismatico, nessun intermediario, nessuna organizzazione strutturale, nessuna solida coordinazione delle varie compagini territoriali. Invece, un solo colore improbabile, dipinto sui giubbotti catarifrangenti dei motociclisti. Però la guerra alle oligarchie finanziarie è cosa dura e grave, e se i Gilets Jaunes non si organizzano in tempo per vincere le prossime europee e controllare il Parlamento e la Commissione, vedranno cadere nel vuoto le loro rivendicazioni e le loro manifestazioni, che se pur clamorose e sorprendenti, appariranno come una montagna che ha partorito un topolino.
Potrebbero fare la stessa fine di “Occupy Wall Street”, finito nel dimenticatoio di Wikipedia. Il fenomeno Occupy era troppo caotico, pericoloso e destrutturato. Insomma, troppo rivoluzionario. Nei suoi discorsi post-Occupy e nel suo ultimo libro “The end of protest: a new playbook for revolution”, Micah M. White ha deplorato il suo fallimento organizzativo. Dai movimenti anti-globalizzazione a quelli anti-guerra in Iraq, passando per le Primavere Arabe, No-Global, movimenti pacifisti, Black Lives Matter, ecc… tutti hanno mancato quegli obiettivi di cambiamento sociale che si prefiggevano. Il neoliberismo è vivo e vegeto, le oligarchie al potere non hanno perso la loro egemonia, mentre le disparità economiche sono aumentate. Il regime dominante si è evoluto per adattarsi al contesto, come un camaleonte, che cambia pelle e colore per mimetizzarsi e non cadere in balia dei predatori. “Occupy Wall Street” in questo senso ha insegnato comunque qualcosa, che le attuali forme di protesta Gilet Gialli e polizia antisommossanon funzionano più, perché mentre con Occupy la protesta si era allargata a 82 paesi e dato vita a quasi mille “accampamenti”, eppure il cambiamento sociale non si verificò proprio per nulla.
Gli attivisti di oggi hanno solo poche possibilità per conquistare la sovranità: continuare a protestare, vincere le guerre o meglio ancora vincere le elezioni. Infatti l’obiettivo finale dovrebbe essere un movimento che possa vincere le elezioni al fine di poter ottenere dei risultati concreti. Il 1° dicembre l’Arco di Trionfo è stato “vandalizzato” dai Gilets Jaunes che manifestavano a Parigi, e il fatto aveva destato l’immediata reazione di Macron, che dalla vetrina del G20 a Buenos Aires aveva dichiarato: «Nessuna causa può giustificare la brutalità verso l’Arco di Trionfo». Però l’Arco di Trionfo è simbolo della “Grandeur Francese”, della sua politica imperialistica, proiettata verso la conquista di un pezzo d’Africa, che continua a sfruttare e rapinare ancora oggi tramite il franco Cfa, l’eredità coloniale che controlla di fatto le economie di 14 paesi africani, secondo norme stabilite 70 anni fa. Un’area monetaria che ricorda la nostra tragica esperienza dell’euro. Quindi la violenza contro l’Arco assume una sua valenza politica ben precisa: il 99% dei miserabili, diseredati dalle politiche neoliberiste del turbocapitalismo, portano la guerriglia urbana contro il simbolo dell’imperialismo francese, oggi soprattutto finanziario.
Voluto da Napoleone I, dopo la battaglia di Austerlitz (strana coincidenza proprio il 2 dicembre 1805), il quale disse rivolto ai suoi soldati: «Si tornerà alle vostre case solo sotto archi di trionfo». Difatti un decreto imperiale datato 18 febbraio 1806 ordinò la costruzione di un arco trionfale dedicato appunto alle vittorie conseguite dall’esercito francese. I manifestanti però hanno saccheggiato anche altri emblemi del potere: il busto di Napoleone e quello di Luigi Filippo, i cui occhi sono stati colorati di rosso. Hanno sfondato un altorilievo allegorico che illustrava la partenza dei volontari del 1792, ribattezzata “la Marsigliese”, e scolpito da François Rude nel 1833, nella parte nord dell’Arco. Hanno cercato anche di distruggere un dipinto che rappresentava l’ingresso del catafalco di Victor Hugo al Pantheon. Perché tutti questi simboli? Forse per attaccare il rifiuto napoleonico alla libertà? Il rifiuto di Louis-Philippe all’uguaglianza? Come mai questi manifestanti, che sventolavano il Gilet Giallitricolore, hanno attaccato i Volontaires del 1792? E soprattutto, perché Victor Hugo, l’autore di “Les Misérables”, il politico che, a differenza di tanti altri, andava da destra a sinistra, finendo la sua carriera da repubblicano, rifiutatosi inoltre di condannare i comunardi del 1871?
Purtroppo la direzione politica dei Gilets Jaunes è ancora disorganica e incerta, per ora abbiamo visto l’Arco, ma non la freccia. Cerchiamo di non trascurare oltre la parte del caso, né della provocazione, né di quella stupidità che ha un ruolo molto più importante nella storia di quanto potrebbero ammettere gli stessi storici; tuttavia il senso di un’insurrezione è anche rivelato dai segni che lascia intatti oltre a quelli che distrugge. E il segno rimasto intatto è quello dell’anonimato di questi gialli francesi… chi li guida, chi li organizza, come si sono strutturati, quali programmi hanno pianificato e soprattutto quali obiettivi immediati si sono proposti? Perché se la ‘rivoluzione gialla’ si ferma alla protesta, se le masse che si sono mobilitate, anche con esiti straordinari per caparbietà ed efficacia negli scontri di piazza, non riusciranno a tradursi in un partito politico che influirà profondamente sulle prossime europee, avremo assistito all’ennesima protesta improduttiva e sterile. Se i giubbotti gialli sono i sans-culottes di oggi, come quelli che divennero i partigiani rivoluzionari della Rivoluzione Francese, alla fine avranno bisogno di un club giacobino. Se la storia è maestra di vita, i Gilets Jaunes dovrebbero imparare dal passato, e ascoltare le parole di Lenin: «Non sostenere il degrado del rivoluzionario al livello di un dilettante, ma elevare i dilettanti al livello dei rivoluzionari».
(Rosanna Spadini, “Della rivoluzione gialla abbiamo visto l’Arco, ma non la freccia”, da “Come Con Chisciotte” del 14 gennaio 2019).

fonte: http://www.libreidee.org/

venerdì 18 gennaio 2019

Burioni chi?




di Letizia Ricci

Già nel 2017, Gianni Lannes aveva smascherato Roberto Burioni, il vate dei vaccini a forza, quello che si arroga il diritto di sancire cosa è scienza assoluta, dipendente al san Raffaele del famigerato don Verzè.  Perché Burioni non esibisce il libretto vaccinale della figlia che attesta l'avvenuta esecuzione di: esavalente + meningococcoB + pneumococco a 2-3 mesi con relativi richiami; MPRV + Meningococco C a 13 mesi con relativi richiami come previsto dall'attuale calendario vaccinale. A proposito: dov'è il certificato vaccinale di Burioni Roberto per essere ammesso all'ascolto pubblico? Prove o chiacchiere da bar spacciate per aria fritta scientista?


venerdì 4 gennaio 2019

fake news, lo Spiegel confessa: abbiamo mentito per anni

Comprereste un’auto usata da quest’uomo? Battuta spesso usata per colpire politici già screditati. Ma l’uomo in questione, stavolta, ha venduto ben più che rottami di automobili: ha spacciato notizie interamente false, per anni. Se n’è accorto un collega, che l’ha denunciato. Lui s’è difeso con le unghie, fin quasi a far licenziare il rivale. Poi è crollato, ammettendo tutto. E gettando nello sconforto lo “Spiegel”, cioè il settimanale più letto in Germania, di cui era una delle penne di punta. Un principe del giornalismo contemporaneo, con parecchi premi prestigiosi alle spalle. Perché ha mentito ai lettori e all’editore per così tanto tempo? Amara confessione: era perseguitato dalla paura di essere considerato un fallito. Nel mondo di oggi, dominato dalla competizione esasperata del neoliberismo, per di più in salsa severamente teutonica, può accadere questo: nel giro di pochi giorni l’eroe diventa un mostro di ipocrisia, un bugiardo patologico, un cialtrone, e infine una vittima. Il suo nome è Claas Relotius, 33 anni, ora disoccupato. Fino a ieri era una star del giornalismo europeo, cioè la grande stampa che declassa il web come regno delle “fake news” e chiama “populisti e sovranisti” i politici non amici, non alleati e non soci dell’editore.
Un vero e proprio psicodramma, per il pubblico tedesco (sempre così pronto a bacchettare i vizi altrui). Sembra il replay dello scandalo dei diesel taroccati dalla Volkswagen per mascherarne le emissioni: ma i tedeschi non erano quelli ligi alle regole? Claas RelotiusNon esattamente, spiega l’imprenditore veneziano Fabio Zoffi, poliedrico “venture capitalist” con sede a Monaco di Baviera: il sistema tedesco è efficiente (incluso il welfare) perché gode di un robustissimo sostegno pubblico, ancorché occulto. Il primo a spiegarlo fu il solito guastafeste Paolo Barnard: grazie a un cavillo formale non vengono conteggiati nel debito pubblico i miliardi che ogni anno il governo di Berlino riceve dalla Kfw (istituto di credito per la ricostruzione, l’equivalente della nostra Cassa Depositi e Prestiti), così come i cospicui deficit delle Regioni. Morale, riassume Zoffi: il debito reale della Germania non è il “virtuoso” 80% del Pil sbandierato dalla Merkel, ma circa il 287% (cioè più del doppio del vituperatissimo debito pubblico italiano).
Beninteso: non è che sia sbagliato, investire a deficit. Il problema, precisa Zoffi, è che la Germania fa – di nascosto – quello che agli altri proibisce tassativamente di fare. Fino al caso estremo della Grecia, ridotta in miseria a causa del debito ritenuto eccessivo. Un massacro sociale – tagli feroci, licenziamenti – da cui i greci non si sono ancora ripresi. La Grecia quasi non esiste più: aziende e infrastrutture (porti, aeroporti) se l’è mangiate la Germania, mentre gli ospedali sono senza medicine per i bambini. Ma non c’erano solo tedeschi nella cabina di regia dell’operazione Troika: sul fronte greco, al Fmi operava l’ineffabile Cottarelli, mentre Mario Draghi (alla guida della Bce) proveniva dalla Goldman Sachs, cioè la banca d’affari che aveva manovrato il bilancio di Atene fino a spingere il paese verso la catastrofe. Ora invece è il potere Una copertina dello Spiegel contro l'Italiatedesco a pagare dazio, per una volta, con un danno d’immagine rilevante: merito del talentuoso Claas Relotius, che – per fare sempre bella figura – non ha resistito alla tentazione di inventarle di sana pianta, le sue storie.
Una vicenda penosa, riassunta da Kate Connolly sul “Guardian”. «La rivista tedesca “Der Spiegel” è precipitata nel caos dopo aver rivelato che uno dei suoi migliori giornalisti ha falsificato storie per anni», scrive il quotidiano inglese. Il mondo dei media «è sconvolto dalle rivelazioni su Claas Relotius», giornalista già vincitore di prestigiosi premi, che secondo il settimanale tedesco «ha inventato storie e protagonisti» in almeno 14 dei suoi 60 articoli apparsi sulle edizioni cartacee e online. E attenzione: «Anche altri giornali potrebbero essere coinvolti». Relotius, che ha rassegnato le dimissioni dopo avere ammesso la frode, scriveva per lo “Spiegel” da sette anni e aveva vinto numerosi premi per il suo giornalismo investigativo, tra cui il premio della “Cnn” come “Giornalista dell’Anno” nel 2014. E ora aveva vinto anche il premio tedesco “Reporterpreis” (Reporter dell’anno) per la sua storia su un bambino siriano. I giudici lo avevano elogiato per «la leggerezza, la poesia e la rilevanza» del suo servizio. «E’ però emerso che tutte le fonti del suo reportage erano quantomeno nebulose, e che molto di ciò che ha scritto era inventato».
La falsificazione, aggiunge il “Guardian” in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”, è venuta alla luce dopo che un collega di Relotius (Juan Moreno, che aveva lavorato con lui a un articolo sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti) ha iniziato a nutrire sospetti su alcuni dei dettagli riportati dal giornalista sleale. Alla fine, Moreno ha rintracciato due delle presunte fonti che venivano citate ampiamente nell’articolo di Relotius, pubblicato in novembre. «Entrambe le presunte fonti hanno dichiarato di non avere mai incontrato Relotius». Secondo successive indagini, Relotius si sarebbe inventato anche l’esistenza di una scritta su un muro, con la frase “Messicani, state alla larga”. Insomma, il reporter tedesco era arruolato – in servizio effettivo permanente – nell’esercito del “politically correct”, quello che criminalizza qualsiasi politico – da Salvini a Trump – che osi Claas Relotius mentre riceve il premio giornalistico della Cnnmettere in discussione l’imperativo categorico dell’accoglienza illimitata dei migranti. «Altre storie fraudolente – aggiunge il “Guardian” – includono quella su un presunto prigioniero yemenita a Guantanamo, e una sulla star americana del football Colin Kaepernick».
In un lungo articolo, lo “Spiegel” (che vende circa 725.000 copie alla settimana e ha più di 6,5 milioni di lettori online) si è detto «scioccato» dalla scoperta, e ha chiesto scusa ai propri lettori e a chiunque possa essere stato soggetto di «citazioni fraudolente, invenzioni di dettagli personali o scene inventate in posti fittizi». Più che un giornalista, a quanto pare,  Claas Relotius faceva il romanziere: sceneggiava abilmente le sue storie, destinate a suscitare commozione e indignazione. Lo “Spiegel”, rivista fondata nel 1947 ad Amburgo e rinomata per i suoi approfonditi pezzi investigativi, ha detto che Relotius ha commesso una frode giornalistica «su ampia scala», e ha descritto l’episodio come «il punto più basso» nella storia del giornale, che vanta 70 anni di onorata attività. È stata persino istituita una commissione interna per riesaminare l’intero lavoro di Relotius: si sospetta che le “invenzioni” del reporter siano ancora più numerose di quelle finora rilevate. C’è il rischio, insomma, di nuove sorprese. Anche perché Relotius scriveva pure per una serie di altri noti giornali tedeschi, tra cui il “Taz”, la “Frankfurter Allgemeine” (edizione domenicale) e “Die Welt”, che ha twittato: quell’uomo «ha abusato del proprio talento».
Dal canto suo, Class Relotius ha dichiarato allo “Spiegel” di rammaricarsi per le proprie azioni e di provare profonda vergogna: «Sto male e ho bisogno di aiuto», avrebbe detto. Il collega che l’ha smascherato, Juan Moreno (in forza allo “Spiegel” dal 2007), ha rischiato il suo stesso posto di lavoro, per aver affrontato Relotius, che era difeso da altri colleghi. Non volevano credergli: «Per tre o quattro settimane – ha ammesso lo “Spiegel” – Moreno ha passato l’inferno, perché all’inizio i suoi colleghi e i suoi superiori non volevano credere alle sue accuse». Per settimane, ha precisato il settimanale, Relotius è stato Juan Morenoperfino considerato una vittima delle trame di Moreno. Il giornalista falsario «respingeva abilmente tutti gli attacchi e tutte le prove, per quanto approfondite», esibite da Moreno. Ma un certo punto, negare l’evidenza non ha più funzionato: Relotius «non ha più potuto dormire, era perseguitato dalla paura di essere scoperto». Alla fine si è arreso, «dopo esser stato affrontato da un caporedattore del giornale».
Nella confessione resa al dirigente emerge tutta la sua fragilità umana: «Non era perché volevo trovare il grande scoop», ha spiegato. «Era per la paura di fallire. E la mia sensazione di essere costretto a non potermi mai permettere di fallire diventava sempre più grande, quanto più grande diventava il mio successo». Lo “Spiegel”, aggiunge Kate Connolly sempre sul “Guardian”, è uno dei giornali più importanti in Germania: ora sta cercando di salvare la propria reputazione, ma si teme che, già alle prese con i tanti problemi dell’industria dell’informazione tedesca, farà molta fatica a recuperare. «Tutti i suoi colleghi sono profondamente scossi», ha scritto la rivista. «Sono tristi e sbalorditi: sembra come un lutto in famiglia». Li si può capire, specie di fronte alle sconcertanti motivazioni addotte dal reo, “costretto” a truccare le carte non riuscendo a tollerare l’idea di essere scartato dal sistema, in quanto non abbastanza efficiente. Problema enorme: possibile che il timore del giudizio altrui possa spingere a tanto? Vale per tutti gli operatori del mainstream: magari non hanno mai inventato niente di sana pianta, come ha fatto Claas Relotius, ma quante notizie importanti omettono ogni giorno? Quanto deformano la realtà che vendono come autentica ai lettori e ai telespettatori?

fonte: http://www.libreidee.org/