venerdì 27 aprile 2018

Veneziani: vi presento l’altro Pertini, iracondo e stalinista

Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. A quarant’anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l’altro Pertini. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’“Avanti!” e all’epoca capogruppo socialista, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l’“Avanti!”: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.
Da presidente della Repubblica il compagno Pertini concesse appena fu eletto, la grazia al boia di Porzus, l’ex partigiano comunista Mario Toffanin, detto “Giacca”, nonostante questi non si fosse mai pentito dei suoi crimini per i quali era stato Sandro Pertinicondannato all’ergastolo. Toffanin fu responsabile del massacro di Porzus, febbraio 1945: a causa di una falsa accusa di spionaggio, furono fucilati ben 17 partigiani cattolici e socialisti (la “Brigata Osoppo”), da parte di partigiani comunisti (Gap). Tra loro fu trucidato il fratello di Pasolini, Guido. Dopo la grazia di Pertini a Toffanin lo Stato italiano concesse al criminale non pentito pure la pensione che godette per vent’anni, insieme ad altri 30mila sloveni e croati “premiati” dallo Stato italiano per le loro persecuzioni antitaliane. Pertini partecipò poi commosso al funerale del presidente jugoslavo Tito (1980), il primo responsabile delle foibe, baciando quella bandiera che destava terribili ricordi negli esuli istriani, giuliani e dalmati.
Pertini fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre in molte vicende. Per esempio, quella della coppia di attori Valenti-Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all’Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch. L’accusa si dimostrò infondata al vaglio di prove e testimonianze; lo stesso Vero Marozin, capo della brigata partigiana che eseguì la loro condanna a morte, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, pagarono la loro vita tra lussi e cocaina ma non avevano responsabilità penali o politiche tali da giustificarne la fucilazione per collaborazionismo. Nelle dichiarazioni rese da Marozin in sede processuale Pertini fu indicato come colui che aveva dato l’ordine di ucciderli: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: “Fucilali, e non perdere Osvaldo Valenti e Luisa Feridatempo!”». Si veda al proposito “Odissea Partigiana” di Vero Marozin (1966) “Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Ascesa e caduta di due stelle del cinema” di Odoardo Reggiani (Spirali, 2001).
«Pertini si era rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva elaborato durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. La casa milanese di Valenti e della Ferida venne svaligiata pochi giorni dopo la loro uccisione. Fu rubato un autentico tesoro (cani di razza inclusi) di cui si perse ogni traccia». È famoso l’episodio accaduto all’arcivescovado di Milano nel ’45, quando Pertini incrociò sulle scale Mussolini, reduce da un colloquio col cardinale Schuster. Pertini disse poi di non averlo riconosciuto, «altrimenti lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella». Poi aggiunse: «Come un cane tignoso». Pertini sosteneva la necessità di uccidere Mussolini, non arrestarlo: se si fosse salvato, disse, magari sarebbe stato eletto pure in Parlamento. Delle responsabilità di Pertini nella strage di via Rasella a Roma, ne scrisse William Maglietto in “Pertini sì, Pertini no” (Settimo Sigillo, 1990).
Al Quirinale, al di là dell’immagine bonaria del presidente che tifa Nazionale, gioca a carte, va a Vermicino per Alfredino, il bambino caduto nel pozzo, si ricorda il suo carattere permaloso. Ad esempio quando cacciò il suo capo ufficio stampa, Antonio Ghirelli, valoroso giornalista e galantuomo socialista. O quando chiese di cacciare Massimo Fini dalla Rizzoli in seguito a un articolo su di lui che non gli era piaciuto. Così ne parlò lo stesso Fini: «Immediata rabbiosa telefonata al direttore della “Domenica del Corriere” Pierluigi Magnaschi, un gentleman dell’informazione, il quale ricoperto da una valanga di insulti cerca di barcamenarsi alludendo all’autonomia delle rubriche dei giornalisti, allo spirito un po’ da bastian contrario di Pertini con BearzotMassimo Fini. Il “nostro” San Pertini gli latra minacciosamente: “Non credere di fare il furbo con me, imbecille! Chiamo il tuo padrone Agnelli e vediamo qui chi comanda!” E infatti il giorno dopo mi si presenta il responsabile editoriale della casa editrice Lamberto Sechi…». Lo stesso Pertini disse a Livio Zanetti in un libro-intervista: «Cercai inutilmente di far licenziare uno strano giornalista italoamericano». Nenni nei suoi diari considerava Pertini un violento iracondo.
Quando l’Msi celebrò il suo congresso a Genova nel 1960, fu proprio Pertini ad accendere il fuoco della rivolta sanguinosa dei portuali della Cgil col discorso del “brichettu” (il cerino). E vennero i famigerati “ganci di Genova”, coi quali un governo democratico di centro-destra, a guida Tambroni, con l’appoggio esterno del Msi, fu abbattuto da un’insurrezione violenta nel nome dell’antifascismo. Proverbiale era la poi sua vanità. Ghirelli riferì uno sferzante giudizio di Saragat: «Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la televisione». E i suoi abiti firmati, le sue scarpe Gucci mentre predicava il socialismo e il pauperismo… Fiorirono poi tante maldicenze su di lui, capo partigiano e poi leader socialista, che vi risparmio; circolavano giudizi dell’Anpi, di Marco Ramperti… Francesco Damato ricordò: «Nel 1973 Pertini mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per far posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita». Poi fu proprio l’onda emotiva dell’assassinio Moro e l’asse Dc-Pci sulla non-trattativa che portò a eleggerlo due mesi dopo al Quirinale. Infine va ricordato il Pertini che agli operai di Marghera, nel pieno infuriare del terrorismo rosso con larghe scie di sangue, disse: «Sono stato un brigatista rosso anch’io», per poi negare che le Br fossero rosse, giudicandoli solo «briganti», così da recidere il filo rosso tra Br e partigiani. Il presidente di una repubblica flagellata in quegli anni dal terrorismo rosso, si definiva orgoglioso «un brigatista rosso».
(Marcello Veneziani, “Il presidente impertinente”, da “Il Tempo” del 14 marzo 2018; articolo ripreso dal blog di Veneziani).

fonte: http://www.libreidee.org/

venerdì 20 aprile 2018

la battaglia di Crevola tra folk, fake ed esperimenti antropologici


Folklore e fakelore sono due termini fondamentali della ricerca antropologica contemporanea. Il primo indica, in estrema sintesi, la "cultura tradizionale", il secondo quella "inventata", ma che vuole essere fatta passare come tradizionale. Il fakelore, termine americano creato nel 1950 da Richard Dorson, viene utilizzato per indicare del folklore inventato presentato come se fosse autenticamente tradizionale, e pu riferirsi sia a storie, e di conseguenza anche a tradizioni, completamente inventate, sia ad antico folklore riadattato ai tempi moderni. 
Gli eventi della battaglia di Crevola, le celebrazioni ufficiali, la retorica di questo evento nei secoli, non possono far altro che rappresentare un classico esempio di fakelore, e proprio le celebrazioni del 525° possono, a mio avviso, dare l'abbrivio per far partire una neo-tradizione che ha due sorti: o iniziare a "camminare con le sue gambe" oppure "estinguersi". Esiste anche una terza via parlando di tradizioni che è quella delle modificazioni, ma, per ora, eviterei di trattare questo argomento. Ma procediamo con ordine: La Battaglia di Crevola e la processione di San Vitale.


Il difficile conto delle vittime tra retorica e patriottismo 

Dalle testimonianze scritte che possiamo ritrovare sull'epico scontro che, secondo alcuni, e su questo tema torner più avanti, diede origine all'Ossola o quantomeno "all'Ossolanità", il bilancio del conflitto fu "miracoloso". Le forze elvetiche, che guarda caso vengono sempre considerate soverchianti di numero e di forze, vennero sconfitte duramente. Il conto delle vittime fu disarmante: due decessi tra gli sforzeschi e ben 2mila morti tra i vallesani. Bazzetta racconta la battaglia con una retorica risorgimentale: "Tutti furono prodi", "Si scambiarono formidabili colpi che risuonavano sugli elmi e sulle corazze percosse", un combattente viene descritto così: "aveva l'aspetto più di belva che di uomo per lo smisurato furore della sconfitta recente". E ancora: "Il Muller coprì la terra sanguinosa colla sua grande persona, rovinando sui cadaveri". Dei vallesani che riuscirono a salvarsi solo pochi, prosegue il Bazzetta, riuscirono a tornare a casa: "alcuni perirono di fame o precipitarono nei burroni ed altri furono uccisi dai valligiani che anelavano vendetta di tante passate dolorose vicende sofferte, e che inferocirono sui cadaveri dei vinti. Le donne stesse furono vedute strappare il cuore ai cadaveri e darlo in pasto ai cani".  Naturalmente il conto delle vittime non fu univoco: secondo gli storici svizzeri furono mille i soldati che non tornarono a casa, secondo quelli italiani duemila e più, tra cui 300 lucernesi, di cui ben 50 di famiglie notabili. Stesso discorso vale per le perdite sforzesche, che variano, a seconda dei documenti, tra i 2 ed i 4.  La percezione della vittoria tra gli ossolani fu senza dubbio quella di un vero e proprio miracolo. Se a questo si aggiunge che la vittoria avvenne proprio il 28 aprile, giorno in cui la chiesa cattolica ricorda san Vitale...



San Vitale 

San Vitale a molti potrà non dire nulla. In realtà è strettamente legato a Domodossola, trattandosi del padre, ma anche in questo caso si tratta di una pura leggenda inventata da sant'Ambrogio e dai suoi discepoli, di Gervasio e Protasio.  San Vitale, che originariamente viene ricordato insieme a sant'Agricola, è un protomartire della chiesa bolognese, sepolto nella cattedrale di san Pietro e che divent celebre nel 409 quando Galla Palcidia ne trasl alcune reliquie nell'oratorio al posto del quale fu poi eretta la basilica. Il culto di questo santo nacque nel bolognese ma ben presto si diffuse a Milano, dove Ambrogio vi port alcune reliquie, Firenze, Nola e Ravenna. Nel 409, dicevamo, Galla Placidia, trasferitasi da Milano e Ravenna, vi port diverse reliquie, non solo di san Vitale e sant'Agricola, ma anche di Gervasio e Protasio, il cui culto era particolarmente caro ad Ambrogio. All'inizio, per dovere di cronaca, l'iconografia di Vitale lo vedeva come il servo di Agricola ma poi il culto di questi divenne meno importante a favore di quello di Vitale, che viene rappresentato come un ricco e nobile romano padre dei Santini domesi. L'iconografia ufficiale, molto vasta, lo ritrae solitamente vestito da soldato a cavallo che solleva uno stendardo, con lancia, spada e mazza, strumento del martirio della sua sposa Valeria, celebrata anch'ella il 28 aprile.  La "parentela" tra Vitale e Gervasio e Protasio è puro fakelore: Ambrogio non aveva alcuna notizia dei due martiri che sarebbero diventati patroni di Domodossola. Nel V secolo troviamo testimonianze di questa mitica parentela nella Lettera sul rinvenimento dei santi Gervaso e Protaso. E' una lettera che proviene dall'ambiente di Ravenna e quindi pone un legame tra i due nuovi martiri e la città.  San Vitale è quindi particolarmente legato a Crevoladossola, insieme ai santi Gervasio e Protasio. Ne troviamo infatti diverse raffigurazioni nella chiesa plebana dei santi Pietro e Paolo. Anche a Domodossola fu dedicata a questo santo la campana maggiore della Collegiata, nel 1488. 

La processione e la sua fine 

Scrive lo storico Giovanni Capis: "L'istesso borgo ed alcune terre fecero voto di erigere un oratorio al Ponte di Crevola luogo della vittoria, sotto il nome dell'antidetto San Vitale, et di visitarlo ogn'anno processionalmente in tal giorno; qual voto tuttavia è osservato". La testimonianza è del 1673, anche se, come afferma più avanti lo stesso Capis, "di questo Voto ancorché presso tutti sia indubitato, non vi ha trovato memoria per scrittura".  Dal 1487 il clero ed il popolo di Domodossola si recavano annualmente all'oratorio di san Vitale, dove veniva celebrata una messa solenne al mattino e la sera vi era il canto dei vespri. Come spiega Bertamini le elemosine raccolte erano consegnate ai fabbricieri di Crevola. L'oratorio serviva quindi ad una sola funzione annuale. Della processione abbiamo tracce fino al 1779, quando il vescovo,Aurelio Barbis Bertone, viet le processioni fuori parrocchia (escludendo naturalmente le Rogazioni, testimonianze di riti pagani di fertilità). 


Ma esiste l'ossolanità? 

Sembra che il legante degli ossolani fu la cosiddetta co-trascendenza: il culto dei santi Gervasio e Protasio, e dei loro genitori Vitale e Valeria. 
Ma, da antropologo che da diversi anni studia dettagliatamente l'apparato folklorico ossolano non posso che chiedermi: esiste l'Ossolanità? O sono tutti come scrissi qualche anno fa, "l'un contro l'altro (metaforicamente) armati"? In un suo saggio pubblicato postumo, dal titolo Tradizioni popolari ossolane: ingiurie, imprecazioni e nomignoli ossolani, Adolfo da Pontemaglio ci offre una valida e colorita descrizione di questi atteggiamenti fortemente etnocentrici, che lui definisce come “ingiurie topiche”1
Si tratta di nomignoli e stereotipi che non interessano solo gli abitanti dei comuni limitrofi, ma addirittura gli abitanti di alcuni quartieri o frazioni dello stesso paese. I domesi vengono così definiti, in generale ed in rapporto agli altri abitanti dell’Ossola, ginevritt e patachitt. Il primo appellativo sembra derivare dall’ignoranza religiosa di questi cittadini, che venivano considerati quasi protestanti. Essendo Ginevra un luogo eminentemente luterano, il lemma ginveritt è divenuto, nel giro di poco tempo, sinonimo di protestante o di persona poco religiosa2. Il termine patachitt, in origine indicante i giovani non ricchi ma vestiti con ricercatezza, arriv a designare gli abitanti del capoluogo ossolano perché questi indossavano sempre dei vestiti migliori rispetto a quelli dei contadini delle vallate circostanti3. Questa specie di “boria” e di altezzosità dei “cittadini” domesi rispetto ai loro vicini riecheggia anche nel modo di dire “tarnaga cum poch sold e tanta blaga”, ovvero ignorante con pochi soldi e tanta baldanza4
E che dire degli abitanti di Crevoladossola? Molti nomignoli sono di matrice zoologica. Gli abitanti di Preglia, Crevola ed Oira (tra frazioni di Crevoladossola) sono detti ghett, perché proprio come i gatti litigano continuamente tra di loro, sbeffeggiandosi continuamente l’un l’altro. 
Si tratta di un discorso molto complesso, e questo non è certamente il contesto per trattarlo. Mi limiter a dire che la concezione identitaria ossolana pu esistere, ma solo in contrapposizione ad un'alterità. Che possono essere gli abitanti di un'altra frazione, di un altro paese, di un'altra valle, di un'altra regione, di un altro stato... 


La processione ed il corteo: prospettive antropologiche 

Arriviamo ora a cercare di leggere antropologicamente quello che accadrà tra poche decine di minuti. Si svolgerà una messa, un momento religioso, e si formerà un corteo con autorità religiose, laiche, gruppi medioevali, associazioni... Una rappresentanza eterogenea del mondo associazionistico di Crevoladossola, della sua collettività, e non solo. Al termine il pranzo, momento conviviale. 
Grande l'impegno dell'amministrazione per organizzarlo quest'anno, in occasione del 525°. Ma l'anno prossimo che accadrà? E tra due anni? E tra 10? Se l'evento, la manifestazione (e se serve chiamiamola pure tradizionale, come la torta Creula proposta dalla pasticceria Cartini, anche se sappiamo che si tratta di un chiaro fake-lore) riusciranno autonomamente a prendere piede, spazio nel cuore dei crevolesi e "ritagliarsi" un angolo nel calendario rituale del paese la festa sopravviverà. E sarà interessante vedere come la festa cambierà e "si adatterà" all'ambiente, notarne le modificazioni e dopo quanto tempo verrà percepita come un qualcosa di realmente "tradizionale", e verrà collocata in quello che potremo definire un tempo mitico, quello stesso tempo mitico "della tradizione". Gli antropologi lo sanno bene che si tratta di un fake-lore, ma non demonizziamo queste "feste inventate", queste "tradizioni" la cui origine vorrebbe perdersi in un tempo antico ma che in realtà è definita a pochi anni or sono. 
Abbiamo lanciato un sasso nel vasto mondo del folklore e delle feste popolari, speriamo che attecchisca. E chissà, magari ci ritroveremo tra 25 anni a trattare della processione della Battaglia di Crevola a San Vitale come uno degli episodi di fede popolare più importanti dell'Ossola o magari del Nord Italia.

Luca Ciurleo

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/

1 Il saggio è contenuto in Ferraris, 1997, pp. 103-122. 
2 Ferraris, 1997, p. 115. 
3 Ferraris, 1997, p. 116. 

4 Ferraris, 1997, p. 109.


mercoledì 11 aprile 2018

tempo di libri, tempo mio

si lamentavano dello scarso successo dello scorso anno.
bene.
quest'anno: una bolgia!
infernale (ho acquistato l'audiolibro di Vittorio Sermonti che legge l'inferno di Dante).
no, piacevole, a parte la solita varia e amena umanità.
domenica mi sono fatta la solita scorpacciata di nevrosi e ossessioni, in primis una truccatissima signora che già in fila per entrare in una sala dichiarava al mondo che il marito la vuole internare per dipendenza da cellulare, pensavo scherzasse (quanto poteva poi interessarmi la questione? nulla, ma ero ignara della fine che avrei fatto) ma, in seguito, trovandomela seduta di fianco, le avrei volentieri fornito i numeri di numerosi miei colleghi e psicoanalisti perché la faccenda era seria, grave, tragica e francamente insopportabile.
la poveretta era colta da una compulsione incoercibile tale per cui maneggiava l'oggetto cellulare con tormento inesauribile, apriva senza sosta (e, ovviamente, senza alcuna attenzione per l'evento per cui era seduta in quella sala), la pagina di whatsapp, senza nessun'altra condizione possibile alternativa, apriva di continuo le stesse icone, che non modificavano assolutamente il loro stato, per rivedere incessantemente le stesse pagine e fotografie, aggiungeva reiteratamente nuove righe che non ricevevano nessuna risposta. 
così per un'ora, chissà nella vita. 
inutile sottolineare l'assenza di qualsivoglia interrogativo sul fastidio che questa sua continua manipolazione erotica dell'oggetto fallico potesse infastidirmi e distrarmi. 
la condizione era ancora più penosa se consideriamo che il suddetto marito, seduto lontano da lei qualche sedia più in là nella fila davanti, era colto dalla medesima ossessione, si girava ogni due minuti per controllare se la moglie stesse guardando il cellulare, e mai veniva deluso.
voi capite che io, in mezzo a questa preoccupante nevrosi di famiglia, ho avuto ben poco scampo se non augurandomi la riapertura dei manicomi.
tempo di nuove leggi sulla salute mentale.
di situazioni bizzarre ne ho avute anche altre ma non vorrei che tempo di libri si tramutasse, nella mia narrazione, in tempo sprecato.
l'ubriacatura da libri è di grande godimento, è un'estasi e un'oasi.
poi tutto riprende come prima, anche peggio, al solito le sbronze fanno più male che bene.
gli incontri sono stati di livello medio, forse lo scorso anno ho sentito storie e interviste più interessanti.
non poteva mancare Recalcati (anche in compagnia della moglie, biondina mechata carina, direi figura convenzionale da compagnia di uomo famoso di successo, lui augura a tutti una vita felice, gliela auguro anche io!!) che si è speso in una lezione sul superamento della nevrosi sacrificale e, soprattutto, nella presentazione dell'arte di Kounellis e di un libro, pare di discreto successo, "Le assaggiatrici" di Rosella Postorino. quest'ultima mi è sembrata una persona interessante, ha più volte dichiarato la sua analisi -in compagnia di Recalcati tutti calano le braghe- e, devo dire, la sua analisi si sente, si percepisce. chi è stato in analisi, una buona analisi, acquisisce uno sguardo sul mondo inconfondibile. 
chi non mi è piaciuta, affatto, è Concita De Gregorio, presentava un libro di raccolta di storie differenziate tratte dalle canzoni di De Andrè, qualcosa di stonato, forzato, di mamma di 4 figli, di ricordi di infanzia già politicamente corretti, orientati a sinistra, di gioco delle biglie come invocazione alla buona politica, tutto molto poco autentico, una sceneggiatura nauseabonda. è stata, anche a causa della mia psicopatica preferita, un'ora di noia.
Alain Badiou è stato intervistato da Maurizio Ferraris, un dialogo tra sordi, uno diceva delle cose e l'altro (Badiou) visibilmente si innervosiva e rispondeva tutt'altro, una rappresentazione dell'assurdo, ma divertente. marxismo, comunismo, evento, ho capito che il vero comunismo è ancora da venire, l'evento non si è ancora mai concretizzato. 
bella la lettura dei Promessi Sposi, piacevole la biografia della Melato, noiosissima la lettura teatrale della Curino, interessante l'amicizia conflittuale Woolf-Mansfield, interrotta la presentazione della "Ragazza con la Leica" Gerda Taro a causa della pallosissima premessa di uno storico che mi ha reso insopportabile stare in quella stanza, fuori tema e prolisso Philippe Daverio che avrebbe dovuto parlare di Frida e le figure femminili nell'arte (speravo la Scorranese lo contenesse, ma invano) ma si è solo salivato addosso, seppure simpaticamente. 
mi sono goduta la storia della vita densissima di Sabina Spielrein, mi sono ricordata di "Salvami l'anima", indimenticabile film di Faenza, e anche di "A dangerous method", film più dimenticabile. 
mi sono andata a sentire il super virologo Roberto Burioni, dovevo vederlo all'opera. è meno arrogante di quanto pensassi, è una persona seria, accecata dalla verità della scienza. la scienza non spiega ogni cosa, la conoscenza può invece fare molto. sui vaccini dice cose sante, imprescindibili, potrei anche condividere la non democraticità della scienza ma, a quest'uomo, così appassionato, manca la forza delle domande, dei dubbi, dei non so. è un uomo che non calcola la paura, e la violenza della sua portata, cerca di spiegare anche quella scientificamente, cerca una spiegazione scientifica a ogni cosa dimenticando, o forse semplicemente anche lui non sapendo, che c'è un'enorme parte di noi che non sa, proprio non sa, non sa dire, non sa spiegare, è agita dall'inconscio, che scienza non è. 

al prossimo anno, se ci saremo ancora.

fonte: http://nuovateoria.blogspot.it/

mercoledì 4 aprile 2018

il Cristo ufficiale cattolico, nato nel IV secolo dopo Cristo

Per “Cristo storico” si intende la intricata disputa fra teologi, esegeti, archeologi, studiosi laici e credenti, che dura ormai da oltre un secolo, sulla effettiva esistenza del personaggio di Gesù Cristo. In altre parole, molti nel corso del tempo si sono domandati, e continuano a domandarsi, “ma Gesù è esistito davvero, o è soltanto una bella fantasia”? Diciamo subito che non vi sono prove assolute né in un senso né nell’altro. Vi è però una sufficiente quantità di riscontri documentali – fra cui primeggiano ovviamente i Vangeli – per affermare almeno che un certo predicatore di nome “Joshua” abbia calcato il suolo della Palestina in quel periodo storico. Il vero problema, casomai, è stabilire quali episodi a lui attribuiti siano veri e quali eventualmente no. Nel cercare di ricomporre questo complicato puzzle, infatti, subentrano continuamente possibilità di una lettura allegorica, che spesso “sdoppiano” il personaggio di Gesù in una versione prettamente umana, ed un suo possibile duplicato “simbolico”, con valenze anche divine. In altre parole, il Gesù che predicava alle genti nelle piazze è lo stesso Gesù che faceva i miracoli e camminava sull’acqua? O forse quello “miracoloso” è uno strato aggiuntivo, sovrapposto alla figura del normale predicatore per aumentarne la credibilità presso i suoi contemporanei?
Oppure ancora, i “miracoli” erano veri miracoli – nel senso che trasgredivano le leggi della natura – o erano solo rappresentazioni metaforiche di banali eventi quotidiani? (Ad esempio, nella comunità degli Esseni il sacerdote che praticava iGesù Cristo nel cinemabattesimi raggiungeva il centro della pozza d’acqua camminando su una sottile plancia di legno, e visto da lontano sembrava che camminasse sull’acqua. Era infatti definito, all’interno della comunità, “colui che cammina sull’acqua”. Se Cristo fosse stato – come molti sostengono – un sacerdote esseno, faceva dei veri miracoli, o era semplicemente uno a cui non piaceva bagnarsi i piedi?). Ma il vero problema, che rende difficile una qualunque ricostruzione storica, sta nel fatto che la stessa fonte dei Vangeli sia “inaffidabile” per sua natura. Contrariamente a quanto molti credono, infatti, i Vangeli “degli apostoli” non furono scritti direttamente da Marco, Matteo Luca e Giovanni… ma dai loro discepoli, o dai discepoli dei loro discepoli, una cinquantina di anni più tardi. Al tempo di Gesù prevaleva ancora la tradizione orale, e soltanto sul finire del primo secolo si iniziò a sentire l’esigenza di mettere il tutto nero su bianco. E come ben sa chiunque abbia giocato a “passaparola”, una frase come “ho perso il sonno” fa molto in fretta a diventare “è morto il nonno”.
Ecco perché, in questo caso, assumono grande importanza i riscontri incrociati. Se il Vangelo “A” descrive un certo episodio, e lo stesso episodio si ritrova anche nel Vangelo “B”, si moltiplicano di colpo le possibilità che l’episodio sia accaduto davvero. Secondo la tradizione, infatti, i discepoli si sarebbero dispersi dopo la morte di Gesù, dando vita a “rivoli” separati di tradizione orale, che hanno viaggiato in modo indipendente fino al momento di venir fissati sulla carta. Per quanto preziosi, però, i riscontri incrociati rappresentano anche un’arma a doppio taglio: chi ci dice infatti che un certo passaggio del Vangelo “A”, invece di riportare la tradizione orale da cui deriva, non sia stato semplicemente copiato dal Vangelo “B”? Poichè nessuno conosce il momento esatto di pubblicazione di ciascun Vangelo, infatti, è possibile che certe comunità cristiane abbiano attinto da altri testi evangelici, già in circolazione al momento di scrivere il proprio. E’ lo stesso problema descritto da Walter Walter BenjaminBenjamin, duemila anni dopo, nel suo libro “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, ed è un problema che ormai tutti viviamo quotidianamente in Internet.
Vi sono intere parti del Vangelo di Luca, ad esempio, che sono chiaramente tratte dal Vangelo di Marco (certi passaggi sono letteralmente copiati, parola per parola). La stessa cosa avviene per Matteo, di cui quasi la metà del testo è chiaramente tratta da Marco. Il Vangelo di Marco quindi viene collocato prima, in ordine di tempo, di quelli di Luca e Matteo. A loro volta, però, Luca e Matteo hanno molte parti in comune che non compaiono in Marco, portando ad ipotizzare l’esistenza di un quinto Vangelo, detto “Q”, che sarebbe stato contemporaneo di Marco. (“Q” sta per “quelle”, che in tedesco significa “la fonte”). C’è poi il Vangelo di Giovanni, fra i cosiddetti “canonici”, che presenta una lettura molto diversa dai tre precedenti della vicenda di Gesù. I primi tre infatti sono detti anche “sinottici”, che significa letteralmente che “la vedono allo stesso modo”, implicando che Giovanni la vede invece in modo diverso. Ma la “tombola” delle possibilità non si esaurisce certo con l’identificazione storica delle diverse fonti evangeliche. Fra queste e i Vangeli giunti fino a noi, infatti, ci sono quasi 300 anni di dispute feroci fra i cosiddetti “Padri della Chiesa”, cioè i vescovi e i sacerdoti di tutte le più importanti comunità cristiane dell’epoca, su molte questioni di fondamentale importanza storica e teologica.
La più nota di tutte fu la diatriba sulla reale natura di Gesù, fra chi sosteneva che fosse una entità separata da quella divina, che da questa discendeva, e chi invece diceva che fosse costituito dalla “stessa sostanza” del Creatore. Vinsero i secondi, che scomunicarono il vescovo Ario, sostenitore della prima ipotesi. Naturalmente, nell’ambito di queste dispute interminabili, i testi sacri passavano continuamente di mano in mano, creando infinite possibilità per la “scomparsa” di certi passaggi scomodi, come per la comparsa delle cosiddette “interpolazioni”. Alcuni scambi epistolari fra i vescovi dell’epoca, ad esempio, suggeriscono che Gesù predicasse la reincarnazione, “caratteristica” dell’esistenza umana che sarebbe del tutto scomparsa nella versione finale del cristianesimo, poiché in contraddizione con la visione escatologica della vita, di fondamentale importanza per chi avrebbe imperniato tutto il suo potere sulla “paura dell’inferno”. (Si campa una volta sola, ci dice il cristianesimo, e chi sbaglia è perduto per sempre. Se invece ci fosse stata la possibilità di ritornare, e di rimediare agli errori Crocifissionecommessi nelle vite precedenti, i preti rischiavano di venire accolti da una selva di pernacchie ogni volta che nominassero l’inferno. Via quindi la reincarnazione, e avanti con il Diavolo, il tridente e il Giudizio Individuale).
A loro volta, sul fronte delle interpolazioni ci sono diversi passaggi che lasciano decisamente in dubbio gli studiosi, in quanto sembrano inseriti apposta per rimediare a vistosi “buchi narrativi”, che a loro volta testimoniano della grande confusione che dovesse regnare fra i Padri della Chiesa in quel periodo. Vi sono alcuni casi in cui è stato addirittura possibile dimostrare che un certo passaggio sia platealmente falso, cioè aggiunto in seguito alla stesura originale. In una certa lettera di S.Paolo, ad esempio, l’apostolo utilizza una espressione verbale che sarebbe entrata in uso solo una cinquantina di anni dopo, dimostrando che il passaggio è stato aggiunto in seguito, da qualche scriba poco attento all’evoluzione del linguaggio. E’ come se in un film degli anni ’50 Alberto Sordi si mettesse improvvisamente a gridare «viulèeeenza!», quando tutti sanno che quell’espressione è stata coniata negli anni ’80 da Diego Abatantuono. In quel caso sarebbe chiaro che la scena è falsa, e che è stata aggiunta in seguito, ovvero “interpolata” fra quella che la precede e quella che la segue.
In ogni caso, fu solo nel 325 che i Padri della Chiesa consegnarono nelle mani di Costantino la “versione ufficiale” del cristianesimo come lo conosciamo oggi. Era costituita da 36 libri della Bibbia ebraica (“Antico Testamento”) con l’aggiunta del “Nuovo Testamento”, che contiene i 4 Vangeli canonici (Marco, Matteo, Luca e Giovanni), gli “Atti degli Apostoli”, le “Epistole” e l’“Apocalisse di Giovanni” (il noto testo profetico in cui compaiono anche la “bestia”, la “grande prostituta” e il numero “666”). Va notato che Paolo viene considerato uno degli apostoli, per quanto non abbia mai incontrato Gesù nella sua vita. Solo dopo la sua morte si sarebbe convertito al cristianesimo (sulla via di Damasco), del quale propose una interpretazione “per i gentili” che avrebbe condizionato più di ogni altro apostolo la futura dottrina cristiana. Ma i problemi di discordia non finirono certo con la definizione dei Vangeli canonici: a furia di cambiare, di aggiungere, di tagliare e di Apocalisseinterpolare, i Padri della Chiesa non si sono nemmeno accorti che questi quattro Vangeli finiscono spesso per contraddirsi fra di loro.
Se prendiamo ad esempio la scena della crocefissione, abbiamo addirittura tre versioni diverse sulle ultime parole di Gesù. Marco: «Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?» (che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?). «Ma Gesù, dando un forte grido, spirò». Luca: «Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo spirò». Giovanni: «Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, spirò». Secondo Matteo, Luca e Giovanni, a Gesù fu dato aceto da bere, imbevuto in una spugna. Secondo Marco invece era vino con mirra. Per Marco la prima a visitare il sepolcro, la domenica mattina, fu Maria Maddalena, insieme all’“altra Maria”. Secondo Marco c’era anche Salomè. Secondo Luca c’erano Maria Maddalena, Giovanna, Maria madre di Giacomo, e altre donne. Secondo Giovanni, Maria Maddalena era sola. Marco racconta che all’alba della domenica le donne trovarono il sepolcro sigillato dalla grande pietra. Matteo, Luca e Giovanni dicono invece che la pietra era già stata rimossa. Eccetera eccetera eccetera…
Non si tratta certo di contraddizioni gravi, poichè non intaccano la coerenza complessiva del racconto, ma testimoniano del percorso particolarmente “accidentato” che debbono aver fatto queste narrative prima di finire una volta per tutte sulla pagina scritta. E finora abbiamo parlato solo di quelli canonici, cioè dei Vangeli “ufficiali” che i Padri della Chiesa hanno scelto di inserire nel Nuovo Testamento. Ma esiste tutta una serie di Vangeli, detti “apocrifi”, che sono rimasti esclusi dalla selezione, e che raccontano spesso una storia molto diversa. Va notato che “apocrifo” non significa “falso”, come molti credono, ma “nascosto”. Il termine deriva dal greco apò-kryptomai, dove apò significa “sotto”, e kryptomai significa nascondere (da cui il termine “cripta”, che è un locale sotterraneo della chiesa, quasi sempre nascosto al pubblico). Pare infatti che alcuni preti, meno ubbidienti di altri, tenessero questi documenti ben nascosti “sotto l’altare”, per evitare persecuzioni da parte delle Il Cristo Morto di Andrea Mantegnaautorità ecclesiastiche, che ne proibivano la circolazione. Solo con il tempo, a furia di dichiarare questi Vangeli “falsi”, il termine apocrifo è venuto ad assumere quel significato.
Gli apocrifi offrono quindi agli studiosi una serie ulteriore di riscontri incrociati, nella loro faticosa ricerca del Cristo storico. Se si prende ad esempio il Vangelo di Tommaso, ritrovato in Egitto nel 1947, e lo si confronta con i canonici, risulta che circa la metà degli episodi descritti nel primo (una cinquantina circa) compaiono anche nei secondi. E poichè il Vangelo di Tommaso, che risale circa al 200 d.C., ci è giunto praticamente intatto, grazie all’otre che lo ha protetto per 18 secoli, avremmo di fronte un’ulteriore conferma della probabile veridicità di almeno una parte degli episodi attribuiti a Gesù. Ce ne sono però almeno altrettanti che non trovano corrispondenza nei canonici, e questo ha gettato nel più totale scompiglio molti studiosi, aprendo le porte ad una serie di possibilità praticamente infinita sulla reale esistenza di Gesù. Paradossalmente, i dubbi non si dissolvono nemmeno con la sua morte, ma continuano anche dopo. Vi sono infatti diversi elementi che suggeriscono che Gesù non sia affatto morto sulla croce, ma sia stato salvato in extremis dai suoi discepoli, e portato via di nascosto durante la notte.
Quando il costato di Gesù viene trafitto dalla lancia, ad esempio, esce del sangue. Questo significa che Gesù, nonostante le apparenze, fosse ancora vivo. (Da un cadavere trafitto non esce più sangue, perchè viene a mancare la pressione arteriosa). Sul finire della giornata entra in scena un curioso personaggio, Giuseppe da Arimatea, che chiede e ottiene da Pilato il permesso di portarsi via il corpo di Gesù. Chi era, da dove veniva, e perchè mai i discepoli e i familiari di Gesù glielo avrebbero concesso così facilmente? Quando giunge al Calvario, questo Giuseppe porta con sé 30 o 40 chili di unguento di aloe, con il quale ricopre il corpo di Gesù prima di seppellirlo. Ma l’aloe è anche un potente disinfettante, che in quel tempo veniva usato proprio per curare le ferite. Tutta la faccenda della pietra smossa, inoltre, sembra indicare più una fuga terrena, praticata in Stephan Hoellerfretta e furia dai discepoli che si portavano via Gesù, che non un “risorgere” di tipo divino. Anche le bende lasciate all’interno del sepolcro vuoto sembrano testimoniare di una “rinascita” molto frettolosa e terrena.
Per quanto noi siamo abituati a pensare che Gesù sia “andato direttamente in Paradiso”, infatti, va ricordato che i Vangeli ci parlano di un semplice “risorgere”, inteso come “rialzarsi”. «E’ risorto, non è qui», dicono i personaggi trovati dalle donne di fronte al sepolcro. «Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto». E infatti Gesù apparirà più volte ai discepoli, nei giorni seguenti, in situazioni del tutto “terrene”, mentre l’“ascensione” vera e propria avviene, sempre secondo i Vangeli, solo 40 giorni dopo. Nel libro “Jung e i Vangeli perduti” lo storico Stephan Hoeller ha raccolto tutti gli elementi, i dati storici e i reperti archeologici che sembrano supportare la tesi che Gesù sia effettivamente morto in India, una ventina di anni più tardi. Dopo essere sopravvissuto alla crocefissione, sostiene Hoeller (insieme ad altri storici), Gesù avrebbe predicato per un certo periodo lungo le coste della Turchia, prima di intraprendere un lungo viaggio, in compagnia della madre, che lo avrebbe portato prima in Persia, e poi fino alle pendici dell’Himalaya.
Altri storici hanno trovato tracce di una prolungata permanenza di Gesù in Medio Oriente, dove avrebbe continuato a predicare fino al giorno della sua morte. Vi sono poi ipotesi di tipo “esoterico” – peraltro meno supportate storicamente – che Mazzuccosostengono che Gesù sia invece giunto in Francia, dove avrebbe dato origine alla stirpe reale dei Merovingi, a cui molti attribuiscono qualità divine. In ogni caso, quello che conta davvero è la vicenda del Cristo che tutti bene o male abbiamo assorbito nel corso della nostra vita, e che fa ormai parte integrante della nostra cultura. In altre parole, qualunque siano stati gli eventi realmente vissuti da Gesù, quel che conta è il cristianesimo come è giunto fino a noi, e come ha condizionato nel frattempo – nel bene e nel male – l’intero percorso della storia umana. E forse è persino un bene che sia impossibile fare chiarezza assoluta sulla vicenda reale di Gesù, lasciando così a ciascuno quel margine di interpretazione che è giusto lasciare ad un evento di tale portata storica e di tale valenza spirituale come il suo passaggio sulla terra.
(Massimo Mazzucco, “Il Cristo storico”, dal blog “Luogo Comune” del 30 marzo 2018).

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