martedì 31 gennaio 2017

i "Moso"

una società senza mariti e senza mogli


Chi sono i Moso e dove vivono? 

«I Moso sono una minoranza etnica matriarcale e matrilineare, che vive nello Yunnan» (yun = nuvola; nan = sud), provincia sud-occidentale della Cina, situata ai piedi dell’Himalaya, ai confini con il Tibet, in un paesaggio di valli e montagne attraversato dal fiume Yangtze. Un’unica strada conduce al lago Lugu, “lago Madre” nella lingua dei Moso, a 2.700 metri sul livello del mare.

A 300 km vive la società dei Naxi (si pronuncia “nasci”), imparentata con i Moso, ma occorrono 7 ore di auto per arrivarci.

Originariamente anche i Naxi erano una società matriarcale: ma non lo sono più da alcuni secoli, perché, più esposti dei Moso all’influenza delle varie dinastie imperiali cinesi che si sono succedute e che hanno imposto le loro leggi, compreso l’obbligo del matrimonio. Anche ai Moso fu imposto il matrimonio, ma con la morte di Mao Tse Tung, la prescrizione non fu più osservata e si tornò all’usanza matriarcale.

All’ingresso del villaggio principale campeggia la targa di benvenuto, che recita in cinese e in inglese: “Benvenuti nel Paese delle Donne”...


Inizia da qui il viaggio nella vita quotidiana dei Moso. Le case sono costruite interamente in tronchi di legno e si compongono di una stanza comune, detta Meng Low, che è anche la stanza dove si ricevono le visite e dove dorme la “Dabu” la persona che tiene le redini dell’estesa famiglia. Comunicante con questa, c’è una terza stanza, la “camera dei misteri”, la cui porta è sempre chiusa: qui, si danno alla luce i bambini e si onorano i defunti. Nella Meng Low ci sono panche basse tutt’intorno, che a sera diventano letti per i bambini che vivono nella casa. Al centro della stanza c’è un focolare costantemente acceso con sopra una marmitta piena di acqua, per avere sempre acqua calda per cucinare, per il tè e da bere, poiché i Moso non bevono acqua fredda.

La famiglia Moso è una famiglia estesa a discendenza matrilineare: i figli sono della famiglia della madre.

Nonostante le donne Moso possano avere due bambini ciascuna (in casi rari, è concesso loro di averne fino a 3), l’indice di natalità resta basso, circa lo 0,8%: in una famiglia moso ci potrebbero essere più donne in età di procreare e se ognuna decidesse di avere due figli, come consentito dal regolamento vigente, ci sarebbero troppi bambini di cui occuparsi. I bambini considerano le altre donne della famiglia come “madri”, anche se distinguono la madre naturale da queste. Nascere bambina è una benedizione in area moso.

La famiglia

I Moso vivono nella stessa famiglia fino alla quarta generazione, insieme alla Dabu, la donna più anziana che ricopre il ruolo di capofamiglia. La sua autorità è riconosciuta da tutti i membri del nucleo familiare e la sua elezione è regolata da criteri di meritocrazia: al momento della successione, infatti, la Dabu in carica sceglie colei che prenderà il suo posto tra le donne della sua famiglia più meritevoli per imparzialità, capacità di gestione della casa e dei beni, moralità e rispetto per la persona. Questi elementi determinano l’autorità della Dabu, che non abusa mai del suo potere: le decisioni sono condivise ma lei ha l’ultima parola, e possono coesistere persino due Dabu senza che vi sia competizione tra di loro.

Nonostante l’uomo abbia un ruolo secondario all’interno della famiglia, tuttavia non è oggetto di oppressione da parte delle donne: sa occuparsi molto bene dei figli delle sorelle, costruisce e ripara la casa. Una siffatta distribuzione dei ruoli ne fa una società democratica ed egualitaria.
Il matriarcato moso, infatti, non è l’equivalente del patriarcato.


I Moso sono una società contadina: uomini e donne lavorano indistintamente la terra servendosi di una tecnologia semplice: aratro a trazione animale, per l’aratura, bastone da scavo, per la semina e raccolta manuale del prodotto finale. Coltivano principalmente cereali, prodotti orticoli ma non il riso: le risaie non rientrano nella cultura moso, essendo la loro una comunità montana. Si praticano anche la pesca e la raccolta di una particolare pianta lacustre, e del suo fiore, che mangiano insieme alla carne o in zuppe. Per queste attività, i Moso si servono di imbarcazioni scavate a mano da tronchi d’albero (attività di competenza degli uomini), senza motore. L’unica imbarcazione a motore presente sul lago è un natante con funzione di ambulanza, data l’impraticabilità della strada in determinati periodi dell’anno.

La tessitura, praticata dalle donne, e l’oreficeria, praticata dagli uomini, sono tra le attività più diffuse. Negli ultimi anni, però, l’incremento del turismo ha permesso lo svilupparsi di altre attività commerciali. Principalmente sono sorti piccoli ristoranti e pensioncine a conduzione familiare, nei villaggi più facilmente raggiungibili. Il turismo porta benessere ma anche le prime avvisaglie di un divario economico tra le famiglie, prima inesistente. I Moso non lo incoraggiano, però va da sé che se una casa o un ristorante si affacciano sul lago, questi sono maggiormente richiesti dai turisti. Lo stesso dicasi per i villaggi: quelli prospicienti il lago sono preferiti a quelli situati più all’interno.

Il matrimonio

«I Moso si amano, ma non si sposano. Considerano il matrimonio come un attacco alla famiglia stessa». Ecco il centro della cultura moso e della sua peculiarità principale. La cultura moso fa della separazione tra vita sentimentale e vita familiare un principio irriducibile, l’unica eccezione concessa riguarda i funzionari di Stato, i quali hanno l’obbligo di contrarre matrimonio per fini istituzionali. Le relazioni tra uomo e donna avvengono nella più totale libertà sessuale, soprattutto da parte della donna: non esiste il concetto di proprietà della persona. Le loro relazioni affettive si basano sull’amore, sono disinteressate, non sono vincolate né da legame economico né giuridico.

All’età di 13 anni avviene il passaggio alla vita adulta: la ragazza riceve il costume tradizionale, che indosserà da quel momento in ogni occasione di festa comunitaria. Riceve inoltre la chiave della “camera dei fiori”, dove porterà il suo innamorato. Anche il ragazzo riceve il costume tradizionale ma non la chiave. Nessun membro della comunità oserà infrangere la privacy degli incontri amorosi.

Quando due persone si piacciono, la donna conduce l’uomo nelle sua stanza dei fiori dalla quale, passata la notte, l’uomo se ne va. Per farvi ritorno il giorno dopo e quello dopo ancora. La segretezza accompagna la relazione fin quando non diventa stabile; a quel punto, la donna ne parla alla Dabu che per l’occasione prepara una cena a cui parteciperanno le donne anziane più vicine alla famiglia. Il legame tra i due innamorati è detto “unione itinerante” proprio per il suo carattere non fisso: è l’uomo a spostarsi nella casa della compagna e vi continua ad andare ogni notte finché c’è amore tra i due. Quando il sentimento si esaurisce, l’uomo torna a dormire nella sua casa materna.

L’assenza del matrimonio non ha conseguenze sulla comunità: non vivendo insieme, non ci sono contrasti. Le donne hanno il controllo del proprio corpo e della propria sessualità. I figli appartengono alla famiglia della madre, la loro educazione è affidata alla famiglia, i beni non sono in comune. I bambini non crescono con il padre biologico, anche se egli può vederli e stare con loro quanto vuole. Fino a poco tempo fa, i bambini potevano anche non sapere il nome del loro padre, ma con l’istruzione obbligatoria si è resa necessaria la paternità manifesta per poterli iscrivere a scuola. Questo fatto tuttavia, non è fonte di frustrazione nei bambini, che crescono nell’amore dei familiari e in serenità.

L’infedeltà è anacronistica, dal momento che le coppie non si promettono mai niente a lungo. La violenza domestica non esiste, nessuno è proprietà di nessuno, si appartiene solo alla famiglia materna. La gelosia è derisa, anche pubblicamente: è un fattore culturale, non naturale. Ciò non vuol dire che tra i Moso non ci sia violenza, ma questa è sporadica: si ha solo dove le coppie si sposano e coabitano. La violenza non viene occultata, ma è resa pubblica e la gestione del conflitto è regolata da una donna saggia: i Moso sono tolleranti. Sono gelosia e violenza che generano disordine, nella visione moso.

La maternità

Tutte le donne svolgono funzione materna verso i figli delle sorelle. I bambini sono considerati la reincarnazione degli antenati e fino a tre anni stanno con la madre, poi si trasferiscono nella Meng Low e dormono con la Dabu fino ai 13 anni. La funzione di padre è svolta dallo zio materno. In una società matrilineare il padre naturale non ha alcun ruolo, perché non è considerato consanguineo: la consanguineità ha valore sociale e culturale, più che biologico. Ma in nessun caso i bambini sono privati dell’affetto dei padri, né i padri dei figli.

Le istituzioni

Il capo villaggio è un uomo, il cui compito consiste nel coordinare le decisioni prese dalle Dabu. È un ruolo nominale. Nessun regolamento però impedisce alle donne di essere elette.

La religione e il culto dei morti

I Moso praticano una forma sincretica di Buddismo tibetano e dabaismo. La natura è sacra ed è femminile: ovunque si incontrano le bandiere di preghiera colorate, soprattutto nei luoghi più elevati e ventilati. Gamu è la montagna sacra ed è oggetto di culto. I Daba, preti sciamanici maschili, sono i custodi della religione antica e hanno il potere di liberare le donne dagli spiriti maligni: in una prospettiva armonica, rappresentano nella religione quello che le Dabu sono nella società. Più volte al giorno girano attorno ad uno stupa (monumento funerario) in senso orario facendo ruotare il mulinello di preghiera. I Moso sono una società spirituale, spesso infatti si incontrano donne recitanti preghiere mentre percorrono avanti e indietro le strade del loro villaggio.




Appunti da una presentazione del libro di Francesca Rosati Freeman, “Benvenuti nel Paese delle donne“, XL edizioni. Uno studio sulla società matriarcale dei Moso, minoranza etnica cinese nella provincia dello Yunnan.





Per ottenere il libro, visita il sito web dell’autrice: francescarosatifreeman.com




fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it

la strage dei bambini, orrendo tabù avvolto dal silenzio

Bambini da uccidere, sacrificare, persino mangiare. Mentre spariscono ogni anno centinaia di minori, in parte forse destinati anche alla potentissima rete internazionale dei pedofili, una ricercatrice come Lara Pavanetto, a margine del suo libro “Streghe o vittime?” (Filippi editore), in una riflessione sul suo blog si sofferma sul sinistro mistero che nasconde il vero destino di tanti, troppi bambini, nella storia della nostra civiltà. «Di tutti i gruppi sociali che formavano le società del passato, i bambini sono quello più misterioso», scrive. «Raramente si vedono nei documenti, mai si sentono. Un misterioso silenzio circonda la moltitudine dei neonati, bambini e adolescenti che pure hanno vissuto. I resti fossili dei popoli antichi e medievali appartengono quasi totalmente ad adulti, i bambini sembrano non aver lasciato traccia alcuna. E’ difficile sapere qualcosa sulla vita dei bambini, ancora più difficile è conoscerne qualcosa riguardo la morte. Ma spesso morte e vita erano due facce della stessa medaglia, intimamente legate; soprattutto la morte dei bambini, fino ad oggi, è e rimane un tabù che nasconde molto».
Anticamente, scrive Pavanetto, la pratica dell’abbandono era assai frequente, e spesso finiva per significare la morte del bambino: «Tuttavia questa naturale prospettiva non è mai citata né dalle fonti letterarie né da quelle storiche». E soltanto una Infanticidiovolta, nel corpus di testi giuridici che si occupano dell’abbandono, si allude alla morte degli “esposti”. «Nelle fonti letterarie questi bambini non muoiono mai, nessuno storico cita la morte di esposti e mostra preoccupazione per la loro salvezza. Nessuna fonte menziona cadaverini da seppellire. Soltanto i moralisti e gli oratori sollevano qualche dubbio sulla loro fine». Nella Bibbia, il sacrificio dei bambini agli dèi è «proibito, condannato o menzionato con disprezzo in molti passi», eppure nel Libro dei Re si menziona Moloch (un dio pagano?) che richiede l’uccisione di bambini. Idem in Geremia e forse nel Levitico. Sempre nei Re «si parla anche di sacrifici di bambini con il fuoco». I bambini «erano un dono prezioso per gli déi», ma evidentemente «non abbastanza per i genitori». Il re Moab sacrifica il primogenito sulle mura della città come segno di lutto (Re). E in un altro testo biblico, (Giudici) Iefte «uccide la sua unica figlia per adempiere un voto fatto al Signore». Sarà poi “Dio” stesso a richiedere ad Abramo (Genesi), il sacrificio estremo del figlio: Abramo è pronto a farlo, sarà solo “Dio” a fermarlo.
«Ma, nelle sacre scritture, si parla anche di genitori che mangiano i loro figli», aggiunge Lara Pavanetto, che spiega: si tratta di «un topos non isolato, che ricorre anche nella letteratura antica». C’è il Faraone, che tenta di uccidere tutti i figli maschi degli ebrei (Esodo). «Poi si aggiungono alcuni passi davvero eloquenti che parlano di forme di infanticidio più generali». Si legge nel Libro dei Re: «Sfracellerai i loro lattanti e squarcerai le loro donne incinte». E nei Salmi: «Beato chi prenderà i tuoi pargoli e li sbatterà contro la pietra». Un intellettuale come Filone, filosofo ebreo di lingua greca vissuto ad Alessandria nel primo secolo, «poneva sullo stesso piano l’infanticidio e l’abbandono, descrivendo anche i metodi abitualmente usati per sopprimere un bambino: soffocamento o annegamento». In epoca medievale, «sia gli eretici che gli stranieri sono accusati Caravaggio, il Sacrificio di Isacconelle fonti contemporanee di rapire, uccidere, violentare e addirittura mangiare i bambini: Anna Comnena affermava che i Normanni erano soliti arrostire i bambini sugli spiedi».
In diverse parti della Grecia, in epoca micenea o minoica, e in epoche ancora posteriori, in Egina, Attica, Argolide, Melos e Creta, si usava seppellire i morti in casa, in vasi di terracotta interrati nel pavimento, specie nel caso dei fanciulli, «forse per tenere gli amati resti più vicini a sé, o forse sperando che l’anima si reincarnasse ancora». In alcune zone dell’India, continua Pavanetto, questa pratica funebre riguardava soprattutto i bambini nati morti, seppelliti sotto la soglia di casa «sperando appunto che il fanciullo rinascesse in famiglia, nuovamente». Tutte queste usanze «nascono proprio dalla credenza che i morti rinascano nei fanciulli: i Taolnla, indiani, quando nasce un bambino cercano di accertare quale dei loro antenati ha fatto ritorno; così, appena nasce un bambino, subito ci si affanna nel cercare qualche somiglianza: la mamma, il papà, lo zio, i nonni, i bisnonni». In pratica, presso quella popolazione, l’idea è che il bambino venga da un “al di là” sconosciuto e misterioso, e sia dunque portatore di qualcosa di antico e misterioso, che in lui si rivela.
«Quando il bambino nasce morto – racconta Lara Pavanetto – la sua non presenza è ancora più misteriosa: gli Inuit credono che le anime dei bambini, specie di quelli nati morti, possano rendere grandi servigi ai cacciatori, sempre in pericolo di morte loro stessi». Così, proprio «per assicurarsi il loro aiuto spirituale», gli Inuit «non esitavano ad uccidere un bambino». Ma il delitto doveva rimanere segreto, facendo in modo di nascondere la vittima perché nessuno sapesse dell’infanticidio. «Così, Lara Pavanettodopo aver messo al sicuro il cadaverino, lo si faceva seccare per poi metterlo in un sacchetto che il cacciatore portava con sé quando andava in mare con la sua canoa». Lo spirito del fanciullo, avendo la vista molto acuta, la “vista dei morti”, lo avrebbe aiutato a trovare la preda e dirigere la sua lancia per non fallire un colpo. «I morti bambini aiutano: nella caccia, nella guerra». Lo confermano i Batak dell’isola di Sumatra, che avevano «bisogno proprio degli spiriti dei fanciulli, perché li precedano nei combattimenti, spianando loro la strada dagli spiriti del nemico».
Il minore, aggiunge Pavanetto, in quel caso veniva appositamente “comprato” o rapito, trascinato nella foresta lontano dal villaggio e seppellito vivo, in piedi, lasciandogli fuori solo la testa. «Per quattro giorni lo nutrivano solo con riso condito con pepe e sale, per aumentarne la sete, mentre gli chiedevano continuamente se voleva benedirli e aiutarli in guerra. Il quarto giorno gli uomini più importanti del villaggio si radunavano attorno a lui e cercavano di estorcergli la promessa di benedizione e aiuto». Appena la vittima cedeva, promettendo che il suo spirito li avrebbe protetti, «l’uomo che gli stava alle spalle gli rovesciava la testa all’indietro e gli versava piombo fuso in bocca: così il fanciullo non poteva più rimangiarsi la promessa fatta». Grazie a una morte così tremenda, lo spirito del fanciullo «diventava un demone maligno». Essendo legato alla promessa di non nuocere ai suoi assassini, avrebbe riversato la sua vendetta soltanto sul nemico. «E perché la vedetta fosse ancora più efficace, estraevano dal corpo del fanciullo delle parti del cervello, di cuore e di fegato, e con questi macabri ingredienti preparavano un unguento che poi introducevano in una bacchetta magica che era portata in battaglia alla testa delle truppe: così l’anima del fanciullo morto marciava alla loro testa contro il nemico».

fonte: www.libreidee.org

sabato 21 gennaio 2017

la reincarnazione

L’argomento “reincarnazione” è considerato a tutt’oggi un argomento tabù presso molti popoli, soprattutto presso le culture occidentali monoteiste.

di  Leonella Cardarelli

Ricordo quando all’età di diciassette anni chiesi a mia madre (che già da anni si occupava di esoterismo): “Cosa significa quando senti che un determinato momento lo hai già vissuto?” e lei mi disse che la risposta alla mia domanda era la reincarnazione. Mi spaventai così tanto che scappai in camera mia.

Perché la reincarnazione fa paura? Forse perché non la si conosce ancora abbastanza o perché per noi è un concetto troppo inusuale.
Oggi non solo accetto appieno la teoria della metempsicosi (altro termine per definire la reincarnazione) ma ho capito che accettare questa teoria è la chiave per la comprensione di noi stessi e del trascendente. Accettando la reincarnazione tutto quadra.

Se abbiamo vissuto altre vite chi siamo veramente? Non siamo un corpo con dentro anima e spirito, piuttosto siamo uno spirito e un’anima avvolti da un corpo con una mente (l’ego). In realtà noi non siamo nostri! Siamo nostri solo per questa vita! Noi non siamo Leonella, Danilo, Alberto ecc. Danilo è Danilo solo per questa vita. Il nostro spirito invece è eterno e dopo la morte la nostra anima prenderà un nuovo corpo fino al momento in cui avremo raggiunto uno stadio di illuminazione tale che non avremo più bisogno del corpo fisico. A questo punto sorge spontaneo chiedersi: qual è il senso di tutto ciò?..


Noi siamo pura luce ma lo abbiamo dimenticato. 
Abbiamo voluto sperimentare il mondo fisico 
e vi siamo rimasti intrappolati. 

Il senso del nostro viaggiare sulla Terra di corpo in corpo è di tornare alla Luce: il nostro compito è ricordare quando eravamo Luce. Per ricordare la nostra vera essenza è necessario fare molte esperienze, cioè molte vite. Ogni vita è un’esperienza, nel senso che ogni vita ha un senso, uno scopo. Non esiste un solo individuo sulla Terra che sta sprecando la sua vita: tutto è al suo posto anche se a occhio nudo ci sembra di vivere nel caos. Ognuno di noi, (soprattutto le persone più evolute) ha vissuto chissà quante vite.

Anche se qui in Occidente la parola “reincarnazione” deve essere ancora sussurrata, questo argomento non è bandito del tutto perché comunque non si può testimoniare che questa teoria non sia vera. Di contro esistono tre elementi a favore della metempsicosi:

1) i bambini prodigio
2) l’ipnosi regressiva (http://www.ipnosiregressiva.it )
3) i déjà vu (sui quali però ci sono ancora delle remore in quanto alcuni studiosi ritengono che si tratti di ricordi di sogni o di film visti)

La nostra mente ci fa dimenticare le vite passate per proteggerci, altrimenti diventeremmo pazzi. Tuttavia ci sono molte cose che ognuno di noi si porta dietro dalle esistenze passate. Ad esempio la nostra vita attuale è il risultato di tutte le nostre vite passate. I cosiddetti talenti innati sono capacità sviluppate in altre vite. Molti di noi si sottopongono a sedute di ipnosi regressive per pura curiosità. L’ipnosi regressiva può essere però anche shockante e secondo me è bene sottoporvisi solo per problemi davvero importanti, anche perché tutto ciò che dovevamo sapere sul nostro passato lo abbiamo già nel presente.

LA LEGGE DEL KARMA

La reincarnazione si basa sulla legge del karma. Per karma si intende comunemente il bagaglio di vite passate che ognuno di noi si porta dietro, essa però è più precisamente una legge. John Mumford definisce il karma “la legge dell’evoluzione psico-spirituale che prevede una reazione uguale e contraria per ogni azione”. Ciò significa che se ad esempio in una vita io uccido qualcuno, con larga probabilità sarò ucciso nella successiva. Oppure se morirò strangolata da un serpente in Cina mi sentirò soffocare ogni volta che entrerò in un ristorante cinese o avrò la fobia dei serpenti. Se ti auguro del male mi succederà sicuramente qualcosa di poco piacevole. Se sarò stata violentata in molte vite forse deciderò di diventare omosessuale o mi attirerò una persona del mio stesso sesso per un determinato periodo di tempo in questa vita.

La legge del karma non va però intesa come punizione perché ognuno di noi può liberarsi dal karma (spiegherò successivamente alcune semplici tecniche)! Il discorso è molto complesso e riguarda anche il concetto di memorie e l’effetto specchio, concetti esposti in modo esaustivo nelle conferenze di Joel Ducatillon, inventore dell’acqua diamante e della PMT. Secondo la legge del karma tutti i pensieri, le azioni e le emozioni hanno una conseguenza inevitabile…. anche i pensieri perché essi circolano ed arrivano. Sempre. Si potrebbe riassumere la legge del karma con la frase “ognuno raccoglie ciò che semina”, ecco per quale ragione Einstein diceva “Dio non gioca a dadi con il mondo”.

PROGRAMMARE LA VITA SUCCESSIVA?

Partendo da queste considerazioni possiamo capire che nulla accade per caso perché tutto obbedisce alla perentoria legge del karma. La vita quindi è un’esperienza. Non esiste né caso, né bene, né male, né fortuna, né sfortuna. Esiste solo l’esperienza.
Ogni nostra incarnazione rappresenta un’opportunità per crescere spiritualmente.

Come funziona tutto ciò? La vita terrena è una parte del piano divino, tutto dipende dal piano divino ma questo piano lo abbiamo deciso noi! Siamo noi responsabili di noi stessi e questo è fondamentale, va compreso ed accettato. Arriverà un momento in cui ricorderemo chi siamo e tutto ci apparirà chiaro. Le sensazioni e le emozioni che noi sperimentiamo sulla Terra vengono registrate come la nostra storia negli archivi di Akashic. Al termine della nostra vita si fa il punto della situazione: abbiamo svolto la nostra missione? Quanto amore abbiamo dato? Ci siamo allontanati dalla spiritualità? Cosa c’è da risolvere? In base alle risposte a queste domande decideremo la vita successiva. L’incarnazione dopo una vita non è immediata, prima si vaga per un po’.

E’ bene a questo punto precisare una cosa: quando si muore l’energia della persona resta per un po’, può anche rimanere per sempre (per questo se si invoca un nostro amico o parente deceduto esso sicuramente ci ascolta) ma la sua anima si reincarna. Anche l’energia degli animali resta nella casa in cui hanno abitato.

Prima dell’incarnazione l’angelo Kindel (responsabile della nostra evoluzione spirituale) discute con noi su come vorremmo la vita successiva: quali esperienze abbiamo bisogno di fare? A che punto siamo arrivati? In base ai nostri bisogni Kindel prepara il dischetto dell’incarnazione in cui vengono registrati i dati più importanti della nostra incarnazione. Attenzione!!! Il destino può essere modificato!!! Noi decidiamo la nostra vita ma abbiamo sempre e comunque il libero arbitrio. Nel dischetto dell’evoluzione vengono registrate le persone più importanti che conosceremo, gli eventi più importanti, le crisi spirituali, i problemi di salute (che dipendono sempre da problemi spirituali), la durata della vita e il debito karmico da saldare. Il dischetto è composto da materia mentale e viene inserito accanto al cuore.

Il “destino” (cioè la vita che ci siamo scelti) è composto da due tipi di periodi, che corrispondono a due tipi di “chiavi”: chiavi preformate e chiavi aperte non preformate.

Le chiavi preformate attirano a noi eventi prestabiliti, cioè necessari per saldare il debito e capire la lezione attuale. Questi eventi possono anche essere spiacevoli ma è bene ricordare che la sofferenza arriva quando non c’è stato altro modo per capire quella determinata lezione, allora la si capisce con il dolore perché il dolore trasmuta e purifica.

Le persone che ci attiriamo nei periodi di chiavi preformate sono persone con cui noi eravamo già in contatto nelle vite precedenti e con le quali abbiamo questioni in sospeso. Nella vita attuale noi riviviamo con esse le stesse identiche situazioni della vita antecedente ma abbiamo la possibilità di risolvere il conflitto relazionale, abbiamo la possibilità di capire cosa si cela dietro quel rapporto. La stessa cosa vale per i problemi di salute: saranno molti simili a quelli della vita precedente ma avremo la possibilità di guarire.

Le chiavi aperte non preformate si attivano quando siamo in un periodo di apertura cioè in cui non siamo influenzati dal nostro karma. Esse attirano a noi esperienze entusiasmanti e ci conferiscono la possibilità di comprendere ed accrescere la nostra spiritualità.

COME LIBERARSI DAL KARMA

E’ possibile liberarsi dal karma o almeno farsi influenzare di meno da esso. Spesso per liberarsi dal karma è necessario distaccarsi da determinati luoghi, dalla nostra professione e da certe persone. Ciò può cagionare un dolore emotivo ma se non ci troviamo più a nostro agio significa che quei luoghi e quelle persone non sono più in sintonia con noi. Non ne abbiamo più bisogno poiché ci stiamo evolvendo.

Una tecnica per liberarsi dal karma è quella della non identificazione. Quando si prova un’emozione bella o brutta, gioia, rabbia o malinconia, dobbiamo pensare che è il nostro ego a provarla, non il nostro spirito perché il nostro spirito è già perfetto.

Un altro modo per liberarsi dal karma è quello di provare compassione verso le persone per le quali nutriamo sentimenti negativi. Se io provo un forte risentimento nei confronti di un individuo che mi ha trattato male, invece di provare collera devo sforzarmi di compatire questa persona perché il suo livello di coscienza è quello ed essa ha fatto ciò che poteva per farmi notare una parte di me che non notavo.

L’EFFETTO SPECCHIO

Vorrei spendere alcune righe per chiarire il concetto di effetto specchio che è di pregnante importanza per la nostra evoluzione. Tutto ciò che ci attiriamo è una parte di noi. In questo contesto dobbiamo precipuamente soffermarci su ciò che ci cagiona dolore, paura, rabbia, astio e sentimenti o reazioni negative perché significa che quella cosa che ha scaturito la nostra reazione è una parte di noi che noi reprimiamo e che prima o poi verrà fuori perché ce l’abbiamo dentro. Quante volte, facendo innervosire una persona, le diciamo: “Se ti innervosisci vuol dire che ciò che ti ho detto è vero”? E’ proprio così. Ognuno di noi ha molteplici caratteristiche: bontà, generosità, malizia ecc. nella sua parte conscia. Nella parte inconscia abbiamo anche gli opposti di quelle caratteristiche e il problema si pone nel caso di caratteristiche estreme.

Ad esempio una persona molto generosa sarà anche molto avara e quest’avarizia prima o poi verrà fuori perché inconsciamente o no, quella persona l’avarizia ce l’ha. Così le persone troppo buone hanno anche una parte di aggressività. La persona generosa/avara ha però modo di guardare in faccia la sua avarizia e di accettarla. In che modo? La vita la porterà a conoscere sempre persone avare finché essa si chiederà “Ma perché io, tanto generosa, incontro sempre persone avare? Non lo merito!!” Quella persona incontra individui avari perché lei ha memorie di avarizia e quegli individui sono lì per dirle: “Noi siamo una parte di te. Accettaci, accoglici ed amaci.” Nel contempo, grazie a queste persone, la signora generosa salda il suo debito perché evidentemente lei era stata avara in passato con chi è stato oggi avaro con lei.

Questo lavoro di accettazione di amore è molto importante perché non solo libera dal karma ma permette di vivere con serenità e consapevolezza. Bene e male sono due facce della stessa medaglia. Gli opposti sono entrambi presenti e se equilibrati non arrecano alcun danno. Non può esistere male senza bene e viceversa. Più si cerca di combattere il male più lo si attira. Più la donna cercherà di combattere l’avarizia più l’attirerà perché lei l’avarizia deve accettarla, non scacciarla. Sull’effetto specchio c’è un argomento molto interessante che riguarda i sette specchi esseni delle relazioni: si parla di sette tipi di attrazioni o di condizioni che ci rispecchiano. Il più interessante è il terzo specchio secondo il quale quando incontriamo una persona e proviamo un forte desiderio di passare del tempo con lei è perché quella persona ha delle energie che ci mancano o che non abbiamo più e desideriamo avere ancora.

Per accelerare il processo di accettazione e di amore delle nostre parti inconsce Joel Ducatillon ha inventato l’acqua diamante (che è un’acqua della quinta dimensione) e la PMT. Esse hanno lo stesso fine ma la PMT è ancora più veloce dell’acqua diamante. La PMT è una tecnologia che permette di trasmutare le memorie karmiche negative, cioè quelle che non servono più o che ci cagionano dei blocchi o dei problemi. Durante la seduta di PMT l’anima della persona decide quali sono le memorie “non più utili” e le rilascia. La PMT apporta numerosi benefici: evolve la coscienza, ci aiuta a prepararci per il prossimo salto vibrazionale, previsto per il 2012, fa cambiare in meglio non solo noi stessi ma anche le persone che ci circondano.

IL CONTRIBUTO DELL’ASTROLOGIA

Forse non tutti sono a conoscenza del fatto che astrologia e reincarnazione sono strettamente connesse. Tramite il giorno, l’ora e il luogo di nascita e tramite un bravo astrologo esperto di astrologia karmica è possibile risalire alle nostre vite passate scoprendo blocchi, problemi, debiti karmici nonché la nostra missione in questa vita.

A tal proposito è illuminante sapere che secondo gran parte degli astrologi l’ascendente indica il segno zodiacale sotto cui eravamo nati nella vita passata e che non avevamo compreso. Questo è molto utile per capire qual è la nostra missione. Se io nasco sotto il segno dello scorpione con ascendente acquario molto probabilmente la mia missione sarà legata alla libertà e per adempiere ad essa avrò bisogno di forza e fede in me stessa.

Ciò significa che anche nella vita passata ho cercato di conquistare la libertà ma evidentemente non ci sono riuscita e devo riuscirci adesso. Anche il fatto che una persona studi scienze politiche ed ha come ascendente la bilancia non è da trascurare…!

A questo punto mi viene da pensare che coloro che hanno segno solare ed ascendente nello stesso segno sono persone con gravi problemi in quanto se già noi normalmente riviviamo le stesse situazioni della vita passata con la possibilità di capire e cambiare nella vita attuale, coloro che hanno segno e ascendente nello stesso segno sono con larga probabilità individui che continuano a non cambiare e a non voler capire. Sono persone per le quali il cambiamento è urgente.

ANIME COMPAGNE E GEMELLE

L’argomento sicuramente più affascinante della reincarnazione riguarda le anime compagne e gemelle. Solitamente i rapporti conflittuali che abbiamo con qualcuno sono dovuti ad un karma negativo che deve bilanciarsi e divenire positivo, mentre se in passato ho avuto una relazione piacevole con qualcuno questa relazione adesso sarà ancora più bella. Solitamente ci si rincontra per equilibrare il karma ma ci si può rincontrare anche solo per puro piacere.

Ognuno di noi ha dei compagni spirituali con cui si instaurano dei rapporti diversi da quelli che si instaurano con tutte le altre persone che si incontrano nella vita. I nostri compagni spirituali sono di tre tipi:

1) anime compagne
2) anime gemelle
3) anima di fiamma gemella

Le anime compagne sono quelle che ci aiutano, che ci guidano, che ci illuminano. Sono persone alle quali noi nella vita passata abbiamo fatto un favore e loro ci aiutano in questa vita. Un’anima compagna può essere uno sconosciuto che ci aiuta quando ci si è fermata la macchina, un amico che ci dice qualcosa di illuminante e di chiarificante, una persona che ci sostiene e ci incoraggia o che incontriamo al momento giusto come una sorta di angelo. Le anime compagne sono persone con cui ci troviamo bene e di solito la relazione con esse dura poco. Se dura nel tempo allora possono diventare anime gemelle nella vita successiva.

Le anime gemelle sono i nostri amici speciali di questa vita. Si tratta di anime compagne con cui si instaura un rapporto di amicizia molto più profondo. Appena le incontriamo avvertiamo subito un senso di familiarità e ci troviamo immediatamente a nostro agio perché il rapporto ricomincia esattamente da dove era terminato, è come rincontrare un vecchio amico dopo molti anni. Si può trattare di amici o di familiari e il rapporto, che sarà comunque molto rispettoso, può durare anche per tutta la vita.

L’anima di fiamma gemella è una sola ed è l’altra metà del nostro spirito. E’ il nostro unico compagno spirituale e quasi sempre è del sesso opposto. Con lui abbiamo vissuto molte e molte vite. Quest’anima la si riconosce subito perché appena la si incontra c’è un’attrazione immediata in quanto le anime si ricordano le une delle altre. Nasce subito un rapporto speciale fra di loro ed il sentimento è reciproco. L’anima di fiamma gemella è un’anima compagna e gemella in una persona sola, speciale. In alcuni casi può essere anche un nostro fratello gemello. Un aspetto interessante dell’anima di fiamma gemella è la somiglianza fisica: ci si può assomigliare nei lineamenti, soprattutto negli occhi. Inoltre le aure sono congiunte da un arco di energia.

E’ bene però fare alcune considerazioni importanti a proposito dell’anima di fiamma gemella: è possibile che ci sia un karma negativo anche con essa ma c’è comunque un forte amore che trascende ogni negatività. Inoltre non è detto che la si incontri in ogni vita poiché dipende da quanto è stato concordato antecedentemente. Solitamente l’anima di fiamma gemella (con la quale siamo sempre in collegamento telepatico) si incontra quando entrambe sono giunte allo stesso stadio evolutivo.

Bibliografia:
Bona, A. (2005) L’amore dopo il tramonto, Arnoldo Mondadori editore, Milano
Chadwick, G. (1996) Reincarnazione, Fabbri editori, Caleppio di Settala (MI)
Marooney, K. (2003) Sotto le ali degli angeli, Armenia editore, Milano
Mumford, J. E Stevens, M. (2000) Manuale del karma, Hermes edizioni, Roma
Pompas, M. (2004) Reincarnazione, Sperling & Kupfer editori, Milano
Wangyal Rimpoche, T. (1999)Lo yoga tibetano del sogno e del sonno, Astrolabio Ubaldini editore, Roma

Webgrafia:
Ducatllon, J. in http://www.liberamenteservo.it/servizi/acqua%20diamante.htm
Gregg Braden, I sette specchi esseni, in http://www.stazioneceleste.it/articoli/braden/7_specchi_esseni.htm
Altre fonti:
- VHS Reincarnazione, by Hobby & Work, 1996, Italiana editrice srl, collana I misteri dell’ignoto


fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it

i Rothschild e gli altri

Dal governo del mondo all'indebitamento delle nazioni, i segreti delle famiglie più potenti del mondo


I Rothschild e gli Altri
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sul Giardino dei Libri






























Piero Ratto

Sai da dove viene il debito pubblico che ognuno di noi si trova sulle spalle fin dalla nascita? Da un'idea geniale....

L’intuizione geniale di papà Amschel Meyer, lasciata in eredità ai suoi cinque figli, era più o meno questa: non limitarsi a prestare soldi a commercianti o nobili, privilegiando, invece, le teste coronate.

I re avevano sempre bisogno di fondi per le loro campagne militari, per abbellire le loro capitali, ecc.

Gli stessi Fugger, famosissima stirpe di banchieri medievali estintasi già a metà del XVII secolo, avevano dimostrato che il vero potere, così caratteristico della nascente classe borghese, consisteva sempre più nell’accumulo di denaro e sempre meno nei titoli nobiliari. Duchi, re e imperatori non contavano nulla senza finanze.

I Fugger, con il loro colossale prestito a Carlo d’Asburgo, ad esempio, avevano consentito allo stesso di comprarsi il voto dei prìncipi elettori riuscendo ad accumulare al titolo di re di Spagna quello di imperatore. Carlo V, quindi, riconosciuto nei secoli come uno dei più grandi personaggi della storia, era in realtà letteralmente nelle mani di una famiglia di banchieri a cui doveva gran parte del suo successo, oltre a un sacco di soldi !

Amschel Meyer Bauer questo lo aveva capito; così come aveva compreso che il prestito a un re poteva contare su una garanzia che nessun altro debitore avrebbe mai saputo fornire: l’imposizione fiscale su milioni di sudditi. In pratica, il debito poteva passare dal sovrano al popolo, tartassato a dismisura senza nemmeno immaginare di trovarsi intrappolato nella rete di un usuraio.

Ma non bastava.

Bisognava mantenersi il più possibile distanti dal “rischio default” delle teste coronate. Evitare, insomma, gli epocali fallimenti che in passato avevano travolto grandi compagnie finanziarie come quelle dei Peruzzi o dei Bardi, proprio a causa dell’insolvibilità dei loro “reali” debitori.

Per questo motivo era necessario dare vita a una fittissima rete di alleanze politiche e, contemporaneamente, concedere prestiti a sovrani disposti a consegnare alla famiglia Rothschild la gestione fiscale del loro stesso Stato.

Un’ultima cosa era infine ben chiara al capostipite della dinastia Rothschild: il meccanismo del debito, se ben sfruttato, poteva garantire un recupero del credito praticamente infinito. Bastava trovare il modo di non permettere mai al debitore di saldarlo definitivamente.

Si trattava di un trucco in realtà molto vecchio: già nell’antica civiltà babilonese i sacerdoti di Baal, tutte le primavere, erogavano prestiti ai contadini per permettere loro di effettuare le semine; siccome però, contemporaneamente, regolavano la riserva monetaria totale, i sacerdoti si premuravano di mettere in circolazione una quantità di denaro sufficientemente bassa, in modo da non permettere ai loro debitori di saldare completamente i conti. Questo portava a una moltiplicazione all’infinito del debito tale da costringere i contadini ad asservirsi per tutta la vita ai loro creditori. E, naturalmente, ciò poteva essere ottenuto soltanto esercitando un diretto controllo sulle casse statali.

Una serie di intuizioni e di accorgimenti che, sommati a meccanismi come quello della riserva frazionaria, potevano davvero garantire alla discendenza di Meyer una ricchezza infinita.

Avendo ben chiaro tutto ciò, i cinque fratelli Rothschild misero a punto la loro incredibile ricetta per un debito infinito.

In caso di un’ennesima guerra tra Francia e Inghilterra, ad esempio, James prestava i soldi per la campagna militare della prima e Nathan finanziava le operazioni belliche della seconda. Poi, a fine guerra, entrambe le banche Rothschild erogavano prestiti per le relative ricostruzioni e, nel caso dello Stato sconfitto, l’Agenzia territorialmente competente provvedeva al risarcimento dei danni nei confronti di quello vittorioso. Tali prestiti si sommavano a quelli originariamente concessi a entrambi i sovrani per condurre la guerra, con un risultato più che evidente: il debito dei re nei confronti dei Rothschild non si estingueva mai; anzi, lievitava sempre più, trasformato in nuove imposte sui sudditi o, usando un termine tristemente attuale, in un debito pubblico in continuo aumento.

Il patrimonio della famiglia, quindi, cresceva a dismisura.

Anche perché una clausola, voluta da papà Amschel sul letto di morte, stabiliva che nessuno dei cinque fratelli avrebbe mai potuto ritirarsi dalla società di famiglia portandosi via il proprio capitale.

A blindare definitivamente il patrimonio e la dinastia dei Rothschild, come abbiamo visto, c’era la consuetudine di sposarsi spesso fra loro. La inaugurò James, sposando nel 1834 la nipote Bettina, figlia del fratello Salomon. James aveva 32 anni, Bettina 19. Poco dopo un figlio di Salomon avrebbe sposato la figlia di Nathan e così via.

Come sottolinea il Lottman, su diciotto matrimoni contratti dai nipoti di Amschel Meyer ben sedici unirono dei cugini primi. Lo studioso aggiunge: «I banchieri Rothschild dimostravano, con il loro comportamento, di non aver bisogno di allearsi ad altre famiglie di banchieri per prosperare ».

Oltre al trucco che abbiamo definito del debito infinito, i Rothschild riuscirono presto, nel corso della prima metà dell’Ottocento, a diventare i banchieri di riferimento più importanti per le relative corone, rispetto al sistema dei grandi prestiti pubblici, caratteristici proprio di quel periodo storico.

In pratica, le cose andavano così. Lo Stato decideva di emettere delle cartelle di rendita atte a permettergli di ottenere prestiti dai suoi cittadini (portando di fatto gli investimenti economici anche alla portata dei piccoli risparmiatori, proprio perché gestiti con cartelle di piccolo taglio). Emetteva, ad esempio, cartelle da 100 franchi (nel senso che quella sarebbe stata la cifra rimborsata al cittadino risparmiatore, alla scadenza dei titoli) vendendole prima alle banche al costo di 90. Le banche, a loro volta, le rivendevano ai cittadini a 95, incassando subito la loro parte, costituita da 5 franchi per cartella. In questo modo i Rothschild fecero la loro fortuna anche nell’acquisto dei grandi debiti pubblici, soprattutto in Francia.

Per non parlare, poi, dell’erogazione di prestiti a dir poco vergognosi. Risale solo a tre anni fa il rinvenimento di un documento comprovante un losco affare che nel 1830 coinvolse James e Nathan Rothschild.

Il documento T71/122 (scoperto dal ricercatore Nick Draper nell’Archivio di Stato londinese) si riferisce infatti a un accordo tra i due fratelli e un certo Lord O’Bryen, a cui essi avevano prestato 3000 sterline per comprare una proprietà ad Antigua, nella quale ottantotto schiavi venivano regolarmente sfruttati. I Rothschild su quella proprietà, schiavi inclusi, avevano stabilito un’ipoteca e alla fine, dato che O’Bryen non era riuscito a restituire il prestito, avevano incassato la somma stabilita a titolo di risarcimento per la garanzia cancellata, procedendo dunque anche alla vendita degli ottantotto malcapitati, nonostante lo schiavismo nel frattempo fosse stato abolito dallo Stato inglese.

E ciò negli stessi anni in cui Nathan e James si erano eretti a paladini internazionali della lotta allo schiavismo.
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Questo libro intende dimostrare come i Rothschild, e le altre dinastie imparentate, abbiano esercitato un'influenza enorme sulla storia del nostro pianeta.

Non è assolutamente vero che essere famosi significhi contare davvero qualcosa.


Nell'era dei social network, in cui ognuno cerca disperatamente di apparire e di collezionare il maggior numero possibile di amici e di condivisioni, chi davvero esercita un'influenza importante non viene mai, o quasi mai, menzionato. Non c'è nessun accenno, per esempio, alla famiglia Rothschild all'interno dei libri di storia su cui i nostri ragazzi studiano. Questo cognome è quasi sconosciuto.

Nonostante ciò, questo libro intende dimostrare come i Rothschild e le altre dinastie con cui essi si sono via via imparentati, abbiano esercitato un'influenza enorme sulla storia del nostro pianeta, per lo meno dalla fine del Settecento ad oggi.

Un'indagine quanto mai attuale, che spiega molte cose sul famigerato debito pubblico diventato ormai un'ossessione per milioni e milioni di persone; uno studio che, condotto in parallelo sulle singole grandi famiglie della finanza internazionale, parte da parecchi secoli fa e dimostra che i grandi banchieri e imprenditori del nostro tempo discendono da antichissime stirpi, spesso di sangue reale, i cui esponenti, intorno al diciassettesimo secolo, sembrano essersi improvvisamente resi conto che il tempo dei privilegi dei nobili stava finendo.

E che la nuova partita si sarebbe vinta sul terreno del controllo dell'intera economia mondiale.

Lo stemma dei Rothschild 
I ROTHSCHILD OGGI

Nel 1992 la rivista «Fortune» ha inserito Edmond Rothschild nel suo elenco mondiale dei miliardari, che comprendeva 223 nomi. Edmond figurava al numero 202, con un patrimonio di 1,1 miliardi di dollari. Molti hanno pensato che la cifra fosse stata approssimata per difetto, trattandosi dell’uomo più ricco di Francia.

«Edmond poteva donare milioni di dollari alla volta, per esempio a Israele, impegnata in una guerra 
[...]. La sua Israel General Bank (che gestiva capitali e affari) era la più solida del Paese»

Il Club Méditerranée è stato per Edmond un’imponente fonte di arricchimento, così come la sua Banque Privée di Ginevra e l’attività vinicola rappresentata dagli immensi vigneti di Château Clarke, Château Malmaison e Château-Peyre Lebade, a cui si sono aggiunti, più di recente, quelli di Château des Laurets, nel Bordeaux. La sua Compagnie Financière parigina, poi, risulta essere la quarta più grande a livello mondiale in fatto di privatizzazioni. La compagnia ha sviluppato filiali in tutto il mondo e lavora in piena sintonia con le altre banche del gruppo Rothschild in mano ai vari fratelli e cugini. A questo proposito, la famiglia, che secondo R. de Ruiter detiene, tra l’altro, il 53% delle azioni della Federal Reserve, si è riunita, associandosi nella Rothschild & Cie.

L'unica soluzione: unire le forze

Edmond è morto nel 1997, lasciando erede universale il suo unico figlio Benjamin, nato nel 1963. Quanto a David, egli è l’artefice di un vero e proprio progetto di riavvicinamento tra la sua Rothschild & Cie Banque e la Natan Mayer Rothschild di Londra, anch’essa impegnata, negli ultimi decenni, nel campo delle privatizzazioni. La N.M. Rothschild, infatti, è stata consulente del governo britannico per la vendita della quota azionaria statale della British Petroleum e ha assistito la British Telecommunications nel suo processo di privatizzazione.

Invece di competere con le americane Morgan Stanley, Goldman Sachs e First Boston, così come con le francesi Paribas, Suez, Crédit Lyonnais e Lazard, i Rothschild di Francia e Inghilterra hanno pensato all’unica soluzione possibile: unire le forze.

Nel 1992 David è stato nominato vicepresidente della N.M. Rothschild di Londra, la banca nei cui uffici, due volte al giorno, viene fissato il prezzo mondiale dell’oro. L’evento è stato subito ben compreso dagli analisti finanziari in tutta la sua straordinaria portata. David, infatti, si è messo nella condizione di succedere al cugino, il presidente Sir Evelyn Rothschild.

Un potere molto vicino a quello dei figli diretti di Amschel Mayer

Lottman, nell’opera più volte citata e risalente al 1994, rifacendosi per giunta a una valutazione del «Wall Street Journal», ha sostenuto che «[...] la nuova unità tra Londra e Parigi rappresenterebbe un’alleanza per certi versi simile a quella creatasi nel secolo scorso», alludendo alla ricostruzione di un potere molto vicino a quello dei figli diretti di Amschel Mayer.

Ebbene, dopo una serie di vicende particolarmente negative che hanno colpito la famiglia (come la morte improvvisa del quarantunenne Amschel, ultimo figlio di Victor ed erede dell’impero britannico dei Rothschild, trovato impiccato in una stanza del Bristol Hotel di Parigi nel 1996, o quella del ventitreenne Raphael, giovane manager dell’high-tech morto nel 2000 per overdose su un marciapiedi del quartiere newyorkese di Chelsea, sulla 10th Avenue), quest’eventualità si è verificata nel 2003. A 61 anni, David ha infatti assunto anche la guida della N.M. Rothschild, associata a quella francese nel nuovo Gruppo Rothschild.

Tutto, ormai, è gestito da Parigi?

Nel 2007, poi, la filiale londinese ha definitivamente venduto il suo pacchetto azionario al ramo francese. Tutto, ormai, è gestito da Parigi?
L'albero Genealogico dei Rothschild 
In realtà, le cose sono ben diverse da quanto le “biografie autorizzate” della famiglia vogliano lasciar credere. Da un provvisorio (per quanto complicatissimo) studio sugli incroci tra i Rothschild e le altre grandi famiglie di banchieri ebrei che di fatto gestiscono l’economia globale, emerge un quadro davvero imponente del reale potere finanziario dello Scudo Rosso. Un potere costruito sui matrimoni tra le più antiche e ricche dinastie, in buona parte di ebrei ashkenazi, di cui stiamo per fare la conoscenza.

LA FAMIGLIA WARBURG

Antichissima famiglia di banchieri ashkenazi, originari di Venezia (inizialmente si chiamavano Del Banco), che successivamente presero il nome dalla città tedesca di Warburg, in cui si erano rifugiati in seguito alle persecuzioni dell’Inquisizione veneziana.

Nel 1895 Paul Warburg, erede dell’intero patrimonio economico-finanziario della famiglia, sposò Nina J. Loeb, figlia di Salomon Loeb, fondatore della grande banca americana Kuhn, Loeb & Co che avrebbe finanziato (e contemporaneamente portato al fallimento) lo zar Nicola II, come abbiamo visto nella sezione dedicata ai Rothschild. Nello stesso anno, il fratello Felix Warburg sposò Frieda Schiff, figlia dell’influente agente dei Rothschild Jakob Schiff, discendente dell’omonima famiglia di banchieri ebrei, che condivideva la casa natia del capostipite dei Rothschild, Amschel Meyer, a Francoforte.

Jakob Schiff era anche il direttore della suddetta Kuhn, Loeb & Co. La famiglia Warburg, insomma, risultava intrecciata con le principali dinastie della finanza ebrea. Lo zio di Paul, Sigmund Warburg (1835-1889), aveva sposato nel 1863 Theophilie Rosenberg, discendente della grande famiglia di ebrei russi, ricchissimi proprietari terrieri; la sorella di Theophilie, Anna, era invece andata in sposa al grande banchiere e barone Horace Günzburg (1833-1909), e i figli di Theophilie e di Anna, rispettivamente Rosa e Alexander Moses, si erano uniti in nozze tra loro, cementando così definitivamente l’unione tra i Günzburg e i Warburg.

Paul Warburg direttore della Wells Fargo

Nel 1910 Paul Warburg divenne direttore della Wells Fargo e nel 1914, su pressione del presidente americano Wilson, entrò nel primo Consiglio della nascente Federal Reserve americana, nata proprio su insistenza dello stesso Warburg. Egli, infatti, prendendo spunto dal famoso Panico del 1907, aveva molte volte teorizzato la necessità dell’istituzione di una Banca centrale americana. Il figlio di Paul, James Warburg, fu il consulente finanziario privato del presidente F.D. Roosevelt. Tre anni dopo, Olga Warburg, sorella di Paul e Felix, sposò Paul Kohn

Speyer, discedente dell’antichissima famiglia di banchieri ebrei Speyer, che prendevano il nome dall’omonima città, situata a 100 km da Francoforte, in cui era stata fondata la loro dinastia. Paul Kohn Speyer era presidente della Brandeis Goldschmidt di Londra e socio del suo titolare, Ernest Goldschmidt. D’altra parte, già il nonno materno dei tre fratelli Warburg era un Goldschmidt.

Carola Warburg sposa Walther Nathan Rothschild

Nel 1916 Carola Warburg, figlia di Felix e di Frieda Schiff, sposò Walther Nathan Rothschild, figlio di Simon Frank Rothschild (1861- 1936), nonché nipote di Frank Rothschild (1831-1897) e pronipote di Isaac Rothschild (1793-1887).

Una delle maggiori proprietà dei Warburg, a parte la potentissima banca MM Warburg, era la IG Farben, colosso nato nel 1925 dalla fusione di AGFA, Bayer (nei cui laboratori, nel 1897, Felix Hoffmann aveva inventato, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, l’aspirina e l’eroina, sostanze chimiche delle quali la Bayer ottenne il brevetto), BASF e altre industrie chimiche minori.

Il primo direttore di IG Farben fu Carl Bosch, scienziato premio Nobel per la Chimica per aver messo a punto la sintesi dell’ammoniaca. La sede del gruppo fu stabilita in un palazzo costruito a Westend, gigantesco distretto privato di proprietà dei Rothschild all’interno della città di Francoforte
I Rothschild e gli Altri
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INDICE
Introduzione
I ROTHSCHILD...
  • Rothschild, il nome impronunciabile 
  • I Rothschild e Napoleone 
  • Un’idea geniale 
  • Una vita principesca 
  • Scontro tra Titani 
  • Alphonse 
  • Un secolo al tramonto 
  • Ėdouard 
  • La Grande guerra 
  • Crisi? 
  • Il Führer e i Rothschild 
  • Vichy 
  • Il recupero 
  • Gli anni Cinquanta e Sessanta 
  • Mitterand 
  • A New York 
  • I Rothschild oggi 
E GLI ALTRI...
  • La famiglia Warburg 
  • La famiglia Agnelli e la famiglia Caracciolo 
  • La famiglia Hahn-Elkann e la famiglia Worms 
  • La famiglia Sassoon 
  • La famiglia Du Pont 
  • La famiglia Kahn (Kann) 
  • La famiglia Morgan e le famiglie Spencer, Churchill, Pierpont, Frick, Carnegie 
  • La famiglia Rockefeller e la famiglia Davison 
  • La famiglia Roosevelt e le famiglie Delano, Coolidge e Astor 
  • La famiglia Thyssen 
  • La famiglia Wertheimer 
  • Le famiglie Fitzgerald e Kennedy 
  • La famiglia Lazard 
  • La famiglia Goldschmidt 
Conclusione
Appendice – I prestiti erogati dalla famiglia Rothschild tra il 1815 e il 1851
Bibliografia

Pietro Ratto, professore di Filosofia, Psicologia e Storia, giornalista e saggista, ha vinto diversi Premi letterari di Narrativa e di Giornalismo. È attivo sul web dove cura diversi blog che si occupano di scuola e politica. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni saggistiche.

https://unmondoimpossibile.blogspot.it/2015/09/i-rothschild-e-gli-altri-dal-governo.html?m=1

fonte: https://alfredodecclesia.blogspot.it

martedì 10 gennaio 2017

infine, le città invisibili

era BookCity.
sempre il 19. quasi il 20 novembre.
era l'ex Ansaldo.
era notte, c'era anche una tromba che suonava illuminata da luce livida blu.

era tardi e ascoltavo di Moriana, Clarice, Eusapia e Bersabea da gente che non conosco. e che ho invidiato in quel ruolo.
una maratona notturna dedicata alle Città Invisibili (ma anche altro).
mi sono ritrovata in questa narrazione fantastica e ho pensato: Calvino è immenso.
immenso immenso, una mente lucida penetrante acuta colta visionaria.
forse una mente che ha visto, per un attimo, qualcosa della verità.
le avevo già lette, le sue città, ma certe cose non si leggono la prima volta. non si vedono. quel che posso capire ora non ha niente a che vedere con quel che ho letto e capito allora.
la mia mente è cresciuta e le città invisibili sono rimaste tutte lì ad aspettarmi.
pazienti
magiche
esaltanti
orribili
vitali o mortifere
presenti o passate
reali o immaginarie
ricche o povere
lo sforzo di Calvino è, da una parte, squisitamente intellettuale, un esercizio di stile letterario, dall'altra è una costruzione fantastica di un profilo umano, di un carattere irripetibile dell'umanità.
da una città all'altra si rimbalzano immagini architettoniche e destini storici ma si parla di uomini e di desiderio. la costruzione del desiderio (come lo era dell'amore per Fossati che lo vedeva crescere con un grattacielo di cento piani) passa attraverso l'immaginare mille e infinite città fino alla scultura di un volto, quello dell'uomo, e delle sue infinite possibilità espressive.
non c'è un desiderio, non c'è una città, non c'è una via e un suo abitante, non c'è uno stile, non c'è una verità, ce ne sono molti, tanti quanti sono gli uomini che abitano il mondo.
le donne città di Calvino sono invisibili agli occhi, si leggono con la mente, e sono potenzialmente infinite. le donne città di Calvino sono desiderabili e fanno paura, sono una visione impossibile, archeologica e futurista, dell'architettura umana, eppure qualcosa ci tocca. in ognuna di loro, come ogni donna ci tocca, come ogni passione, come ogni talento, come ogni paura, come ogni fantasia.
desiderabile e paurosa, questa è la città donna di Calvino.
su tutto domina il registro di Maro Polo e di Kublai Kan, che insieme inseguono una costruzione fantastica di un impero immenso, commentano atti e evoluzioni, costruzioni e dissolvimenti, vita e morte all'interno di un perimetro possibile, quello delle città e dell'atlante che le contiene.
città di un immenso impero, che ora si allarga e prospera, ora si disintegra e frana, ora promette meraviglie e accessi paradisiaci, poco dopo prefigura futuri infernali e apocalittici,
città senza tempo, quelle di Calvino, si legge e ci si anima di un tempo arcaico, archeologico, decaduto oppure futuribile, inimmaginabile, avveniristico, oppure presente, attuale, inesorabile.
e allora, mi parli di Valdrada e di Despina, poi mi citi Nuova York, Los Angeles, Kyoto?
ma come mi inventi Zoe e Anastasia e poi mi citi Cartagine, Costantinopoli e Gerusalemme?
certo parli di Urbino, un palazzo che anziché sorgere dentro le mura d'una città contiene una città tra le sue mura, e sembri raccontare una tua città invisibile, e così per una Cuzco a pianta raggiata e multipartita che riflette l'ordine perfetto degli scambi, una Messico verdeggiante sul lago dominato dalla reggia di Moctezuma, una Novgorod con le cupole a bulbo, una Lhassa che solleva bianchi tetti sopra il tetto nuvoloso del mondo.
in che luogo siamo?
in che mondo siamo?
in che tempo siamo?
quello dell'uomo? quello del sogno? quello della storia? quello della letteratura?
quello del desiderio: farlo durare e dargli spazio.

Il Gran Kan possiede un atlante i cui disegni figurano l'orbe terracqueo tutt'insieme e continente per continente, i confini dei regni più lontani, le rotte delle navi, i contorni delle coste, le mappe delle metropoli più illustri e dei porti più opulenti. Ne sfoglia le carte sotto gli occhi di Marco Polo per mettere alla prova il suo sapere. Il viaggiatore riconosce Costantinopoli nella città che incorona da tre rive un lungo stretto, un golfo sottile e un mare chiuso; ricorda che Gerusalem sovra duo colli è posta, d'impari altezza, e volti fronte a fronte; non esita nell'indicare Samarcanda e i suoi giardini. Per altre città fa ricorso a descrizioni tramandate di bocca in bocca, o tira a indovinare basandosi su scarsi indizi: così Granada, iridata perla dei Califfi, Lubecca, lindo porto boreale, Timbuctù che nereggia d'ebano e biancheggia d'avorio, Parigi dove milioni d'uomini rincasano ogni giorno impugnando un filone di pane. In miniature colorate l'atlante raffigura luoghi abitati di forma insolita: un'oasi nascosta in una piega del deserto da cui spuntano solo le cime delle palme è di sicuro Nefta; un castello tra le sabbie mobili e le mucche che brucano prati salati dalle maree non può non ricordare il Monte San Michele; e non può essere che Urbino un palazzo che anziché sorgere dentro le mura d'una città contiene una città tra le sue mura. L'atlante raffigura anche città di cui né Marco né i geografi sanno se ci sono e dove sono. Ma che non potevano mancare tra le forme di città possibili: una Cuzco a pianta raggiata e multipartita che riflette l'ordine perfetto degli scambi, una Messico verdeggiante sul lago dominato dalla reggia di Moctezuma, una Novgorod con le cupole a bulbo, una Lhassa che solleva bianchi tetti sopra il tetto nuvoloso del mondo. Anche per queste Marco dice un nome, non importa quale , e accenna a un itinerario per andarci. SI sa che i nomi dei luoghi cambiano tante volte quante sono le lingue forestiere; e che ogni luogo può essere raggiunto da altri luoghi, per le strade e le rotte più diverse, da chi cavalca carreggia remavola. - Mi sembra che tu riconosci meglio le città sull'atlante che a visitarle di persona, - dice a Marco l'imperatore richiudendo il libro di scatto. E Polo: - Viaggiando ci s'accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti. Il tuo atlante custodisce intatte le differenze: quell'assortimento di qualità che sono come le lettere del nome. Il Gran Kan possiede un atlante in cui sono raccolte le mappe di tutte le città: quelle che elevano le loro mura su salde fondamenta, quelle che caddero in rovina e furono inghiottite dalla sabbia, quelle che esisteranno un giorno e al cui posto ancora non s'aprono che le tane delle lepri. Marco Polo sfoglia le carte, riconosce Gerico, Ur, Cartagine, indica gli approdi alla foce dello Scamandro, dove le navi achee per dieci anni attesero il reimbarco degli assedianti, fino a che il cavallo inchiavardato da Ulisse non fu trainato a forza d'argani per le Porte Scee. Ma parlando di Troia, gli veniva d'attribuirle la forma di Costantinopoli e prevedere l'assedio con cui per lunghi mesi la stringerebbe Maometto, che astuto come Ulisse avrebbe fatto trainare le navi nottetempo su per i torrenti, dal Bosforo al Corno d'Oro, aggirando Pera e Galata. E dalla mescolanza di quelle due città ne risultava una terza che potrebbe chiamarsi San Francisco e protendere ponti lunghissimi e leggeri sul Cancello d'Oro e sulla baia, e arrampicare tramvai a cremagliera per vie tutte in salita, e fiorire come capitale del Pacifico di lì a un millennio, dopo il lungo assedio di trecento anni che porterebbe le razze dei gialli e dei nei e dei rossi a fondersi insieme alla superstite progenie dei bianchi in un impero più vasto di quello del Gran Kan. L'atlante ha questa qualità: rivela la forma delle città che ancora non hanno una forma né un nome. C'è la città a forma di Amsterdam , semicerchio rivolto a settentrione, coi canali concentrici: dei Principi dell'Imperatore , dei Signori; c'è la città a forma di York, incassata tra le alte brughiere, murata, irta di torri; c'è la città a forma di Nuova Amsterdam detta anche Nuova York, stimata di torri di vetro e acciaio su un'isola oblunga tra due fiumi, con le vie come profondi canali tutti diritti tranne Broadway. Il catalogo delle forme è sterminato: finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere. Dove le forme esauriscono le loro variazioni e si disfano, comincia la fine delle città. Nelle ultime carte dell'atlante si diluivano reticoli senza principio né fine, città a forma di Los Angeles, a forma di Kyoto-Osaka, senza forma.
... 
Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butwa, Brave New World. 
Dice:- Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. E Polo:- L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

fonte: https://nuovateoria.blogspot.it