sabato 30 marzo 2013
Ruzante
« Uno straordinario teatrante della mia terra, poco conosciuto... anche in Italia. Ma che è senz'altro il più grande autore di teatro che l'Europa abbia avuto nel Rinascimento prima ancora dell'avvento di Shakespeare. Sto parlando di Ruzzante Beolco, il mio più grande maestro insieme a Molière: entrambi attori-autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del loro tempo. Disprezzati soprattutto perché portavano in scena il quotidiano, la gioia e la disperazione della gente comune, l'ipocrisia e la spocchia dei potenti, la costante ingiustizia »
(Dario Fo, discorso per il Nobel)
Angelo Beolco detto Ruzzante o Ruzante è stato un drammaturgo, attore e scrittore italiano.
Figlio naturale del medico Giovan Francesco Beolco, professore presso la facoltà di medicina dell'Università di Padova, ebbe una lunga e proficua collaborazione con l'amico Alvise Cornaro, ricco proprietario terriero e letterato. Autore di numerosi trattati di architettura e di agraria, il Cornaro rappresenta un'importante figura di intellettuale proprio per il carattere "laico" del suo operato. Con l'intento di rappresentare alla corte dei cugini Marco e Franco, cardinali, la realtà del contado, commissionò a Ruzante le due orazioni. Quando conseguì il traguardo di amministratore del vescovato padovano, ridusse l'amico al ruolo di fattore, per poi tornare a rivalutarlo dopo che l'incarico gli era stato revocato.
Documenti storici sulla vita
Riguardo alla data di nascita sussistono ancora numerosi dubbi e non è stato ancora possibile rinvenire un documento attestante una data certa di nascita di Angelo Beolco. È vero, tuttavia, che, nel corso degli ultimi trent'anni circa, le ricerche archivistiche (specialmente per merito di due studiosi veneti, Menegazzo e Sambin) hanno permesso di retrodatare progressivamente la nascita di Angelo Beolco, che ora si ritiene possa essere stata intorno al 1496. Il Beolco, infatti, appare come teste in documenti notarili successivi di una ventina d'anni: per farlo doveva, secondo la legge, avere già raggiunto la maggiore età, che all'epoca era di venticinque anni. Se consideriamo che l'atto notarile di delega da parte del padre quale curatore degli affari famiglia risale al 1521, il conto è presto fatto.
È ignoto anche il luogo di nascita, sebbene nella Prima Orazione si legga: de quigi, saìu, che se ciama dotore, perché, se gi è igi do-tore, a' ghe son mi tre de le tore (di quelli, sapete, che si chiamano dottori, perché, se hanno due-torri, ci sono io che ho tre torri); è al riguardo probabile che richiamasse lo stemma araldico di Pernumia, che reca, appunto, tre torri e che secondo questa interpretazione dovrebbe essere, appunto, il luogo di nascita.
Morì a Padova in casa del Cornaro il 17 marzo 1542. Alvise Cornaro, in un suo scritto, attribuì la morte del Ruzzante ai troppi "disordini" e alle "dissipatezze", accreditando così l'immagine di un commediografo sregolato, probabilmente non coincidente con il vero. Dal tono della dichiarazione, si intende che il Cornaro ambisse più ad elogiare sé stesso, che non a commiserare l'amico defunto, e che intendesse compiacere anche l'amico Sperone Speroni (il testo è contenuto appunto in una lettera rivolta a lui), che occupava un ruolo di rilievo nella Padova dell'epoca. Il Cornaro, d'altra parte, teorico della vita sobria, arrivò a disporre per sé di essere sepolto "con Ruzzante e messer Giovanni Maria Falconetto", anche per sottolineare il legame intercorso con i due.
Una lapide funeraria commemorativa è posta nella chiesetta di San Daniele in Padova, mentre nella casa di fronte si individua il sito della residenza padovana dell'autore.
Le opere
Per la cronologia delle sue opere, esistono differenti datazioni, una basata su criteri filologici, il cui più importante esponente è Ludovico Zorzi, curatore dell'unica omnia ruzantiana nei Millenni della Einaudi, ed una su una progressione semantica, rappresentata, ad esempio, da Giovanni Calendoli. Potremmo così riassumere:
Data Opera Note
1517 - 1520 La Pastoral Il codice in cui l'opera è conservata la riporta al 1518.
1521 Prima orazione Datazione certa. È stata recitata nel giorno dell'Assunta
1522 - 1524 Lettera giocosa Forse recitata il 4 febbraio
1524 - 1525 Betìa Conservata da due codici. Alcuni studiosi la collocano tra La Pastoral e la Prima orazione.
1528 Seconda orazione
1529 Dialogo facetissimo
1529? Primo Dialogo de Ruzante (o Parlamento)
1529? Moscheta Esistono tre redazioni di quest'opera, di cui una del 1530-31 e una successiva al 1531 conservata dai codici.
1530? Secondo Dialogo de Ruzante (o Bilora)
1531-1532? Fiorina
1532? Piovana
1533? Vaccària
1534? - 1535? Anconitana
1536 Lettera all'Alvarotto In realtà il 1537 more veneto
? Lettera al Duca d'Este
? Le Canzoni
? Sonetti
Resta da datare l'Anconitana, che Zorzi colloca tra il 1522 ed il 1526, mentre Calendoli la pone dopo il 1528.
La critica
Nella critica, l'immagine di Ruzzante è variata nel tempo. Creduto autore "tutto istinto", come lo definì Emilio Lovarini, tra i suoi primi studiosi, oggi Ruzzante è unanimemente considerato autore "colto". Tra le altre prove di questa sua cultura ci sono le citazioni o i riferimenti interni alle sue opere, che spaziano dalla cultura classica a echi della cultura luterana d'Oltralpe. Nel corso dei secoli la sua fortuna è stata alterna. Nei primi decenni successivi alla morte, e fin quasi alla fine del secolo, fu citatissimo, anche se, dalla natura di predette citazioni, dobbiamo pensare che derivino al più da tradizioni orali che dalla lettura dei suoi lavori, le cui pubblicazioni sono tutte postume.
Autore di opere teatrali, trasse per se stesso lo pseudonimo di Ruzzante, dal nome di un personaggio delle sue commedie, un contadino veneto che è stato differentemente caratterizzato di opera in opera. Le varianti del personaggio corrispondono alla diversa prospettiva da cui l'autore ha voluto analizzarlo, in uno scavo progressivo mai viziato da populistico fervore, e che, nel complesso delle opere, porta ad un ritratto "a tutto tondo" della realtà del contado pavano.
Il nome "Ruzzante" era peraltro diffuso (e lo è anche oggi) in un'area geografica che il Beolco frequentava: a Pernumia e dintorni. Quello di Ruzzante era il ruolo che Beolco stesso interpretava nella messa in scena delle sue commedie. Unica eccezione costituisce il Secondo Parlamento de Ruzzante - Bilora in cui interpretò il ruolo dello zio Pitaro.
Fu un grande sperimentatore, mettendo a frutto proprio l'esperienza diretta di attore e regista. La sua frequentazione di diversi generi non fu mai arbitraria. Trovando un argomento, sceglieva, tra le strutture della tradizione, quella che riteneva più idonea a rappresentarlo, ed entrando in essa, la modificava dall'interno. Riuscì così a rinnovare il mariazzo, l'egloga, la commedia pastorale ecc. Insaziabile curioso, non mancò di polemizzare con i più illustri contemporanei, in particolare col Bembo, ampiamente schernito proprio nella Betia.
Gli studiosi hanno individuato, proprio intorno al 1530, un certo cambio di atteggiamento nel Beolco: il mondo dei poveri, degli sfruttati, dei contadini, è presentato con l'amarezza di chi conosce la vita squallida e segnata dalle ingiustizie delle classi subalterne.
Le alterne fortune critiche di Ruzzante si legano a due fattori. Il primo è costituito dalla difficoltà linguistica. Infatti il pavano del suo parlato è di fatto scomparso da più di due secoli e risulta inintelligibile anche ai suoi conterranei. Le riduzioni in italiano perdono lo slancio linguistico, il senso più profondo del gioco legato ai richiami più attinenti alla struttura semiotica. Per questo risultano molto efficaci le riduzioni in altre parlate, tra cui meritano segnalazione quella del 1921, ad opera della Compagnia dello Stabile Lucano, quella del 1950 della Moscheta con la regia di Gianfranco De Bosio e di Ludovico Zorzi lo stesso che ha curato la traduzione più recente dell'opera ruzantiana per Einaudi e quella della Te.A.R., curata da Alberto Ticconi, che nel 1995 fu rappresentata al Convegno Mondiale di Studi Ruzzantiani in Padova nel vernacolo del sud pontino.
Il secondo fattore ha profonde radici storiche. Il definitivo avvento della borghesia ingenerò quella che è la malattia ineliminabile della cultura veneta, e anche italiana: il disimpegno. Tre anni dopo la morte di Beolco fu stipulato il primo contratto della Commedia. Si trattava di un patto tra attori, e la Commedia dell'arte fu essenzialmente questo: un accordo tra professionisti in ottica del divertimento puro. Affermatasi a discapito delle classi subalterne, la borghesia non amava l'inquietante verismo ruzzantiano; i contadini, dopo quella fugace apparizione alla ribalta della scena, dovevano cadere nell'oblio. Per questo, dal seicento in poi, l'opera del Beolco finisce nel dimenticatoio, per riaffacciarsi solo agli inizi del XX secolo agli onori della scena. Le sue opere sono tornate ad essere rappresentate nella Loggia Cornaro, scena rinascimentale per eccellenza.
Il comico italiano Dario Fo, durante il discorso pubblico nel momento in cui veniva insignito del Premio Nobel per la Letteratura, così definiva Ruzzante:
« Uno straordinario teatrante della mia terra, poco conosciuto... anche in Italia. Ma che è senz'altro il più grande autore di teatro che l'Europa abbia avuto nel Rinascimento prima ancora dell'avvento di Shakespeare. Sto parlando di Ruzzante Beolco, il mio più grande maestro insieme a Molière: entrambi attori-autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del loro tempo. Disprezzati soprattutto perché portavano in scena il quotidiano, la gioia e la disperazione della gente comune, l'ipocrisia e la spocchia dei potenti, la costante ingiustizia »
A Padova gli è stato dedicato un teatro.
In numerose città, tra cui Milano, gli è stata dedicata una via.
Curiosità
Ancora oggi, nel comune di Pernumia, a circa 20 km a sud di Padova, è presente una antica casa padronale ove il Ruzzante è nato o almeno ha trascorso i primi anni della sua vita
mercoledì 27 marzo 2013
l'eccidio delle Fosse Ardeatine
è il massacro compiuto a Roma dalle truppe di occupazione della Germania nazista il 24 marzo 1944, ai danni di 335 civili e militari italiani, come atto di rappresaglia in seguito all'attentato di via Rasella compiuto contro le truppe germaniche avvenuto il giorno precedente. Per la sua efferatezza, l'alto numero di vittime, e per le tragiche circostanze che portarono al suo compimento, è diventato l'evento simbolo della rappresaglia nazista durante il periodo dell'occupazione.
Le "Fosse Ardeatine", antiche cave di pozzolana situate nei pressi della via Ardeatina, scelte quali luogo dell'esecuzione e per occultare i cadaveri degli uccisi, sono diventate un monumento a ricordo dei fatti e sono oggi visitabili.
Inquadramento storico
Dopo l'8 settembre 1943, l'armistizio di Cassibile, la fuga del Re Vittorio Emanuele III, e l'ingresso delle truppe tedesche dopo gli sfortunati combattimenti di Roma, i nazisti assunsero il controllo effettivo della città dato che il territorio era passato sotto la sfera di controllo degli Alleati cobelligeranti con l'Italia. Fin dai primi giorni dell'occupazione tedesca di Roma si costituirono nella capitale gruppi di resistenza, in particolar modo il Fronte Militare Clandestino ("Centro X") diretto dal colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e nuclei comunisti, ai quali il generale Carboni aveva fatto distribuire armi fin dal 10 settembre.
Sottoposta pro forma alla sovranità della RSI, con lo status di "città aperta", Roma era in realtà governata solo dai comandi germanici, e lo divenne anche formalmente dopo lo sbarco di Anzio, il 22 gennaio 1944, quando l'intera provincia romana venne dichiarata "zona di operazioni". Il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante del fronte meridionale, nominò capo della Gestapo di Roma, conferendogli direttamente il controllo dell'ordine pubblico in città, l'ufficiale delle SS Herbert Kappler, già resosi protagonista della razzia del ghetto ebraico e della successiva deportazione, il 16 ottobre 1943, di 1.023 ebrei romani verso i Campi di sterminio.
La campagna del terrore avviata da Kappler, con frequenti rastrellamenti ed arresti di antifascisti e semplici sospetti nei vari carceri romani (fra cui il più tristemente famoso fu quello di via Tasso), sgominò in breve quasi ogni gruppo della resistenza romana, che si ritrovò a perdere prima gli elementi militari, quindi quelli trotzkisti di "Bandiera Rossa". Anche gli aderenti a "Giustizia e Libertà" e al Partito Socialista e i sindacalisti socialisti (come Bruno Buozzi) subirono forti decimazioni negli arresti compiuti dalle varie polizie tedesche, da quella italiana e dalle bande italiane sotto controllo tedesco (come la Banda Koch). Solo i GAP comunisti mantenevano una buona efficienza operativa.
Il fatto che Roma venisse a trovarsi nelle immediate retrovie del fronte ingenerò la convinzione che la città fosse pienamente teatro di guerra. È in questo contesto che i quadri comunisti della Resistenza romana giunsero alla determinazione di reagire con le armi e di attaccare militarmente l'occupante con un'azione che avesse un forte valore simbolico: venne infatti scelto come data il 23 marzo, anniversario della fondazione dei fasci di combattimento.
L'attentato di via Rasella
Il 23 marzo 1944 ebbe luogo un attentato contro l'11a compagnia del III battaglione dell'SS-Polizei-Regiment "Bozen" in via Rasella, per iniziativa di partigiani dei GAP Gruppi di Azione Patriottica delle brigate Garibaldi, che ufficialmente dipendevano dalla Giunta militare che era emanazione del Comitato di Liberazione Nazionale. Quanto all'appartenenza del Polizeiregiment "Bozen" alle SS, esistono versioni discordanti, in quanto la denominazione, pur solo formale, del reparto in SS-Polizeiregimenter avvenne solo il 16 aprile 1944, 24 giorni dopo l'attentato. Tale reparto fu segnalato come bersaglio da Giorgio Amendola, poiché lo vedeva "passare ogni pomeriggio" "in pieno assetto di guerra", lasciando poi al comando partigiano "assoluta libertà d'iniziativa", non per eventuali responsabilità dei soldati che vi appartenevano. La certezza è che il Battaglione non era composto da soldati anziani o "riservisti", come sostenuto fuorviantemente dalla propaganda filofascista, né tantomeno che fossero disarmati o malarmati. Il battaglione era in pieno assetto di guerra, preceduto e seguito da due motocarrozzette armate di mitragliere pesanti.
L'operazione fu portata a termine da 12 partigiani. Fu utilizzata una bomba a miccia ad alto potenziale; collocata in un carrettino per la spazzatura urbana, confezionata con 18 kg di esplosivo misto a spezzoni di ferro e dopo l'esplosione furono lanciate alcune bombe a mano. Vennero uccisi 32 militari dell'11a Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment Bozen e un altro soldato morì il giorno successivo (altri nove sarebbero deceduti in seguito). L'esplosione uccise anche due civili italiani, Antonio Chiaretti, partigiano della formazione Bandiera Rossa, ed il tredicenne Piero Zuccheretti.
La rappresaglia
Alla notizia dell'attentato, il generale Kurt Mälzer comandante della piazza di Roma, accorso sul posto, parlò stravolto di una rappresaglia molto grave e dello stesso parere fu inizialmente Hitler.
Successivamente vari ragionamenti condussero a quantizzare la rappresaglia, e la decisione del comando nazista fu la conta di 10 ostaggi fucilati per ogni tedesco ucciso. La fucilazione di 10 ostaggi per ogni tedesco ucciso fu ordinata personalmente da Adolf Hitler, dopo aver vagheggiato apocalittiche proporzioni di 50 ad 1, la distruzione dell'intero quartiere (che comprende il Quirinale) e la deportazione da Roma di 1000 uomini per ogni tedesco ucciso. La convenzione dell'Aia del 1907 proibisce la rappresaglia, mentre la Convenzione di Ginevra del 1929, relativa al Trattamento dei prigionieri di guerra, fa esplicito divieto di atti di rappresaglia nei confronti dei prigionieri di guerra nell'Articolo 2. Dal punto di vista internazionale l'argomento rappresaglia era contemplato nei codici di diritto bellico nazionali, in cui si faceva riferimento ai criteri della proporzionalità rispetto all'entità dell'offesa subita, della selezione degli ostaggi (non indiscriminata) e della salvaguardia delle popolazioni civili. Alcuni di questi aspetti furono violati: nella selezione degli ostaggi, poiché si procedette alla fucilazione anche di personale sanitario, infermi e malati ed inoltre poiché non risulta che sia stata eseguita da parte tedesca alcuna seria indagine per appurare l'identità dei responsabili dell'attacco, né si attesero le 24 ore di consuetudine affinché gli stessi si consegnassero spontaneamente, condizioni necessarie per la legittimità dell'azione di rappresaglia. Com'è noto, infatti, non venne neppure affisso il consueto bando nelle pubbliche piazze, limitando l'affissione, secondo la testimonianza dell'ambasciatore Roberto Caracciolo, ai soli uffici tedeschi. La notizia della strage e l'idea della rappresaglia contro la popolazione romana non vennero rese pubbliche. Non fu mai pubblicato nessun editto, col quale invitare i patrioti a consegnarsi ai nazisti. La prima notizia, riportata dal quotidiano "Il Messaggero" a mezzogiorno del 25 marzo, si concludeva con la terribile frase "Quest'ordine è già stato eseguito" ("Parole chiare per i romani" in "Il Messaggero" del 25 marzo 1943). Lo stesso Maresciallo Kesselring confermò che non fu mai emesso alcun avviso o richiesta di consegnarsi ai partigiani nel corso della sua deposizione al processo contro i generali Maeltzer e Von Mackensen come criminali di guerra (Testimonianza del Feldmaresciallo Kesselring all'udienza del 25 novembre 1946 presso il tribunale militare di Roma. Atti del processo ai generali Maeltzer e Von Mackensen, 1946/1947, in C. De Simone, Roma città prigioniera, i 271 giorni dell'occupazione nazista (8 settembre '43 - 4 giugno '44), Mursia, Milano 1994, 116 pp.
Nella scelta delle vittime, furono privilegiati criteri di connessione con la resistenza militare monarchica e coi i partigiani, e di appartenenza alla religione ebraica, e se in un primo tempo si tese ad escludere persone rastrellate al momento e/o detenuti comuni, successivamente, per raggiungere il numero di vittime volute, un certo numero di ostaggi fu poi costituito da reclusi condannati (o in attesa di processo) per delitti di natura non politica. Costoro furono prelevati, insieme a militari, membri attivi della resistenza e ad altri antifascisti, dal carcere romano di Regina Coeli, dove erano tenuti prigionieri. La strage iniziò infatti nemmeno 23 ore dopo l'agguato partigiano.
Dalle salme identificate (322 su 335) si ricava che circa 39 erano ufficiali, sottufficiali e soldati appartenenti alle formazioni clandestine della Resistenza militare, circa 52 erano gli aderenti alle formazioni del Partito d'Azione e di Giustizia e Libertà, circa 68 a Bandiera Rossa, un'organizzazione comunista trockijsta non legata al CLN, e circa 75 erano di religione ebraica. Altri, fino a raggiungere il numero previsto, furono detenuti comuni. Quindi circa metà dei giustiziati furono partigiani detenuti; di questi, cinquanta furono individuati e consegnati ai nazisti dal questore fascista Pietro Caruso, dietro minaccia da parte tedesca di procedere con un rastrellamento arbitrario del quartiere di Piazza Barberini. Non mancarono tuttavia tra gli uccisi i rastrellati a caso e gli arrestati a seguito di delazioni dell'ultim'ora.
L'esecuzione
Il massacro fu organizzato ed eseguito da Herbert Kappler, all'epoca ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca a Roma, già responsabile del rastrellamento del Ghetto di Roma nell'ottobre del 1943 e delle torture sui partigiani detenuti nel carcere di via Tasso.
L'ordine di esecuzione riguardò 320 persone, poiché inizialmente erano morti 32 soldati tedeschi. Durante la notte successiva all'attacco di via Rasella morì un altro soldato tedesco e Kappler, di sua iniziativa, decise di uccidere altre 10 persone. Erroneamente, causa la "fretta" di completare il numero delle vittime e di eseguire la rappresaglia, furono aggiunte 15 persone in più nell'elenco ed i tedeschi uccisero anche loro perché, se le avessero lasciate libere, avrebbero potuto raccontare quello che era successo.
I tedeschi, dopo aver compiuto il massacro, infierendo sulle vittime, fecero esplodere numerose mine per far crollare le cave ove si svolse il massacro e nascondere, o meglio rendere più difficoltosa, la scoperta di tale eccidio.
I sopravvissuti del SS-Polizei-Regiment "Bozen", si rifiutarono di vendicare in quel modo i propri compagni uccisi.
L'esecuzione iniziò dopo sole 23 ore dall'attacco di Via Rasella, e venne resa pubblica ad esecuzione avvenuta. La stessa segretezza avvolse la notizia ufficiale dell'attentato subìto dalle truppe occupanti, notizia diffusa assieme a quella della rappresaglia per ragioni propagandistiche secondo una direttiva del Minculpop.
Processi ai responsabili dell'eccidio
Nel dopoguerra, Herbert Kappler venne processato e condannato all'ergastolo da un tribunale italiano e rinchiuso in carcere. La condanna riguardò i 15 giustiziati non compresi nell'ordine di rappresaglia datogli per vie gerarchiche. Colpito da un tumore inguaribile, con l'aiuto della moglie riuscì ad evadere dall'ospedale militare del Celio, il 15 agosto 1977, e a rifugiarsi in Germania, ove morì pochi mesi dopo, il 9 febbraio 1978. Anche il principale collaboratore di Kappler, l'ex-capitano delle SS Erich Priebke, dopo una lunga latitanza in Argentina, è stato arrestato ed estradato in Italia, ove, processato, è stato condannato all'ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine. Attualmente vive a Roma sotto la scorta delle forze armate 24 ore su 24. Anche Albert Kesselring, catturato a fine guerra, fu processato e condannato a morte il 6 maggio 1946 da un Tribunale Alleato per crimini di guerra e per l'eccidio delle Fosse Ardeatine, ma la sentenza fu commutata nel carcere a vita. Nel 1952 fu scarcerato per motivi di salute e fece ritorno in Germania, dove si unì ai circoli neonazisti bavaresi. Morì nel 1960 per un attacco cardiaco.
Il monumento ai martiri delle Fosse Ardeatine
Subito dopo la fine della guerra il comune di Roma bandì un concorso per la sistemazione delle cave ardeatine e la costruzione di un monumento in ricordo delle vittime dell'eccidio nel luogo stesso in cui avvenne: le cave di pozzolana della via Ardeatina; fu il primo concorso d'architettura nell'Italia liberata.
Dalle due fasi del concorso uscirono vincitori ex aequo due gruppi: quello formato dagli architetti Nello Aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, Mario Fiorentino e dallo scultore Francesco Coccia e quello formato dagli architetti Giuseppe Perugini e Mirko Basaldella. Ai due gruppi fu assegnato l’incarico di un progetto comune per la costruzione di un sacrario, la sistemazione del piazzale e il consolidamento delle gallerie fatte esplodere dai nazisti dopo l’eccidio: quello che è stato chiamato monumento, o mausoleo, ai martiri delle Fosse Ardeatine.
Il monumento fu inaugurato il 24 marzo 1949
sabato 23 marzo 2013
escursionismo e speleologia di Gia Van Rollenoof
... Scorrevano i giorni e le settimane: a Gia sembrava che il tempo si fosse fermato per divenire piacevolmente infinito.
Un giorno, conversando con Nourhan le espresse un desiderio che aveva da tempo.
«Amore, mi piacerebbe almeno una volta cucinare per voi, siete sempre così care e non mi fate fare mai nulla… se non l'amore. Vorrei darvi una prova tangibile della mia gratitudine per come mi trattate sempre. Tu ormai la mia cucina l'hai conosciuta a Venezia, ma non so se le cose che potrei preparare qui sarebbero gradite anche da Nahed e da Rashida.»
«Ci penserò su e vedrò se posso consigliarti bene» le rispose Nourhan.
Al mattino successivo quando s'incontrarono, lei la prese per mano.
«Vieni amore, ho una sorpresa per te» le disse conducendola nella grande cucina. Aperse il frigorifero e le mostrò il contenuto.
«Non posso credere: mozzarelle di bufala, qui da voi!» esclamò Gia.
«Amore, ormai il mondo è globalizzato, così come a Venezia si può mangiare il kebab, anche qui da noi non ci facciamo mancare delle vostre specialità: credi che un bel giro di pizza fatta da un'adorabile donna veneziana potrebbe andar bene per sdebitarti e farci contente? In giardino c'è anche il forno a legna… solamente dovrai usare la farina integrale, quella con cui facciamo il pane. Nel giardino hai già visto che c'è un orto e lì non mancano né i pomodorini, né il basilico; l'olio d'oliva poi qui da noi è più che extravergine! Gli ulivi li hai visti, no? Ma forse, conoscendoti, tu avresti preferito cucinare del pesce?»
Gia oltre che stupita per aver trovato le mozzarelle, era molto contenta.
«Amore, è perfetto. No, la pizza andrà a meraviglia e poi, prepararla mette sempre tanta allegria!»
«Se è così, saremo tutte a divertirci: le prepareremo insieme così anche noi impareremo a farle come Dio comanda e tu sarai la chef che ci coordinerà» decretò Nourhan.
Ritornarono nel giardino a passeggiare, mano nella mano.
«A proposito di mozzarelle, ricordi a Venezia, Gia?»
E come se lo ricordava, Nourhan era arrivata da appena qualche giorno ed ogni volta che stavano nude, Gia smaniava nel guardala, godendosi con gli occhi quel suo magnifico e generoso corpo bruno.
Lei aveva dei seni pieni e grandi. Gia, troppo emozionata ed eccitata, quella volta si scordò di parlarle in inglese.
«Oddio quanto amo riempirmi la bocca di queste tue morbide, succulente, gustose mozzarelle, stringerle fra le mie mani, Nourhan!»
Lei non comprese.
«Mozzarella? What are they? le chiese.
«Una di queste sere te la farò gustare su di una pizza, amore: prova a ripetere in italiano: m o z z a r e l l a.
Evidentemente Gia non le era stata molto chiara.
«È così che si chiamano le tette in italiano?» le ancora chiese Nourhan.
Da dietro lei, le prese entrambe le mammelle nelle mani, scoppiando a ridere.
«Beh, qualche volta anche sì, ma non è che per davvero queste tue magnifiche poppe siano delle mozzarelle, amore: ma sono egualmente tanto buone da mangiare, morbide da toccare, e se te le strizzo ben bene… così, vedi? Come le migliori mozzarelle di bufala, anche queste fanno la goccia! Ma purtroppo, anche se mi verrebbe di farlo, non te le posso mordere come invece posso fare con una mozzarella vera!» le rispose Gia, e ridendo si spostò in modo da starle di fronte, sollevandole una sua mammella e riempiendosene poi la bocca.
«Dai Gia, scherzi sempre tu: mi hai incuriosita, spiegami, cosa sarebbero allora queste mozzarelle?»
Gia la prese per mano e nude com'erano, la condusse in cucina, aperse il frigo e ne tirò fuori una vaschetta con due mozzarelle annegate nel loro liquido. Ne prese una con la mano e gliela porse.
«Prendila in mano e prova a palparla: ricorda molto la consistenza di una tetta vera. Poi goditela in bocca, mordila forte quanto vuoi e quindi mangiatela… che ne dici, buona?»
«Uhm… divina, anche da noi si trovano, ma buone come questa ancora non ne avevo mai assaggiate: avevi ragione assomiglia molto alle tette, ma preferisco il sapore delle tue, Gia…»
Quell'atmosfera gioiosa, allegra e tanto sensuale che c'era sempre tra loro tutte, si trasferì anche nel cuore e nello spirito di Gia.
Anche per lei ormai, allattare Nourhan era diventata una dolce consuetudine. Si sentiva sempre le mammelle piene, tese e questo le dava una persistente e piacevolissima sensazione… (continua)
giovedì 14 marzo 2013
telefono azzurro
Il Telefono Azzurro è una onlus nata nel 1987 con lo scopo di difendere i diritti dell'infanzia, che sono stati riconosciuti con una Convenzione ONU due anni più tardi.
L'associazione è stata fondata a Bologna dal Prof. Ernesto Caffo, docente di neuropsichiatria infantile all'Università di Modena e Reggio Emilia.
Il 5 dicembre 1990 è stata attivata la linea nazionale gratuita 1678-48048 e il 18 dicembre seguente, Telefono Azzurro, per Decreto del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, diventa "Ente Morale".
Il 26 novembre 1994 il numero diventa breve (19696) per bambini e adolescenti, in funzione tutti i giorni dell'anno, 24 ore su 24. Contemporaneamente l'associazione sviluppa modelli di formazione per operatori esperti sulle tematiche dell'infanzia e dell'adolescenza, fornendo un modello di riferimento anche per altri Paesi europei che implementano la propria linea telefonica per bambini e adolescenti.
La linea l'199151515 nasce con l'obiettivo di dialogare con adulti, famiglie, insegnanti ed educatori, che rilevino situazioni di disagio e vogliano capire come intervenire o come aiutare i bambini coinvolti.
Dal 26 marzo 2003 il Ministero delle Comunicazioni, il Ministero per le Pari Opportunità e il Ministero del Lavoro hanno affidato al Telefono Azzurro la gestione del Servizio Emergenza Infanzia 114. Il 114 è un numero di emergenza al quale rivolgersi tutte le volte che un bambino è in pericolo. È attivo 24 ore su 24, sette giorni su sette ed è gratuito. Chiunque, ragazzo o adulto, può chiamare il 114 per denunciare un'emergenza che coinvolge un bambino o per segnalare immagini, messaggi e dialoghi che possono nuocere ai ragazzi diffusi attraverso televisione, internet, radio e carta stampata.
Dal 25 maggio 2009, infine, è attivo in Italia il numero 116000 - numero per i bambini scomparsi, raggiungibile gratuitamente tramite telefonia fissa e mobile da 10 Stati membri dell'Unione Europea. Il numero assegnato dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni al Ministero dell'Interno viene gestito da Telefono Azzurro in collaborazione anche con la Polizia di Stato, con cui è stato siglato un protocollo d'intesa.
il fornaretto
Il fornaretto è un dramma storico in 5 atti di Francesco Dall'Ongaro, pubblicato a Trieste nel 1846. Riscosse grande successo sin dalla sua prima rappresentazione, avvenuta al Teatro Carignano di Torino nel 1855.
La storia prende spunto da un fatto accaduto a Venezia nel 1507, quando un giovane fornaio, accusato dell'assassinio di un nobile e condannato a morte dopo aver confessato, sotto tortura, di aver commesso il delitto, venne giustiziato nonostante il colpevole dell'omicidio fosse stata un'altra persona che confessò la sua colpa in articulo mortis poche settimane dopo. Da quel clamoroso errore giudiziario nacque la formula "Recordève del poaro fornareto", con la quale il segretario del Consiglio dei Dieci, massimo organo giurisdizionale penale di Venezia, ammoniva i consiglieri prima che essi pronunciassero ogni sentenza, per guardarsi dai pericoli di un processo soltanto indiziario, anche in presenza della confessione dell'accusato che di solito era ottenuta mediante il ricorso alla tortura.
La leggenda è stata creata per tramandare la visione di una giustizia che ricerca sempre la verità e per far ciò non esita ad ammettere pubblicamente l'errore commesso nell'uccidere il fornaretto. La grandezza del governo veneziano, che non ha paura di affermare di aver commesso un grande errore, diventa così l'emblema del mito della Repubblica.
Trama
A Venezia vive un giovane garzone di fornaio di nome Pietro Tasca. Egli è innamorato di una giovane, Amelia, che fa da cameriera presso la famiglia patrizia di Lorenzo Barbo, membro del Consiglio dei Dieci.
Una mattina di buon'ora, mentre fa il suo giro per calli e campielli per la consegna del pane, Pietro si imbatte nel cadavere del nobiluomo Alvise Guoro, che egli conosce e verso il quale nutre una certa antipatia, sia perché aveva in precedenza attentato all'onore di sua sorella, sia perché ha il sospetto che stavolta avesse messo gli occhi addosso alla sua amorosa. In effetti il vizioso Alvise Guoro era l'amante della moglie del Barbo, Clemenza.
Mentre il fornaretto è titubante accanto a quell'uomo ucciso, sopraggiungono gli sbirri che lo arrestano e lo rinchiudono nel famigerato carcere dei Piombi. Amelia, la fidanzata del fornaretto che ancora non sa del suo arresto, durante l'interrogatorio mente per proteggere la sua padrona, affermando che l'Alvise veniva da lei nelle sue visite notturne, ed inconsapevolmente fornisce agli inquisitori il "movente" del delitto.
La confessione sotto tortura addossa definitivamente il delitto al giovane Pietro che viene condotto al patibolo. Quando il patrizio Lorenzo Barbo confessa pubblicamente di essere stato lui l'autore del delitto, la sorte dell'infelice fornaretto è ormai segnata
mercoledì 13 marzo 2013
Trilussa
Carlo Alberto Salustri, più conosciuto con lo pseudonimo di Trilussa - anagramma del cognome, è stato un poeta italiano, noto per le sue composizioni in dialetto romanesco.
Figlio di Vincenzo, originario di Albano Laziale e Carlotta Poldi, bolognese. Dopo un'infanzia poverissima (a tre anni era rimasto orfano del padre), compì studi irregolari ed esordì giovanissimo (1887), con poesiole romanesche, sul Rugantino di Luigi Zanazzo; più tardi scrisse anche per il Don Chisciotte, il Capitan Fracassa, Il Messaggero, Il Travaso delle idee e Il Resto del Carlino.
Di carattere manierato, provinciale e madrigalesco è il primo volume di versi, Le Stelle de Roma (1889) che si attirò gli strali di Filippo Chiappini, vecchio amico di famiglia e poeta romanesco di un certo valore; poi la sua vena, prevalentemente satirica, andò via via affinandosi, trovando la misura più congeniale nel bozzetto di costume e nella favola moraleggiante di ascendenza esopiana: Quaranta sonetti (1895), Favole romanesche (1900), Caffè concerto (1901), Er serrajo (1903), Ommini e bestie (1908), Le storie (1913), Lupi e agnelli (1919), Le cose (1922), La gente (1927) e molte altre, tra le quali la famosa La vispa Teresa del 1917 continuazione ironica della celeberrima La farfalletta del milanese Luigi Sailer.
« C'è un'ape che se posa
su un bottone di rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa. »
(Trilussa, Felicità)
Ben presto le sue opere lo resero un personaggio popolarissimo, ma durante la sua vita fu sempre assillato da problemi economici, mantenendosi con i proventi editoriali e le collaborazioni giornalistiche; era anche un efficace dicitore dei suoi versi, e come lettore di poesia fece lunghe tournée in Italia e all'estero.
Sulla scia del successo iniziò a frequentare i "salotti" nel ruolo di poeta-commentatore del fatto del giorno. Durante il Ventennio evitò di prendere la tessera del Partito fascista, ma preferì definirsi un non fascista piuttosto che un antifascista. Pur facendo satira politica, i suoi rapporti con il regime furono sempre sereni e improntati a reciproco rispetto.
Nel 1922 la Arnoldo Mondadori Editore iniziò la pubblicazione di tutte le raccolte. Sempre nel 1922 lo scrittore entra in Arcadia con lo pseudonimo di Tibrindo Plateo, che fu anche quello del Belli.
Il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi nominò Trilussa senatore a vita il 1º dicembre 1950, venti giorni prima che morisse (si legge in uno dei primi numeri di "Epoca" dedicato, nel 1950, alla notizia del suo decesso, che il poeta, già da tempo malato, e presago della fine imminente, con immutata ironia, avesse commentato: "M'hanno nominato senatore a morte"; resta il fatto che Trilussa, benché 79enne al momento del trapasso, si ostinava con civetteria d'altri tempi a dichiarare di averne 73).
Ecco un breve estratto dal sonetto:
« Io che conosco bene l'idee tue
so' certo che quer pollo che te magni,
se vengo giù, sarà diviso in due:
mezzo a te, mezzo a me...Semo compagni
No, no - rispose er Gatto senza core -
io non divido gnente co' nessuno:
fo er socialista quanno sto a diggiuno,
ma quanno magno so' conservatore »
(Trilussa, Er compagno scompagno)
La raccolta di Tutte le poesie uscì postuma, nel 1951, a cura di Pietro Pancrazi, e con disegni dell'autore.
La satira politico-sociale
Con un linguaggio arguto, appena increspato dal dialetto borghese, Trilussa ha commentato circa cinquant'anni di cronaca romana e italiana, dall'età giolittiana agli anni del fascismo e a quelli del dopoguerra. La corruzione dei politici, il fanatismo dei gerarchi, gli intrallazzi dei potenti sono alcuni dei suoi bersagli preferiti. Ma la satira politica e sociale, condotta d'altronde con un certo scetticismo qualunquistico, non è l'unico motivo ispiratore della poesia trilussiana: frequenti sono i momenti di crepuscolare malinconia, la riflessione sconsolata, qua e là corretta dai guizzi dell'ironia, sugli amori che appassiscono, sulla solitudine che rende amara e vuota la vecchiaia (i modelli sono, in questo caso, Lorenzo Stecchetti e Guido Gozzano).
La chiave di accesso e di lettura della satira del Trilussa si trovò nelle favole. Come gli altri favolisti, anche lui insegnò o suggerì, ma la sua morale non fu mai generica e vaga, bensì legata ai commenti, quasi in tempo reale, dei fatti della vita. Non si accontentò della felice trovata finale, perseguì il gusto del divertimento per sé stesso già durante la stesura del testo e, ovviamente, quello del lettore a cui il prodotto veniva indirizzato.
Il poeta in romanesco
Trilussa fu il terzo grande poeta dialettale romano comparso sulla scena dall'Ottocento in poi: se Belli con il suo realismo espressivo prese a piene mani la lingua degli strati più popolari per farla confluire in brevi icastici sonetti, invece Pascarella propose la lingua del popolano dell'Italia Unita che aspira alla cultura e al ceto borghese inserita in un respiro narrativo più ampio. Infine Trilussa ideò un linguaggio ancora più prossimo all'italiano nel tentativo di portare il vernacolo del Belli verso l'alto. Trilussa alla Roma popolana sostituì quella borghese, alla satira storica l'umorismo della cronaca quotidiana.
Il pollo di Trilussa
Nella cultura popolare, specialmente a Roma e dintorni, le opere di Trilussa sono diventate fonti di massime e detti, ma nessuno di questi ha superato come diffusione e notorietà quello dei "polli di Trilussa", diventati celebri a livello matematico, e non solo, come la più proverbiale osservazione a proposito delle medie statistiche.
Tutto nasce dalla poesia La Statistica:
« Sai ched'è la statistica? È na' cosa
che serve pe fà un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che spósa.
Ma pè me la statistica curiosa
è dove c'entra la percentuale,
pè via che, lì, la media è sempre eguale
puro co' la persona bisognosa.
Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d'adesso
risurta che te tocca un pollo all'anno:
e, se nun entra nelle spese tue,
t'entra ne la statistica lo stesso
perch'è c'è un antro che ne magna due. »
(Trilussa, La Statistica)
Di fatto il componimento di Trilussa non fa altro che affermare che se qualcuno mangia due polli, e qualcun altro no, in media hanno mangiato un pollo a testa, anche se di fatto sappiamo che uno non l'ha mangiato. La scelta del pollo va inserita nel contesto storico, in quanto ai tempi di Trilussa mangiare pollo era considerata "una cosa da ricchi", ma anche se oggi in Italia la situazione è diversa il significato del ragionamento umoristico non cambia. Quindi sebbene facendo la media sulla popolazione potesse risultare che ogni persona mangia un pollo (quindi abbia un certo benessere) nella realtà potrebbero essere in molti a non poterselo permettere e il dato sarebbe ingrossato dal consumo della fascia di popolazione più ricca.
Con questa poesia Trilussa anticipa un tema che è diventato assai attuale con la diffusione dell'informazione statistica per fini di promozione politica, economica e non solo. Come infatti sosteneva Darrell Huff nel suo Mentire con le statistiche (How to Lie with Statistics) spesso il numero statistico, magari privo di informazioni dettagliate, può essere interpretato in modi diversi a seconda dei dati correlati. Così la media è un dato spesso poco significativo o addirittura fuorviante se non si sa esattamente su quale base è calcolata e con quale criteri è definita: e questa imprecisione, a volte, può essere voluta, con lo scopo intenzionale di ingannare. Casi del genere hanno portato con il tempo a modifiche sull'uso di dati statistici, ad esempio per misurare il reddito medio di una certa nazione, che può risultare elevato grazie alla presenza di pochi individui multimiliardari a fronte di una massa di persone sotto la soglia di povertà. La scienza statistica, peraltro, dispone di strumenti che permettono di tenere conto di questa variabilità, come il Coefficiente di Gini[2]. Tuttavia (al di là dell'eventuale uso strumentale della media statistica) il tema del "pollo di Trilussa" esemplifica bene la sovrapposizione che si fa a livello popolare tra la statistica in generale (che contiene tra l'altro delle misure di dispersione) e la media statistica, che è una misurazione tanto nota ed esaltata da essere spesso confusa con la statistica stessa.
Citazioni e influenze
Molte delle composizioni di Trilussa sono state a più riprese utilizzate da altri artisti come testi per le proprie canzoni, talvolta reinterpretandole. Alcuni esempi:
Ninna nanna della guerra rivisitata da Maria Monti
Ninna nanna della guerra cavallo di battaglia per molti anni di Claudio Baglioni, specialmente nelle registrazioni dal vivo (vedi la sua discografia).
Esempi di utilizzo dei suoi versi si trovano anche nella musica colta. Alfredo Casella, ad esempio, musicò alcune favole romanesche (Er coccodrillo, La carità, Er gatto e er cane, L'elezzione der presidente).
La poesia Quella vecchietta cieca è stata ripresa e riutilizzata da Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I, per sviluppare una delle lettere contenute nel libro Illustrissimi. Luciani, come nella poesia, si interroga sulla fede: su che cosa essa sia e sul perché alcuni la sentano ardentemente mentre altri non l'abbiano affatto. Luciani aggiunge poi alcuni riferimenti a Manzoni.
Una citazione della satira sui "polli" si ritrova nella canzone Penelope di Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, nel verso "Se io mangio due polli e tu nessuno statisticamente noi ne abbiamo mangiato uno per uno."
A marzo 2013 va in onda su Rai uno una minifiction sul poeta, interpretato da Michele Placido che il critico Aldo Grasso ha definito una caricatura male interpretata. ).
Curiosità
Fu padrino di battesimo del giornalista e radiocronista sportivo Sandro Ciotti.
Sua madre era bolognese.
Ai primi del Novecento frequentò la Bologna del poeta e commediografo Testoni, di cui divenne amico e con cui collaborò alla stesura di alcune réclame pubblicitarie per la "Pasticca del Re sole" del cavalier Gazzoni.
È sepolto nello storico Cimitero del Verano in Roma, dietro il muro del Pincetto sulla rampa carrozzabile, nella seconda curva. Sulla sua tomba in marmo è scolpito un libro, sul quale è incisa la poesia Felicità.
È morto il 21 dicembre; lo stesso giorno di Giuseppe Gioachino Belli, altro poeta romanesco, e di Giovanni Boccaccio.
Papa Giovanni Paolo I (Albino Luciani) ha recitato una sua poesia, La Fede, in un'udienza del mercoledì durante il suo breve pontificato nel 1978.
Era alto quasi due metri, come testimoniano le foto a corredo della notizia della sua morte, pubblicate dal settimanale mondadoriano "Epoca" nel 1950.
Le sue ultime parole, pronunciate quasi sfarfugliando alla fedelissima domestica Rosa Tomei, pare siano state: "Mò me ne vado". La fantesca, invece, riferì al giornalista di "Epoca" che la intervistò: "Gli stavo preparando una sciarpa nuova, ora non gli servirà più".
martedì 12 marzo 2013
mentre morivo
Mentre morivo (titolo originale As I Lay Dying) è un romanzo dello scrittore statunitense William Faulkner, pubblicato a New York nel 1930 dall'Editore Cape & Smith.
Nel libro viene narrata una storia semplicissima sul piano della mera fabula ma estremamente complessa su quello dello stile e della tecnica narrativa. Ed è proprio la forma peculiare e studiatissima a fare di questo impervio romanzo uno dei vertici della narrativa del XX secolo. Come ricorda Fernanda Pivano in un lungo saggio introduttivo a Luce d'agosto Faulkner scrisse Mentre morivo nell'estate del 1929, all'età di 32 anni, quando lavorava come fuochista alla centrale elettrica dell'Università di Oxford, Mississippi, e vi si dedicava "nelle ore di minor lavoro, tra la mezzanotte e le quattro del mattino, usando come tavolino una carriola capovolta"
Il titolo originale, As I Lay Dying, come dichiarava esplicitamente Faulkner, allude assai significativamente a un verso dell'Odissea che si trova nel famoso libro XI, quello della discesa agli inferi da parte di Ulisse, in particolare laddove Agamennone, ormai un'ombra, narrando all'amico vivo le circostanze dell'orrido delitto compiuto da Egisto e Clitennestra tra le mura della sua stessa casa, sottolinea dolorosamente che egli non ricevette dalla moglie "occhi di cane" alcun gesto di pietà nemmeno da morto. Nella versione citata a memoria da Faulkner il verso è il seguente: "As I lay dying the woman with the dog's eyes would not close my eyelids for me as I descended into Hades". Nella versione italiana di Aurelio Privitera esso suona così: "a terra morente (...) la faccia di cagna (...) non ebbe il cuore, mentre andavo nell'Ade, di chiudermi gli occhi". Come si vede, la stessa soglia del titolo, con le sue risonanze omeriche (e naturalmente anche eschilee, dunque tragiche), ci introduce nel clima funebre del romanzo, che mette in scena un rito di sepoltura, ora grottesco ora drammatico, carico di suggestioni simboliche antichissime.
Trama
Una famiglia di contadini poveri e primordialmente legati alla terra, i Bundren, è presentata mentre veglia insieme ad alcuni vicini sugli ultimi momenti di vita di mamma Addie. Siamo nella contea di Yoknapatawpha (l’immaginaria regione del Mississippi, qui nominata fuggevolmente solo una volta, già introdotta da Faulkner in Sartoris e ne L'urlo e il furore, entrambi del 1929), ed è un luglio insieme torrido e piovoso, che sconvolgerà il territorio con un’inondazione mai vista da quelle parti a memoria d’uomo. Morta Addie, il marito Anse e i cinque figli (Cash, Darl, Jewel, Dewey Dell e Vardaman) caricano la bara su un carro malconcio e partono per la lontana Jefferson, dove la donna era nata e dove desiderava essere sepolta. Questo viaggio carico di simboli archetipici e allegorie anche bibliche (il pesce, il cavallo, il diluvio, la discesa agli inferi, il rogo purificatore, il capro espiatorio), a causa dell’inondazione che trascina via i ponti del fiume, dura più di una settimana tra varie e tragicomiche peripezie, e occupa gran parte della narrazione. E sono proprio le difficoltà del viaggio e far esplodere i rancori che covano tra i membri della famiglia, ciascuno dei quali è prigioniero del proprio dramma privato e nasconde segreti e desideri più o meno inconfessabili. Giunti a Jefferson, i Bundren si liberano dei ‘miasmi’ tragici che li opprimono, seppellendo il cadavere in putrefazione di Addie (sono passati nove giorni dalla morte) e spedendo Darl al manicomio di Jackson, mentre la diciassettenne Dewey Dell, segretamente incinta, cerca di procurarsi un aborto farmacologico finendo involontariamente per prostituirsi a un droghiere senza scrupoli, che in cambio le dà da bere un intruglio che "puzzava d'acquaragia". Così purificata, la famiglia si ricompone all'istante e realizza finalmente i piccoli sogni dei poveri, come le banane comprate da Dewey Dell per il piccolo Vardaman, il grammofono per Cash e i denti nuovi per lo sdentato Anse, che a Jefferson trova pure una nuova moglie.
Costruzione
Questa, in sintesi, la storia raccontata in Mentre morivo, che però prende forma lentamente attraverso un complesso contrappunto polifonico di monologhi, secondo la tecnica del flusso di coscienza che Faulkner mutua soprattutto da Joyce, ma piegandola alla propria peculiare esigenza di rappresentare in modo insieme crudo e profondamente elegiaco il mondo rurale e primitivo del Sud degli Stati Uniti. I 59 capitoli, non numerati, portano come titolo solo il nome del personaggio che di volta in volta prende la parola e racconta la storia dal proprio particolare punto di vista. Oltre ai sette membri della famiglia, ci sono altre otto voci monologanti: i vicini coniugi Tull (Cora e Vernon), il medico Peabody, il locandiere Samson, l’‘uomo di Dio’ Withfield, l’ospite Armstid e i droghieri Moseley e MacGowan. È molto interessante dare uno sguardo d’insieme alla distribuzione dei 59 monologhi, perché si vede, ad esempio, che se ben 19 sono assegnati al ‘folle’ Darl e 10 al piccolo Vardaman (uno dei quali, il 19, costituito da una sola frase: “Mia madre è un pesce”), uno solo, e non particolarmente significativo, è assegnato a Jewel, che pure ha una notevolissima presenza ‘scenica’ nei monologhi degli altri; fondamentale, invece, è l’unico monologo assegnato a Addie, che sembra addirittura parlare post mortem. Ecco, in ordine di apparizione, le 15 voci monologanti, seguite dai capitoli ad esse assegnati: Darl (1, 3, 5, 10, 12, 17, 21, 23, 25, 27, 32, 34, 37, 42, 46, 48, 50, 52, 57); Cora (2, 6, 39); Jewel (4); Dewey Dell (7, 14, 30, 58); Tull (8, 16, 20, 31, 33, 36); Anse (9, 26, 28); Peabody (11, 54); Vardaman (13, 15, 19, 24, 35, 44, 47, 49, 51, 56); Cash (18, 22, 38, 53, 59); Samson (29); Addie (40); Withfield (41); Armstid (43); Moseley (45); MacGowan (55).
Personaggi principali: i Bundren
Anse è un contadino inetto e testardo che, pur di tener fede alla parola data alla moglie, intraprende un viaggio lunghissimo e drammatico portando in giro una bara che già emana un fetore insopportabile, e alla fine avrà il suo tornaconto.
Addie è la donna radicata alla terra e al sangue che sa tutto il dolore della vita, biblicamente legato al parto. Sposa Anse senza amore e gli dà senza opporsi i figli che lui vuole secondo la tradizione contadina, ma vive la vera passione, nel peccato e al di fuori del matrimonio, con Withfield, che le dà un figlio. A lei Faulkner mette in bocca una straordinaria teoria pessimistica del linguaggio che denuncia la vacuità del logocentrismo maschile basato sull’assegnazione dei nomi alle cose che non si conoscono (come l’amore, la maternità, la paura, l’orgoglio, il sangue, la carne, la terra, il peccato e la salvezza), laddove le donne come lei, fedeli alla voce diretta delle cose, non hanno bisogno di nominarle per sapere che cosa siano.
Cash il falegname, forse il personaggio più poetico del romanzo, è anche il più straziante e il più straziato. Da un lato ha il compito, assegnatogli dalla stessa madre, di costruirle la bara sotto gli occhi mentre giace a letto morente, e dall'altro farà quasi tutto il viaggio tra dolori indicibili, perché si spezza una gamba nel tentativo di salvare il carro, i muli e la bara dalla piena del fiume. Ma è sua l’ultima parola del libro, ed è una parola che si apre alla bellezza consolatrice della musica, in quella che forse è l'unica nota di speranza nella terra desolata di Yoknapatawpha.
Darl, reduce disadattato della Grande Guerra, è il diverso, il figlio chiuso in una follia lucida che funge da occhio privilegiato, lirico e deformante, sugli avvenimenti (come si è detto, ben 19 dei 59 monologhi che costituiscono il romanzo sono suoi). La maggiore ampiezza, anche culturale, del suo sguardo irriducibilmente alieno rispetto al mondo chiuso di Yoknapatawpha (è stato in Francia durante la guerra), è segnalata linguisticamente dall'uso di espressioni comparative raffinate come "insetto cubistico" e "fregio greco" (cfr. "Darl"). Tenterà persino, quasi al termine del viaggio, di dar fuoco alla bara per liberare la famiglia dal pestilenziale fardello, e per questo sarà internato in manicomio. In un passo importante, che metanarrativamente allude anche alla costruzione per sguardi del romanzo, così è descritto da Tull (31): “Lui mi guarda. Non dice nulla; mi guarda e basta, con quei suoi occhi strambi che fanno parlare la gente. Dico sempre, non è tanto quello che ha mai fatto oppure detto o qualsiasi cosa quanto come ti guarda. È come se ti fosse entrato dentro, in qualche maniera. È come se in un modo o in un altro tu ti stia guardando e guardando quello che fai con gli occhi di lui”.
Jewel è il frutto dell'adulterio di Addie, legato alla madre da un rapporto di amore e odio e tenacemente ostile a Darl, che sa il suo segreto. Accompagna sdegnosamente il corteo funebre in sella al suo inseparabile cavallo selvaggio, che Darl identifica con sua madre (in un complesso gioco di specchi simbolico, per cui Darl non ha madre, perché indesiderato e mai amato, Vardaman è figlio di un pesce, perché nato per pura meccanica fertilità, e Jewel è figlio di un cavallo, perché nato da una passione focosa: cfr. “Darl”); ma alla fine lo darà via in cambio di una nuova pariglia, per sostituire i muli del padre affogati nel corso del drammatico attraversamento del fiume in piena.
Dewey Dell è la figlia precocemente cresciuta e vitale che prende il posto della madre e cerca di nascondere la sua gravidanza scaturita da una breve relazione con il giovane Lafe (e dato che Darl è l’unico a conoscere anche il suo segreto, sarà lei ad aiutare Jewel a far rinchiudere il fratello in manicomio).
Vardaman è il bambino innocente che assiste all’orrore (lo squartamento del suo pesce, la decomposizione della madre, gli avvoltoi che li seguono sempre più incombenti, il rogo del fienile appiccato da Darl, la prostituzione della sorella) sognando per Natale un trenino rosso visto una volta dietro una vetrina.
venerdì 8 marzo 2013
the L word
Il 10 marzo 2008, Showtime ha comunicato che la sesta stagione, in onda nel 2009 negli USA, sarebbe stata composta da soli 8 episodi e la conclusiva del telefilm. In Italia la serie è stata trasmessa da La7, dal canale digitale terrestre La7d, dal canale satellitare Jimmy e dal 2009 dal canale satellitare Sky Vivo.
Produttori esecutivi della serie sono Ilene Chaiken (Barb Wire, Willy, il principe di Bel-Air), Steve Golin (Essere John Malkovich, Se mi lasci ti cancello) e Larry Kennar (La bottega del barbiere). Scrittrici insieme alla Chaiken: Guinevere Turner (Go Fish, American Psycho), Cherien Dabis (Amreeka), e Rose Troche (Go Fish, Six Feet Under).
La serie è ambientata principalmente a Los Angeles, nel quartiere di West Hollywood. Nella realtà, per motivi tecnici, la maggior parte delle scene sia in interni che in esterni sono state girate a Vancouver in Canada.
Titolo
Il nome in codice del progetto era Earthlings, un raro termine usato nello slang per indicare le donne omosessuali.
L'uso contemporaneo del modo di dire "the L word", in italiano "la parola con la L", per indicare una persona lesbica risale almeno al 1981, come testimonia lo spettacolo My Blue Heaven di Jane Chambers, in cui un personaggio balbetta: "Sei davvero ... The L-word? Signore Dio, non ne ho mai incontrata una prima ".
Storicamente la frase "the L word" può essere trovata all'interno di una lettera scritta da Daphne du Maurier a Ellen Doubleday: "Per Dio e per Cristo, se qualcuno dovesse chiamare l'amore per quella parola poco attraente che inizia per 'L', mi strapperei le budella di fuori ". (Daphne du Maurier, autrice di Rebecca, la prima moglie e di altre opere, era profondamente combattuta dalla sua attrazione e passione non corrisposta per la Doubleday, come sarebbe stata successivamente anche nella sua relazione con Gertrude Lawrence.)
Trama
Nel telefilm le vicende corrono intorno a un gruppo di donne, lesbiche e non, tutte con storie e caratteristiche diverse l'una dall'altra. All'interno del cast originario, ad esempio, troviamo la "femmina alfa" Bette (Jennifer Beals), la compagna fedele Tina (Laurel Holloman), la sportiva professionista che ha paura di rivelarsi Dana (Erin Daniels), la giornalista bisessuale Alice (Leisha Hailey), la sciupafemmine Shane (Katherine Moennig) e l'eterosessuale che scopre la propria omosessualità in età adulta: Jennifer "Jenny" Schecter (Mia Kirshner).
Il telefilm è un vero misto di storie che si intrecciano tra di loro; racconta in maniera chiara, decisa e senza ambiguità un punto di vista sull'universo omosessuale al femminile: dalla convivenza all'inseminazione artificiale, dalla dichiarazione della propria omosessualità (coming out) alle relazioni familiari.
sabato 2 marzo 2013
Pablo Neruda
Nobel per la letteratura 1971
pseudonimo di Ricardo Eliezer Neftalí Reyes Basoalto, è stato un poeta e attivista cileno. Viene considerato una delle più importanti figure della letteratura latino americana contemporanea.
Scelse l'appellativo d'arte Pablo Neruda, in onore dello scrittore e poeta cecoslovacco Jan Neruda, e che in seguito gli fu riconosciuto anche a livello legale. È stato insignito nel 1971 del Premio Nobel per la letteratura.
Ha anche ricoperto per il proprio Paese incarichi di primo piano diplomatici e politici. Inoltre è conosciuto per la sua adesione al Comunismo, la sua candidatura a Presidente del Cile nel 1970, e il successivo sostegno al socialista Salvador Allende. Morì in un ospedale di Santiago poco dopo il golpe di Pinochet nel 1973.
I primi anni
Neruda nacque il 12 luglio 1904 da un impiegato delle ferrovie e da una insegnante che morì per la febbre lasciandolo orfano a solo un mese dal parto. Si trasferì con il padre a Temuco dove, dalle nuove nozze del genitore (con una donna che "Neftalì" chiamava Mamadre), che aveva già un figlio di nove anni più vecchio, il fratellastro Rodolfo; aveva anche una sorella, di nome Laurita. Il giovane Neruda, soprannominato Neftalì dal secondo nome della madre, dimostrò un interesse per la scrittura e la letteratura avversato dal padre ma incoraggiato dalla futura vincitrice del Premio Nobel Gabriela Mistral, che fu sua insegnante durante il periodo di formazione scolastica. Il suo primo lavoro ufficiale come scrittore fu l'articolo "Entusiasmo y perseverancia", pubblicato ad appena 13 anni sul giornale locale "La Mañana" diretto dallo zio adottivo. Nel 1920 iniziò ad utilizzare per le sue pubblicazioni lo pseudonimo di Pablo Neruda, con cui è tutt'oggi pressoché esclusivamente conosciuto, in modo di poter scrivere poesie senza che il padre(il quale riteneva quest'arte un'attività poco "rispettabile") lo scoprisse.
L'anno successivo, il 1921, si trasferì a Santiago per studiare la lingua francese e con l'intenzione iniziale di diventare in seguito insegnante, idea ben presto abbandonata per la poesia.
Nel 1923 pubblicò il suo primo volume in versi, Crepusculario, che fu apprezzato da scrittori come Alone, Raúl Silva Castro e Pedro Prado, seguito, a distanza di un anno, da Veinte poemas de amor y una canción desesperada, una raccolta di poesie d'amore, di stile modernista, e di stile erotico, motivo che spinse alcuni a rifiutarlo. Con questa raccolta è stato riconosciuto e tuttora essa è una delle sue opere maggiormente apprezzate.
Gli incarichi diplomatici
Neruda si ritrovò in una condizione di povertà che lo costrinse ad accettare nel 1927 un incarico di console onorario nel Sudest asiatico, in Birmania, seguito da altri innumerevoli incarichi. Sull'isola di Giava si sposò con una impiegata di banca di nazionalità olandese, Maryka Antonieta Hagenaar Vogelzang.
Durante i suoi incarichi diplomatici, Neruda riuscì a comporre un gran numero di poesie, sperimentando varie forme poetiche tra cui quelle surrealistiche che si possono trovare nei primi due volumi di Residencia en la tierra che risalgono a questo periodo.
Prima di ritornare in Cile, ottenne altre destinazioni diplomatiche, dapprima a Buenos Aires, quindi in Spagna, a Barcellona, dove in seguito sostituì Gabriela Mistral nella carica di console a Madrid. In questo periodo conobbe altri scrittori come Rafael Alberti, Federico García Lorca e il poeta peruviano César Vallejo. Durante la permanenza nella capitale spagnola nacque la figlia Malva Marina Trinidad, affetta da idroencefalite di cui morì in tenera età. Sarà proprio lo stato di frustrante prostrazione ed incurabilità dell'unica figlia avuta dal poeta la causa vera dei dissapori sempre più insopprimibili che portarono ad una crisi familiare con la Hagenaar, che giunse al culmine a seguito della frequentazione di Neruda con Delia del Carril, argentina, di vent'anni più anziana di lui. Appassionata fautrice del comunismo, fu lei ad indirizzare l'iniziale tendenza anarco-individualista di Neruda verso gli ideali marxisti.
Il comunismo
L'abbraccio delle idee comuniste e di solidarietà civile trovò ulteriore humus per Neruda anche nella repulsione che provava nei confronti dei soprusi compiuti dai fascisti di Francisco Franco durante gli anni della guerra civile spagnola. La sua "svolta a sinistra" fu ancora più decisa dopo la barbara uccisione, da parte delle forze del generale Franco, di Federico Garcia Lorca, di cui era divenuto amico: l'appoggio di Neruda al fronte repubblicano, che si opponeva all'allora nascente dittatura franchista, fu totale, sia nei discorsi che negli scritti, come, ad esempio, la raccolta di poesie España en el corazón.
In seguito all'elezione a presidente del Cile di Pedro Aguirre Cerda nel 1938, di cui Neruda era stato sostenitore, il poeta ricevette l'incarico di far evacuare dai campi francesi i 2.000 esiliati spagnoli, per i quali organizzò un trasferimento via mare in Cile utilizzando la nave Winnipeg. In questa occasione gli venne rimproverato di aver privilegiato gli sfollati di fede comunista a scapito degli altri, anche se sembra che la scelta sulle persone da imbarcare fosse stata fatta principalmente dal presidente della repubblica spagnola in esilio, Juan Negrín. L'inconsistenza di queste rimostranze è poi ulteriormente dimostrata dal grande affetto con cui, ancora oggi, è largamente ricordato in Francia.
Tra il 1940 e il 1943 gli venne assegnato l'incarico di console generale a Città del Messico e fu in questi anni che divorziò dalla prima moglie, si sposò con Delia del Carril e apprese della morte della figlia, a soli 8 anni, nei territori occupati dei Paesi Bassi.
Neruda aiutò il pittore messicano David Alfaro Siqueiros, accusato di essere uno dei cospiratori coinvolti nel tentativo di omicidio di Leon Trotsky nel 1940, facendogli ottenere un visto di ingresso per il Cile e dandogli ospitalità. Siqueiros dipinse in quel periodo un murale nella scuola di Chillán.
Nel 1943, durante il viaggio di ritorno a casa, si fermò in Perù, visitò Machu Picchu, e rimase molto colpito dalla città degli Inca, che gli ispirò, nel 1945, la scrittura di Alturas de Macchu Picchu, un poema in dodici parti sulla colonizzazione spagnola. Lo stesso argomento ispirò anche Canto general, pubblicato nel 1950, che contiene fortissimi accenti polemici contro il cosiddetto imperialismo statunitense (di cui, tra l'altro, denunciò gli abusi di multinazionali come la Coca-Cola).
Negli anni successivi, espresse la sua ammirazione per l'Unione Sovietica - anche per il ruolo decisivo svolto nella definitiva sconfitta della Germania nazista - e per Stalin, a cui nel 1953 dedicò una composizione, in occasione della morte. Le rivelazioni successive sul culto della personalità coltivato dal leader sovietico e sulle purghe staliniste (a partire dal celebre discorso di Nikita Khruščёv, successore di Stalin, durante il XX congresso del partito comunista sovietico di Mosca del febbraio 1956) spinsero Neruda a cambiare opinione e a rinnegare l'ammirazione espressa in precedenza: nelle sue memorie manifestò il suo rammarico per aver contribuito alla creazione di un'immagine non reale di Stalin. Questo errore di valutazione lo portò a guardare con occhio diverso anche il comunismo cinese, che conobbe nel 1957, temendo la ripetizione degli stessi errori anche nei confronti di Mao Tse-Tung. Nonostante le disillusioni, Neruda rimase comunque sempre fedele alle sue convinzioni comuniste e fu criticato da molti detrattori che lo accusarono di non aver mai preso posizione a favore degli intellettuali dissidenti Boris Pasternak e Joseph Brodsky.
La politica in Cile
Il 4 marzo 1945 ottenne la sua prima nomina ufficiale come senatore in seno al partito comunista delle province nordorientali del Cile di Antofagasta e Tarapacá, situate nell'inospitale deserto di Atacama, e pochi mesi dopo prese la tessera del Partito Comunista cileno.
L'anno seguente, il candidato ufficiale del Partito Radicale cileno per le elezioni presidenziali, Gabriel González Videla, gli chiese di assumere la direzione della sua campagna elettorale. A questo incarico il poeta si dedicò con fervore, contribuendo alla sua nomina a presidente, ma rimanendo deluso per l'inaspettato voltafaccia di Videla nei confronti proprio del Partito comunista subito dopo le elezioni. Il punto di non ritorno nel rapporto tra Neruda e Videla fu la violenta repressione con cui quest'ultimo colpì i minatori in sciopero nella regione di Bío-Bío, a Lota, dell'ottobre 1947. I manifestanti vennero imprigionati in carceri militari e in campi di concentramento nei pressi della città di Pisagua. La disapprovazione di Neruda culminò nel drammatico discorso del 6 gennaio 1948 davanti al senato cileno, chiamato in seguito "Yo acuso", in cui lesse all'assemblea l'elenco dei minatori tenuti prigionieri.
L'esilio
La reazione di Videla fu l'emanazione di un ordine d'arresto contro Neruda, per sottrarsi al quale il poeta si vide costretto ad intraprendere un duro periodo - 13 mesi - di fuga, nascosto da amici e compagni. Inoltre, Videla promulgò anche la così detta "Ley de Defensa Permenente de la Democracia" (dai detrattori soprannominata invece "Ley maldita"), in base alla quale il Partito Comunista cileno venne dichiarato fuorilegge e oltre 26.000 iscritti vennero cancellati dalle liste elettorali, e i rappresentanti eletti, tra cui Neruda, vennero fatti decadere dalle cariche. Nel marzo 1949 riuscì a rifugiarsi in Argentina dopo un'avventurosa attraversata delle Ande, di cui raccontò nel discorso della cerimonia di consegna del Nobel.
Durante l'esilio argentino durato tre anni, conobbe a Buenos Aires Miguel Ángel Asturias, che ricopriva la carica di addetto culturale per il Guatemala e che riuscì a procurargli un passaporto grazie al quale poté abbandonare l'Argentina. Anche grazie all'aiuto di Pablo Picasso, Neruda riuscì ad arrivare a Parigi, compiendo un'apparizione a sorpresa al "Congresso Mondiale dei Partigiani della Pace", clamorosa in quanto, nel frattempo il governo cileno aveva continuato a negare che Neruda avesse lasciato il territorio natio.
Furono, quelli dell'esilio, anche anni di numerosi viaggi: in Europa, India, Cina, URSS e Messico. Proprio in Messico, Neruda fu colpito da un serio attacco di flebite, strascico delle lunghe costrizioni in luoghi molto angusti cui l'aveva obbligato la latitanza; durante il periodo di cure, conobbe Matilde Urrutia, una cantante cilena, con cui iniziò una relazione e che anni dopo sposò.
Durante il periodo messicano pubblicò il poema Canto General, iniziato anni prima in Cile, in cui descrisse storia, geografia, flora e fauna del Sudamerica. Una versione più breve del manoscritto era stata pubblicata già alcuni mesi prima, in Cile, sulla base dei testi lì lasciati, a cura del Partito Comunista (clandestino per via della citata "Ley de defensa").
Nel 1952, Neruda visse per un periodo in una villa messagli a disposizione da Edwin Cerio a Capri; tale permanenza venne in seguito rappresentata da Massimo Troisi nel film Il postino (1994) (con Philippe Noiret nelle vesti del poeta cileno, e diretto dal regista Michael Radford; sceneggiatura liberamente tratta dal romanzo Il postino di Neruda di Antonio Skarmeta).
Dopo il soggiorno a Capri, Neruda si spostò a Sant'Angelo d'Ischia, dove rimase dal gennaio alla fine di giugno del 1952.
Il ritorno in patria
Nel 1952, il governo del dittatore Videla era ormai al termine, colpito anche da numerosi scandali per corruzione, e il Partito Socialista presentò la candidatura a nuovo presidente di Salvador Allende, richiedendo contemporaneamente la presenza in patria del suo letterato più illustre al fine di avallarne al meglio l'investitura.
Neruda tornò in Cile in agosto, ritrovando provvisoriamente la moglie Delia del Carril, ma il matrimonio era ormai destinato al naufragio grazie anche alla nuova relazione iniziata in Messico. Di conseguenza, nel 1955, Delia lo lasciò per fare ritorno in Europa.
Tuttavia, l'abbandono di Delia non determinò per Neruda quello dell'impegno comunista. Neruda proseguì nel suo impegno politico, prese ad esempio posizione contro gli Stati Uniti durante la crisi dei missili di Cuba e per la guerra del Vietnam. Ciò gli attirò gli strali delle parti più conservatrici degli USA, e l'Associazione per la libertà della cultura, organizzazione dietro la quale in realtà si celava la CIA, cercò di minare in ogni modo la sua credibilità e la sua reputazione, citandone ad esempio le posizioni in merito al tentato assassinio di Trotsky del 1940. Questa campagna fu frenata solo nel 1964, quando fu ventilata l'ipotesi di insignire Neruda del Premio Nobel e l'unica candidatura alternativa era quella di Jean-Paul Sartre, personaggio ancora più inviso ai conservatori statunitensi.
Nel 1966 Neruda fu invitato a New York per una conferenza internazionale dell'associazione degli scrittori, ma Arthur Miller, organizzatore dell'evento, incontrò molte difficoltà e dovette fare notevoli pressioni sull'amministrazione Johnson sia per riuscire a fargli ottenere un visto, sia per la presenza di tanti altri letterati provenienti da oltre la cortina di ferro. Proprio per questi motivi, lo scrittore messicano Carlos Fuentes indicò successivamente il convegno come uno dei primi passi verso la fine della Guerra Fredda. A lavori conclusi, Neruda effettuò per la Biblioteca del Congresso registrazioni audio di alcune delle sue composizioni.
Durante il viaggio di ritorno in patria, Neruda fece una sosta in Perù, dove fu accolto con tutti gli onori dal presidente Fernando Belaúnde Terry, ma la visita fu mal vista da Cuba: in quegli anni i rapporti tra Perù e Cuba erano alquanto tesi a causa delle differenze politiche, Neruda fu accusato dagli intellettuali cubani di essere un revisionista al soldo degli Yankees e non poté recarsi sull'isola caraibica sino al 1968. Di ciò Neruda fu molto dispiaciuto tanto che nell'autobiografia Confesso che ho vissuto criticò l'atteggiamento degli intellettuali cubani, definendolo «bigotto» ed un «colpo alla schiena». Nel 1967, alla morte di Ernesto Che Guevara in Bolivia, Neruda scrisse molti articoli sulla perdita del "grande eroe della rivoluzione", dalla cui stima era del resto ricambiato, come testimonia la composizione, da parte di Guevara, di un piccolo saggio elogiativo sul libro di Neruda Canto General.
Gli ultimi anni
Nel 1970, Neruda fu indicato come uno dei candidati alla carica di presidente della repubblica cilena, ma si ritirò dalla competizione elettorale appoggiando nuovamente Allende e aiutandolo a divenire il primo presidente socialista democraticamente eletto in Cile. Per circa due anni e mezzo riprese allora la carriera diplomatica presso la sede di Parigi, che dovette però lasciare per motivi di salute.
Il 21 ottobre 1971, ottenne, terzo scrittore dell'America Latina dopo Gabriela Mistral nel 1945 e Miguel Ángel Asturias nel 1967, il Premio Nobel per la letteratura. Al suo primo ritorno in patria, l'anno successivo, venne trionfalmente accolto in una manifestazione presso lo stadio di Santiago.
Di questi anni sono anche le sue ultime pubblicazioni in vita, La espada encendida e Las piedras del cielo, edite durante il soggiorno parigino. Prima di morire assistette al disfacimento del governo democratico cileno e al colpo di stato del generale Augusto Pinochet dell'11 settembre nonché alla morte del presidente Allende, suo amico personale. Insediatasi la dittatura, i militari cominciarono a vessarlo con le perquisizioni ordinate dal generale golpista; durante una di queste, Neruda avrebbe detto ai militari «Guardatevi in giro, c'è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia». Mentre attendeva di poter espatriare in Messico, il poeta morì il 23 settembre 1973: ufficialmente per un cancro alla prostata, ma più probabilmente, secondo la recente testimonianza del suo autista e guardia del corpo, assassinato nella clinica santa Maria a Santiago (la stessa nella quale, il 22 gennaio 1982, fu assassinato il democristiano Eduardo Frei Montalva) mediante una misteriosa iniezione.
Il suo funerale fu uno dei primissimi momenti di opposizione alla dittatura, poiché avvenne nonostante la presenza ostile e intimidatoria dei militari a mitra spianato che guardavano a vista i partecipanti, come testimonia un filmato clandestino girato all'epoca. Fu, inoltre, un gesto di solidarietà e di ribellione contro l'ultimo sfregio nei confronti di Neruda, compiuto mentre giaceva nel letto d'ospedale: la devastazione, sempre per ordine di Pinochet, delle sue proprietà. La morte e le esequie di Neruda, chiamato nel libro "il Poeta", sono ricordate da Isabel Allende nell'ultima parte del romanzo La casa degli spiriti.
L'ultima moglie pubblicò postuma l'autobiografia su cui Neruda aveva lavorato sino al giorno prima di morire, suscitando il risentimento di Pinochet per le dure critiche contro la brutalità della dittatura. Anche di Matilde Urrutia venne pubblicata, nel 1986, un'autobiografia sul periodo trascorso con Neruda, dal titolo Mi vida junto a Pablo Neruda; in Cile, le opere di Neruda vennero riabilitate e rimesse in commercio nel 1990, dopo la caduta della dittatura.
Le tre abitazioni possedute da Neruda in Cile, La Chascona a Santiago, La Sebastiana a Valparaiso, e la Casa de Isla Negra sono oggi musei, gestiti dalla Fondazione Neruda.
Onorificenze
Oltre al Nobel, Neruda venne insignito nel 1953 del Premio Stalin per la Pace, onorificenza sovietica (che pochi anni dopo venne ridenominata Premio Lenin per la Pace, e con tale nome è più nota), e di una laurea honoris causa dall'Università di Oxford nel 1965.
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