di Leonardo Petrocelli
La sinistra europea è il grande malato immaginario del tempo presente. Immaginario non perché sia forte e in salute, vittima di una qualche nevrosi incapacitante che la confina scioccamente a letto, ma perché, in realtà, essa è defunta, esanime, stecchita. Si ingegna per rivendicare un ruolo e un destino che non le appartengono, blatera su un proprio ritorno in grande stile sulla scena, millanta praterie e galoppate future alla conquista della menti e dei cuori d’Europa, ma sono solo chili di trucco, quintali di fard scadente spalmati sulle gote esangui del cadavere. La sinistra s’immagina malata ma è morta.
Si prenda ad esempio il conflitto mediorientale nelle sue ultime declinazioni storiche e le relative forze in campo. Da una parte ci sono le orde dell’Isis, l’agente collettivo, mediatico e sanguinario del Caos. Poi c’è l’equivoco (eufemismo) blocco occidentale, con le petromonarchie del Golfo fiancheggiatrici dei jihadisti, il sempre serpeggiante Israele dietro le quinte, i turchi della nuova buffonata ottomana, gli europei servili e gli americani in testa, a fare da frontman alla farsa. E, infine, ci sono i russi, con Assad e gli iraniani, arroccati nell’unico fronte che l’Isis lo combatte davvero. Ora, a ben pensare, il conflitto è tutto interno a quelle che, novecentescamente, si potrebbero definire posizioni “di destra”: difficile immaginare la sinistra con i tagliagole e – se un barlume di ragione è ancora sopravvissuto nelle menti dei furono compagni – anche la pattuglia dell’imperialismo occidentale, degli americani produttori di armi e sganciatori di bombe intelligenti, non dovrebbe essere in cima alle preferenze. Rimane Putin che, sia detto per inciso, sarebbe la scelta giusta. Ma anche qui i rossi si defilano: lo Zar caccia le Ong, vieta la propaganda omosessuale, appoggia l’Iran teocratico che bandisce le calze a rete. E dunque? Dunque la sinistra traballa, viaggia senza un centro, senza un appiglio operativo, si liquefa e si disperde senza nemmeno poter più spendere la carta evergreen della pace e del dialogo (con chi? Con l’Isis?). In una parola, non c’è. Nello scontro fra fallaciani e putiniani, tra ultras dell’Occidente più bieco e sovranisti consapevoli, tra la propaganda della Santanchè e la controinformazione ragionata, il compagno fa tappezzeria. Vorrebbe aggrapparsi a Giulietto Chiesa, l’unico nome per lui spendibile, ma non può, perché il baffuto cronista è uomo troppo vicino al Cremlino e i compagni dell’Arci non approverebbero. Morale della favola: la condanna è al silenzio o alle speculazioni fuori tema, giusto per dare un cenno di vita fuori dal problema cruciale.
Si dirà, però, che questo è un ragionamento fuorviante, imbastito ad arte, e che altre sono le vere arene dello scontro. La sinistra, ci raccontano, è lì dove si combattono le battaglie per la casa (ai rom?), per la scuola (cioè la fabbrica dei bravi cittadini eurodemocratici), per l’università (vedi accanto, al doppio), per la cultura (idem, al cubo). La sinistra, ci raccontano ancora, è lì dove c’è il lavoro. La prima considerazione – fingendo di dimenticarci che il precariato in Italia l’ha introdotto proprio la sinistra col Pacchetto Treu – è che il lavoro non c’è più da un pezzo e non tanto per la crisi ma perché la meccanizzazione dei processi produttivi, organizzativi, cognitivi e gestionali ha progressivamente spazzato via la componente umana dalla filiera. È un dato che meriterebbe una analisi robusta ma apprestiamoci subito oltre perché l’obiezione è già dietro l’angolo: di là da tutti gli stravolgimenti in atto, qualcuno ancora lavora e la sinistra è lì dove si combatte per la difesa e/o l’aumento dei salari.
E qui ci tocca annoiarvi con una verità economica lapalissiana, difesa e sostenuta da qualunque economista non abbia preso la varicella il giorno in cui insegnavano i rudimenti macroeconomici all’università: a fronte di uno shock negativo proveniente dall’esterno si reagisce svalutando per aggiustare il valore della propria valuta in armonia con le mutate condizioni di mercato. E se non si può svalutare la moneta, perché magari il cambio è fisso, allora si svaluta il lavoro. La traduzione del concetto con le coordinate contemporanee non dovrebbe essere troppo difficile: la gabbia d’acciaio dell’euro ha dirottato il processo svalutativo sui salari. In altre parole, il tema della contrazione dei salari è legato a quello della moneta unica. E quali sono le posizioni in campo sull’argomento? Pronti al dejavu. Da una parte c’è la guardia pretoriana del potere usuraio, ci sono i difensori dell’euro per fede o sul campo, i governatori delle colonie mandati da Bruxelles. Dall’altra il solito fronte sovranista che dell’euro farebbe volentieri un ricco falò. Se ci pensate è la medesima contrapposizione dell’esempio precedente: Monti o Rajoy o Hollande o Renzi contro la Le Pen come prima avevamo la schiera euro-americana contro Putin. I fronti s’approssimano e, volendo, anche qui tutti de’ destra come sottolineerebbero i compagni veri, quelli tosti, che dal socialismo europeo prendono ogni giorno le distanze. Ma questi ultimi cosa pensano? Ancora una volta ci lasciano interdetti: blaterano di disuguaglianze (che sono l’effetto e non la causa), aggrediscono l’austerity e salvano l’euro, poi ci ripensano (come Fassina) e capovolgono la posizione. Ma mai fino in fondo. Insomma, o la sinistra gioca a fare la destra neoliberista o la confusione è totale. Per fortuna ci sono i migranti e la Tav su cui si può sempre dirottare la conversazione per scantonare da magre figure alla Tsipras, su cui abbiamo ampiamente ragionato altrove, o alla Podemos che aspettiamo al varo (e al varco) dell’ennesima, finta rivoluzione.
Epperò, per quanto osteggiati e ripudiati dai compagni tosti, gli Hollande e i Renzi sono comunque colonne dell’attuale centro-sinistra europeo. Che dunque, si obietterà, è ancora vivo ed al governo. Potremmo far quadrare il teorema semplicemente ricordando, come già fatto poche righe fa, la natura dell’azione politica di questi illustri signori, ma s’impone qui una digressione storica cui non desideriamo rinunciare. Da sempre, infatti, la sinistra è stata il motore ideale della modernità trionfante. Tutti i suoi dogmi ed i suoi miti di riferimento le appartengono di diritto: il progresso, lo sviluppo, l’uguaglianza, la centralità del lavoro, il contratto sociale, la laicità, le costituzioni, la democrazia rappresentativa e compagnia cantando. Ognuno di questi elementi ha contribuito alla distruzione dell’immaginario e delle strutture del mondo premoderno, per la gioia delle milizie imprenditoriali borghesi e del grande capitale che, finalmente, hanno potuto dilagare nelle selvagge praterie immanenti del mondo laico ed intellettualoide. Con grande stile, naturalmente, e con le vergogne ben protette della foglia di fico dei valori di cui sopra, quella che, in estrema sintesi, serviva a contrabbandare il nascente mondo dei banchieri come mondo delle democrazie e delle opportunità.
Il problema, ora, è che la foglia è volata via. Sono circa quarant’anni, infatti, che gli studiosi più avveduti – da Lyotard in poi – denunciano la “morte del moderno” cioè di tutto quel sistema ideale, culturale e politico che ne aveva mascherato l’azione attraverso le grandi narrazioni degli ultimi secoli e che oggi sopravvive, appunto, solo in quei “necrologi degli intellettuali” (Maffesoli), rimasti aggrappati alle vestigia del tempo che fu. Banalizzando, la sinistra ha servito la marcia della Storia e delle sue forze sovversive, presumendo di cavalcarla, ma è stata disarcionata dalla torsione repentina di un Potere che ormai declina il dominio oligarchico, usuraio e finanziario in un senso tutto post-moderno, senza veli ideologici né corpi intermedi, senza maschere democratiche né inni repubblicani, e lasciandosi dietro a marcire il cadavere della modernità. E con esso quello della sinistra, novecentescamente invecchiata, che ne aveva agevolato l’ascesa.
E, dunque, cosa sono i Renzi e gli Hollande? Sono le larve, l’ultimo parto del socialismo che fu, prima del sospiro finale. In costante omaggio alla vecchia massima di Spengler (“la sinistra fa sempre il gioco del grande capitale, a volte perfino senza volerlo”), mai venuta meno, il patto col demone è stato reiterato, ma questa volta l’accordo è al ribasso cioè senza nemmeno la grancassa dei valori e dei princìpi a mimetizzare la livrea della servitù. Qui il servilismo si estrinseca allo stato puro: il socialismo europeo come prima colonna dell’oligarchia finanziaria e dell’imperialismo americano. Per soprammercato, la versione italica ha una marcia in più rispetto alle consorelle europee. Come ha acutamente notato il sociologo Marco Revelli quello di Renzi è un vero e proprio populismo ma più pericoloso degli altri in virtù di una malcelata logica di scambio: “Renzi raccoglie consensi con il suo illusionismo e li riversa sulle politiche gradite all’Europa come il Jobs Act, lo Sblocca Italia e le privatizzazioni. È la ‘Troika interiorizzata’, forse l’unico caso al mondo di populismo che solidarizza a pieno con il potere e lo aiuta”. L’Italia, si sa, è sempre un fertile laboratorio politico e chissà che, ancora una volta, non abbia tirato fuori dal cilindro l’ennesimo brand pronto all’esportazione su larga scala.
Non è finita qui, comunque. Poiché le disgrazie non vengono mai sole, c’è infatti una seconda larva a dimenarsi sul palcoscenico, se possibile più ributtante della prima. È quella della sinistra dei diritti individuali, dei pelosi pietismi umanitari, delle emergenze solidali a comando, dei Vendola e delle Boldrini, che fa lo stesso gioco della precedente, ma in maniera diversa. Questa volta l’aiuto non giunge tanto sul piano delle politiche neoliberiste e monetarie, quanto piuttosto esso si dipana sul versante della disgregazione delle identità. Il mondialismo, come noto, altro non è che una gigantesca macchina organizzata per livellare scientificamente ogni specificità spirituale, etnica, culturale, di genere, politica, artigiana, gastronomica, linguistica. Si tende al governo unico, al sistema di non-valori unico, alla lingua unica, alla religione unica (e il vago umanesimo del Bergoglio, si badi, è perfetto allo scopo). In sostanza, all’Uomo Unico, cioè un essere totalmente sradicato e culturalmente componibile, imbrigliato in una complessa articolazione di protesi digitali e, cosa più importante, integralmente controllabile.
Questo scenario orwelliano, lo sappiamo, è ancora parecchi passi più in là delle cronache contemporanee, ma il processo di transizione procede a tappe forzate tra meticciato imposto, dilagare del gender e delirio tecnologico travestito da residuo di progresso. Ciò nonostante, il compito è arduo, perfino per chi sta al volante, e ogni forma di aiuto si rivela ben accetta. E così, scorto un posto vuoto nell’orchestra mondialista, la sinistra boldriniana s’è accomodata da tempo per suonare i violini del Potere con grande perizia. Sa quando accelerare e quando fermarsi. Sa che deve aggredire i russi e gli iraniani sulla questione femminile ed omosessuale, ma sa, altrettanto bene, di non dover sfiorare i ben peggiori sauditi, alleati del padrone. Sa che può dileggiare l’austerity, ma senza discutere l’euro. Sa che può armeggiare con le leve della cultura, così come si fa con le fronde degli alberi, ma a patto che esse non conducano al disvelamento delle radici del problema.
Come in ogni performance che si rispetti, non c’è spazio per improvvisazioni. Il direttore dirige con la sua bacchetta lorda di sangue e la larva suona. Anzi, le larve suonano, felici di esserci ancora. Ed ogni cosa sarebbe al suo posto nel teatro degli orrori se non fosse per un unico, piccolo problema: il pubblico in sala sta iniziando a fischiare. Un lento brusio, sorto dal coraggio e dalla consapevolezza di pochi, che però rischia di tramutarsi in un controcanto soverchiante. Forse non oggi, forse non domani, ma dopodomani sì. E allora, guardateli bene quelli che sono sul palco: il direttore d’orchestra, i musicisti, le larve. Suonano e sorridono, è vero. Ma tremano. Eccome se tremano.
Si prenda ad esempio il conflitto mediorientale nelle sue ultime declinazioni storiche e le relative forze in campo. Da una parte ci sono le orde dell’Isis, l’agente collettivo, mediatico e sanguinario del Caos. Poi c’è l’equivoco (eufemismo) blocco occidentale, con le petromonarchie del Golfo fiancheggiatrici dei jihadisti, il sempre serpeggiante Israele dietro le quinte, i turchi della nuova buffonata ottomana, gli europei servili e gli americani in testa, a fare da frontman alla farsa. E, infine, ci sono i russi, con Assad e gli iraniani, arroccati nell’unico fronte che l’Isis lo combatte davvero. Ora, a ben pensare, il conflitto è tutto interno a quelle che, novecentescamente, si potrebbero definire posizioni “di destra”: difficile immaginare la sinistra con i tagliagole e – se un barlume di ragione è ancora sopravvissuto nelle menti dei furono compagni – anche la pattuglia dell’imperialismo occidentale, degli americani produttori di armi e sganciatori di bombe intelligenti, non dovrebbe essere in cima alle preferenze. Rimane Putin che, sia detto per inciso, sarebbe la scelta giusta. Ma anche qui i rossi si defilano: lo Zar caccia le Ong, vieta la propaganda omosessuale, appoggia l’Iran teocratico che bandisce le calze a rete. E dunque? Dunque la sinistra traballa, viaggia senza un centro, senza un appiglio operativo, si liquefa e si disperde senza nemmeno poter più spendere la carta evergreen della pace e del dialogo (con chi? Con l’Isis?). In una parola, non c’è. Nello scontro fra fallaciani e putiniani, tra ultras dell’Occidente più bieco e sovranisti consapevoli, tra la propaganda della Santanchè e la controinformazione ragionata, il compagno fa tappezzeria. Vorrebbe aggrapparsi a Giulietto Chiesa, l’unico nome per lui spendibile, ma non può, perché il baffuto cronista è uomo troppo vicino al Cremlino e i compagni dell’Arci non approverebbero. Morale della favola: la condanna è al silenzio o alle speculazioni fuori tema, giusto per dare un cenno di vita fuori dal problema cruciale.
Si dirà, però, che questo è un ragionamento fuorviante, imbastito ad arte, e che altre sono le vere arene dello scontro. La sinistra, ci raccontano, è lì dove si combattono le battaglie per la casa (ai rom?), per la scuola (cioè la fabbrica dei bravi cittadini eurodemocratici), per l’università (vedi accanto, al doppio), per la cultura (idem, al cubo). La sinistra, ci raccontano ancora, è lì dove c’è il lavoro. La prima considerazione – fingendo di dimenticarci che il precariato in Italia l’ha introdotto proprio la sinistra col Pacchetto Treu – è che il lavoro non c’è più da un pezzo e non tanto per la crisi ma perché la meccanizzazione dei processi produttivi, organizzativi, cognitivi e gestionali ha progressivamente spazzato via la componente umana dalla filiera. È un dato che meriterebbe una analisi robusta ma apprestiamoci subito oltre perché l’obiezione è già dietro l’angolo: di là da tutti gli stravolgimenti in atto, qualcuno ancora lavora e la sinistra è lì dove si combatte per la difesa e/o l’aumento dei salari.
E qui ci tocca annoiarvi con una verità economica lapalissiana, difesa e sostenuta da qualunque economista non abbia preso la varicella il giorno in cui insegnavano i rudimenti macroeconomici all’università: a fronte di uno shock negativo proveniente dall’esterno si reagisce svalutando per aggiustare il valore della propria valuta in armonia con le mutate condizioni di mercato. E se non si può svalutare la moneta, perché magari il cambio è fisso, allora si svaluta il lavoro. La traduzione del concetto con le coordinate contemporanee non dovrebbe essere troppo difficile: la gabbia d’acciaio dell’euro ha dirottato il processo svalutativo sui salari. In altre parole, il tema della contrazione dei salari è legato a quello della moneta unica. E quali sono le posizioni in campo sull’argomento? Pronti al dejavu. Da una parte c’è la guardia pretoriana del potere usuraio, ci sono i difensori dell’euro per fede o sul campo, i governatori delle colonie mandati da Bruxelles. Dall’altra il solito fronte sovranista che dell’euro farebbe volentieri un ricco falò. Se ci pensate è la medesima contrapposizione dell’esempio precedente: Monti o Rajoy o Hollande o Renzi contro la Le Pen come prima avevamo la schiera euro-americana contro Putin. I fronti s’approssimano e, volendo, anche qui tutti de’ destra come sottolineerebbero i compagni veri, quelli tosti, che dal socialismo europeo prendono ogni giorno le distanze. Ma questi ultimi cosa pensano? Ancora una volta ci lasciano interdetti: blaterano di disuguaglianze (che sono l’effetto e non la causa), aggrediscono l’austerity e salvano l’euro, poi ci ripensano (come Fassina) e capovolgono la posizione. Ma mai fino in fondo. Insomma, o la sinistra gioca a fare la destra neoliberista o la confusione è totale. Per fortuna ci sono i migranti e la Tav su cui si può sempre dirottare la conversazione per scantonare da magre figure alla Tsipras, su cui abbiamo ampiamente ragionato altrove, o alla Podemos che aspettiamo al varo (e al varco) dell’ennesima, finta rivoluzione.
Epperò, per quanto osteggiati e ripudiati dai compagni tosti, gli Hollande e i Renzi sono comunque colonne dell’attuale centro-sinistra europeo. Che dunque, si obietterà, è ancora vivo ed al governo. Potremmo far quadrare il teorema semplicemente ricordando, come già fatto poche righe fa, la natura dell’azione politica di questi illustri signori, ma s’impone qui una digressione storica cui non desideriamo rinunciare. Da sempre, infatti, la sinistra è stata il motore ideale della modernità trionfante. Tutti i suoi dogmi ed i suoi miti di riferimento le appartengono di diritto: il progresso, lo sviluppo, l’uguaglianza, la centralità del lavoro, il contratto sociale, la laicità, le costituzioni, la democrazia rappresentativa e compagnia cantando. Ognuno di questi elementi ha contribuito alla distruzione dell’immaginario e delle strutture del mondo premoderno, per la gioia delle milizie imprenditoriali borghesi e del grande capitale che, finalmente, hanno potuto dilagare nelle selvagge praterie immanenti del mondo laico ed intellettualoide. Con grande stile, naturalmente, e con le vergogne ben protette della foglia di fico dei valori di cui sopra, quella che, in estrema sintesi, serviva a contrabbandare il nascente mondo dei banchieri come mondo delle democrazie e delle opportunità.
Il problema, ora, è che la foglia è volata via. Sono circa quarant’anni, infatti, che gli studiosi più avveduti – da Lyotard in poi – denunciano la “morte del moderno” cioè di tutto quel sistema ideale, culturale e politico che ne aveva mascherato l’azione attraverso le grandi narrazioni degli ultimi secoli e che oggi sopravvive, appunto, solo in quei “necrologi degli intellettuali” (Maffesoli), rimasti aggrappati alle vestigia del tempo che fu. Banalizzando, la sinistra ha servito la marcia della Storia e delle sue forze sovversive, presumendo di cavalcarla, ma è stata disarcionata dalla torsione repentina di un Potere che ormai declina il dominio oligarchico, usuraio e finanziario in un senso tutto post-moderno, senza veli ideologici né corpi intermedi, senza maschere democratiche né inni repubblicani, e lasciandosi dietro a marcire il cadavere della modernità. E con esso quello della sinistra, novecentescamente invecchiata, che ne aveva agevolato l’ascesa.
E, dunque, cosa sono i Renzi e gli Hollande? Sono le larve, l’ultimo parto del socialismo che fu, prima del sospiro finale. In costante omaggio alla vecchia massima di Spengler (“la sinistra fa sempre il gioco del grande capitale, a volte perfino senza volerlo”), mai venuta meno, il patto col demone è stato reiterato, ma questa volta l’accordo è al ribasso cioè senza nemmeno la grancassa dei valori e dei princìpi a mimetizzare la livrea della servitù. Qui il servilismo si estrinseca allo stato puro: il socialismo europeo come prima colonna dell’oligarchia finanziaria e dell’imperialismo americano. Per soprammercato, la versione italica ha una marcia in più rispetto alle consorelle europee. Come ha acutamente notato il sociologo Marco Revelli quello di Renzi è un vero e proprio populismo ma più pericoloso degli altri in virtù di una malcelata logica di scambio: “Renzi raccoglie consensi con il suo illusionismo e li riversa sulle politiche gradite all’Europa come il Jobs Act, lo Sblocca Italia e le privatizzazioni. È la ‘Troika interiorizzata’, forse l’unico caso al mondo di populismo che solidarizza a pieno con il potere e lo aiuta”. L’Italia, si sa, è sempre un fertile laboratorio politico e chissà che, ancora una volta, non abbia tirato fuori dal cilindro l’ennesimo brand pronto all’esportazione su larga scala.
Non è finita qui, comunque. Poiché le disgrazie non vengono mai sole, c’è infatti una seconda larva a dimenarsi sul palcoscenico, se possibile più ributtante della prima. È quella della sinistra dei diritti individuali, dei pelosi pietismi umanitari, delle emergenze solidali a comando, dei Vendola e delle Boldrini, che fa lo stesso gioco della precedente, ma in maniera diversa. Questa volta l’aiuto non giunge tanto sul piano delle politiche neoliberiste e monetarie, quanto piuttosto esso si dipana sul versante della disgregazione delle identità. Il mondialismo, come noto, altro non è che una gigantesca macchina organizzata per livellare scientificamente ogni specificità spirituale, etnica, culturale, di genere, politica, artigiana, gastronomica, linguistica. Si tende al governo unico, al sistema di non-valori unico, alla lingua unica, alla religione unica (e il vago umanesimo del Bergoglio, si badi, è perfetto allo scopo). In sostanza, all’Uomo Unico, cioè un essere totalmente sradicato e culturalmente componibile, imbrigliato in una complessa articolazione di protesi digitali e, cosa più importante, integralmente controllabile.
Questo scenario orwelliano, lo sappiamo, è ancora parecchi passi più in là delle cronache contemporanee, ma il processo di transizione procede a tappe forzate tra meticciato imposto, dilagare del gender e delirio tecnologico travestito da residuo di progresso. Ciò nonostante, il compito è arduo, perfino per chi sta al volante, e ogni forma di aiuto si rivela ben accetta. E così, scorto un posto vuoto nell’orchestra mondialista, la sinistra boldriniana s’è accomodata da tempo per suonare i violini del Potere con grande perizia. Sa quando accelerare e quando fermarsi. Sa che deve aggredire i russi e gli iraniani sulla questione femminile ed omosessuale, ma sa, altrettanto bene, di non dover sfiorare i ben peggiori sauditi, alleati del padrone. Sa che può dileggiare l’austerity, ma senza discutere l’euro. Sa che può armeggiare con le leve della cultura, così come si fa con le fronde degli alberi, ma a patto che esse non conducano al disvelamento delle radici del problema.
Come in ogni performance che si rispetti, non c’è spazio per improvvisazioni. Il direttore dirige con la sua bacchetta lorda di sangue e la larva suona. Anzi, le larve suonano, felici di esserci ancora. Ed ogni cosa sarebbe al suo posto nel teatro degli orrori se non fosse per un unico, piccolo problema: il pubblico in sala sta iniziando a fischiare. Un lento brusio, sorto dal coraggio e dalla consapevolezza di pochi, che però rischia di tramutarsi in un controcanto soverchiante. Forse non oggi, forse non domani, ma dopodomani sì. E allora, guardateli bene quelli che sono sul palco: il direttore d’orchestra, i musicisti, le larve. Suonano e sorridono, è vero. Ma tremano. Eccome se tremano.
http://ladagadinchiostro.com/2015/12/28/la-sinistra-europea-e-morta-restano-le-larve/
fonte: alfredodecclesia.blogspot.it
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