La "mutazione antropologica"
Alla luce del dibattito che seguiamo con piacere sul blog http://www.caprarola.com/, aggiungiamo un punto di vista che ci è sembrato interessante. Già un grande pensatore italiano, Pier Paolo Pasolini, aveva parlato nei suoi scritti di una "mutazione antropologica" degli italiani: una mutazione che avveniva negli anni Sessanta, nel periodo del boom economico e dell'avvento dei mezzi di comunicazione di massa che avevano letteralmente trasformato gli usi e i costumi degli italiani.
Oggi questo tema si arricchisce di nuove prospettive, sotto il faro a volte accecante del "Ruby Gate" che sembra accendere negli italiani passioni contrastanti. Pubblichiamo pertanto questo interessante articolo tratto dalla rivista settimanale Left.
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Tutto cominciò al (e col) “Drive in”. Sì, esattamente, proprio quello. Naturalmente, non un generico cinema all’aperto fruibile dai seggiolini della propria auto ma il programma televisivo di Antonio Ricci che cominciò ad andare in onda nell’anno di grazia (per così dire…) 1983. Suvvia! Ma si può attribuire tanta rilevanza a (addirittura) un “programma tv”, come dicono alcuni studiosi con obiezioni di cui tenere conto ma anche, con tutt’altri obiettivi, vari interessati e pelosi difensori dello status quo politico? Certo che sì, se si vive, in questo periodo storico, nell’“anomalia Italia”, come viene giudicata dal consesso internazionale delle altre nazioni occidentali, in possesso anche loro di qualche vizio, naturalmente, ma nelle quali l’onnipotenza del combinato disposto politica-mass media non risulta comparabile, né tanto meno così dirompente sotto il profilo degli effetti sulla vita pubblica.
Negli ultimissimi anni, d’altronde, sono giunte diverse riflessioni di qualità (da quella di Nicola Lagioia a quelle di Luca Mastrantonio e Francesco Bonami, al romanzo di Carlo D’Amicis, La battuta perfetta) sul mondo della neotelevisione (copyright Umberto Eco) di matrice commerciale e su quell’autentica “controrivoluzione televisiva” che è stato “Drive in”, il programma che ci ha scaraventato, attraverso il tubo catodico, negli anni Ottanta del montante neoliberismo, accompagnando l’involuzione italiana tra “ragazze fast food” e macchiette da neocommedia dell’arte reinventate in chiave, usiamo quest’espressione, “postmoderna”. Il tutto detto, peraltro, lo vogliamo specificare, senza particolari nostalgie nei confronti della vecchia tv in bianco e nero di Ettore Bernabei, che sicuramente più di una virtù l’aveva, ma era irrimediabilmente connotata dalla propria epoca e da un certo marcato orientamento politico.
Riflettere su questa fase della vita nazionale e sulla dimensione culturale e antropologica di quello che, da tempo, chiamiamo comunemente “berlusconismo”, ci impone quindi di analizzare innanzitutto la centralità della televisione nel riplasmare l’immaginario e la vita materiale (ovvero, in primis, consumistica) degli italiani, checché ne dicano le geremiadi di coloro secondo i quali questa sarebbe una “banalizzazione”, perché “non si può ridurre tutto alle tv”, e gli individui “possono scegliere” cosa guardare sul piccolo schermo (obiezione fintamente ispirata al pluralismo di mercato), e via proseguendo.
Peccato, però, omissione colpevole di tutte queste tesi ad maiorem gloriam dell’oligopolio tv esistente, che la realtà sia quella di un Paese per il quale le ricerche di un linguista autorevole come Tullio De Mauro mostrano la preponderanza del tubo catodico quale unica finestra informativa a disposizione di una parte significativa dei nostri connazionali, un tempo “masse”, oggetto prediletto dei tentativi di egemonia culturale del Partito comunista italiano e delle forze della sinistra storica, e oggi, mutatis mutandis, postmoderni ceti di più difficile e varia definizione sociologica, sottoposti invece all’egemonia sottoculturale di Alfonso Signorini e Maria De Filippi e dei vari reality. Un Paese nel quale la moneta cattiva (cattivissima) dell’iperrealtà, su cui si sono variamente esercitati diversi pensatori post-strutturalisti (a partire dal ben noto Jean Baudrillard), ha scacciato ignominiosamente quella buona del riconoscimento della realtà e dell’identificazione precisa dei rapporti materiali vigenti e ci ha scaraventati all’interno di una sorta di triste Second Life, grattando la superficie della quale - fatta di ricchi premi e cotillon, di “sottocultura dell’aperitivo”, di vincite (virtuali e anelatissime) alle lotterie istantanee, e di corpi femminili denudati - ci sono il grigiore e l’opacità dell’epoca delle passioni tristi, come le ha magistralmente definite il filosofo e psicanalista franco-argentino Miguel Benasayag.
Di questo mondo artificiale, arrivato dopo la stagione delle passioni calde degli anni Sessanta e Settanta (a volte discutibili ma intrise di punte di partecipazione mai più raggiunte), il programma tv “Drive in” è stato il manifesto programmatico anticipatore, quello contenente in nuce tutti i pilastri dell’egemonia sottoculturale che sarebbe stata diffusa nel Paese voglioso di disimpegno, di edonismo e di occuparsi solo dei fatti propri (ricordate “il privato è bello” o l’invito all’arricchimento senza sensi di colpa, e con ogni mezzo, rivolto da Margaret Thatcher ai sudditi di sua maestà britannica?). Un’egemonia gramsciana davvero in senso filologico - absit iniuria verbis - volta a conquistare i cuori e le menti a un progetto culturale e politico. E questa egemonia si è così irresistibilmente dispiegata mediante un micidiale combinato disposto di gossip, tv trash, sport, divertimento, infotainment - la fusione di informazione ed entertainment, che induce a porsi molte domande sull’attendibilità delle news che ci vengono dispensate sotto forma di giornalismo “oggettivo” (basti pensare a cosa è diventata, per citare un esempio, l’ex ammiraglia dell’informazione pubblica, il Tg1 minzoliniano) -, consumismo privo di freni inibitori, mercificazione del corpo femminile (che al maschio italiano medio, Homo voyeur, piace tanto, e che anche il programma della De Filippi distribuisce a piene mani sotto forma di procaci “corteggiatrici”; perché, come noto, nel bestiario televisivo non ci sono soltanto le veline…), e… politica. Per l’appunto, la composita e articolatissima strategia di egemonia sottoculturale, che risponde ad assai precisi interessi economici e di potere, e rappresenta una declinazione italiota (un po’ “brianzola” e un po’ “all’amatriciana”) della “rivoluzione conservatrice” e del radicalismo neocon impostosi negli anni Ottanta a partire dal mondo anglosassone.
Negli ultimissimi anni, d’altronde, sono giunte diverse riflessioni di qualità (da quella di Nicola Lagioia a quelle di Luca Mastrantonio e Francesco Bonami, al romanzo di Carlo D’Amicis, La battuta perfetta) sul mondo della neotelevisione (copyright Umberto Eco) di matrice commerciale e su quell’autentica “controrivoluzione televisiva” che è stato “Drive in”, il programma che ci ha scaraventato, attraverso il tubo catodico, negli anni Ottanta del montante neoliberismo, accompagnando l’involuzione italiana tra “ragazze fast food” e macchiette da neocommedia dell’arte reinventate in chiave, usiamo quest’espressione, “postmoderna”. Il tutto detto, peraltro, lo vogliamo specificare, senza particolari nostalgie nei confronti della vecchia tv in bianco e nero di Ettore Bernabei, che sicuramente più di una virtù l’aveva, ma era irrimediabilmente connotata dalla propria epoca e da un certo marcato orientamento politico.
Riflettere su questa fase della vita nazionale e sulla dimensione culturale e antropologica di quello che, da tempo, chiamiamo comunemente “berlusconismo”, ci impone quindi di analizzare innanzitutto la centralità della televisione nel riplasmare l’immaginario e la vita materiale (ovvero, in primis, consumistica) degli italiani, checché ne dicano le geremiadi di coloro secondo i quali questa sarebbe una “banalizzazione”, perché “non si può ridurre tutto alle tv”, e gli individui “possono scegliere” cosa guardare sul piccolo schermo (obiezione fintamente ispirata al pluralismo di mercato), e via proseguendo.
Peccato, però, omissione colpevole di tutte queste tesi ad maiorem gloriam dell’oligopolio tv esistente, che la realtà sia quella di un Paese per il quale le ricerche di un linguista autorevole come Tullio De Mauro mostrano la preponderanza del tubo catodico quale unica finestra informativa a disposizione di una parte significativa dei nostri connazionali, un tempo “masse”, oggetto prediletto dei tentativi di egemonia culturale del Partito comunista italiano e delle forze della sinistra storica, e oggi, mutatis mutandis, postmoderni ceti di più difficile e varia definizione sociologica, sottoposti invece all’egemonia sottoculturale di Alfonso Signorini e Maria De Filippi e dei vari reality. Un Paese nel quale la moneta cattiva (cattivissima) dell’iperrealtà, su cui si sono variamente esercitati diversi pensatori post-strutturalisti (a partire dal ben noto Jean Baudrillard), ha scacciato ignominiosamente quella buona del riconoscimento della realtà e dell’identificazione precisa dei rapporti materiali vigenti e ci ha scaraventati all’interno di una sorta di triste Second Life, grattando la superficie della quale - fatta di ricchi premi e cotillon, di “sottocultura dell’aperitivo”, di vincite (virtuali e anelatissime) alle lotterie istantanee, e di corpi femminili denudati - ci sono il grigiore e l’opacità dell’epoca delle passioni tristi, come le ha magistralmente definite il filosofo e psicanalista franco-argentino Miguel Benasayag.
Di questo mondo artificiale, arrivato dopo la stagione delle passioni calde degli anni Sessanta e Settanta (a volte discutibili ma intrise di punte di partecipazione mai più raggiunte), il programma tv “Drive in” è stato il manifesto programmatico anticipatore, quello contenente in nuce tutti i pilastri dell’egemonia sottoculturale che sarebbe stata diffusa nel Paese voglioso di disimpegno, di edonismo e di occuparsi solo dei fatti propri (ricordate “il privato è bello” o l’invito all’arricchimento senza sensi di colpa, e con ogni mezzo, rivolto da Margaret Thatcher ai sudditi di sua maestà britannica?). Un’egemonia gramsciana davvero in senso filologico - absit iniuria verbis - volta a conquistare i cuori e le menti a un progetto culturale e politico. E questa egemonia si è così irresistibilmente dispiegata mediante un micidiale combinato disposto di gossip, tv trash, sport, divertimento, infotainment - la fusione di informazione ed entertainment, che induce a porsi molte domande sull’attendibilità delle news che ci vengono dispensate sotto forma di giornalismo “oggettivo” (basti pensare a cosa è diventata, per citare un esempio, l’ex ammiraglia dell’informazione pubblica, il Tg1 minzoliniano) -, consumismo privo di freni inibitori, mercificazione del corpo femminile (che al maschio italiano medio, Homo voyeur, piace tanto, e che anche il programma della De Filippi distribuisce a piene mani sotto forma di procaci “corteggiatrici”; perché, come noto, nel bestiario televisivo non ci sono soltanto le veline…), e… politica. Per l’appunto, la composita e articolatissima strategia di egemonia sottoculturale, che risponde ad assai precisi interessi economici e di potere, e rappresenta una declinazione italiota (un po’ “brianzola” e un po’ “all’amatriciana”) della “rivoluzione conservatrice” e del radicalismo neocon impostosi negli anni Ottanta a partire dal mondo anglosassone.
Il tutto ha così prodotto un’operazione di manipolazione fortissima dell’immaginario, portato naturaliter in una direzione politica di destra. Perché, attraverso il modello di televisione commerciale dilagato nel Paese - nel quale è confluita anche, rovesciata di segno, una strumentazione culturale proveniente dalla migliore sinistra degli anni Sessanta e Settanta (a partire dai situazionisti) - e per il mezzo di un umorismo “cortigiano” e “di regime” (come nel caso di “Striscia la notizia”), si è accompagnata e accelerata la metamorfosi in negativo dell’Italia, a suon di esaltazione della peggiore religione dei consumi, dell’individualismo più spinto e dell’egoismo sociale.
Ecco perché le indubbie difficoltà politiche che sta vivendo il berlusconismo, autobiografia della nazione postdemocratica, non preludono affatto a un suo superamento culturale. I solchi scavati in questi anni dalla peculiare “versione di Silvio” di un fenomeno planetario (il neoliberalismo) sono davvero profondi, e si sono saldati con alcuni tratti negativi endemici e di lunga durata dell’antropologia italica. La narrazione berlusconiana ha toccato le corde, già sensibili, di una parte ampia del Paese - anche perché, in un gioco di rimandi continuo, al suo successo non è estraneo il ripetere, amplificato, all’uditorio di ciò che gli ascoltatori, anzi i telespettatori, vogliono sentirsi dire. E la transizione infinita che stiamo vivendo da decenni ormai non aiuta di certo il rinnovamento culturale.
Tutto è perduto, allora? No, di certo: pessimismo della ragione ma anche e sempre ottimismo della volontà. E, dunque, occorre moltiplicare tutte le operazioni culturali di “decostruzione”, di analisi e disvelamento dei meccanismi che stanno dietro il successo e le finalità autentiche di questa ideologia sottoculturale (innanzitutto televisiva, perché, in tante sue trasmissioni, il piccolo schermo è, giustappunto, il vero oppio postmoderno dei popoli). In attesa che la sinistra ricostruisca un progetto culturale e politico all’altezza dell’età dei pensieri apparentemente deboli, e in verità, al solito, semplicisticamente fortissimi della destra.
Ecco perché le indubbie difficoltà politiche che sta vivendo il berlusconismo, autobiografia della nazione postdemocratica, non preludono affatto a un suo superamento culturale. I solchi scavati in questi anni dalla peculiare “versione di Silvio” di un fenomeno planetario (il neoliberalismo) sono davvero profondi, e si sono saldati con alcuni tratti negativi endemici e di lunga durata dell’antropologia italica. La narrazione berlusconiana ha toccato le corde, già sensibili, di una parte ampia del Paese - anche perché, in un gioco di rimandi continuo, al suo successo non è estraneo il ripetere, amplificato, all’uditorio di ciò che gli ascoltatori, anzi i telespettatori, vogliono sentirsi dire. E la transizione infinita che stiamo vivendo da decenni ormai non aiuta di certo il rinnovamento culturale.
Tutto è perduto, allora? No, di certo: pessimismo della ragione ma anche e sempre ottimismo della volontà. E, dunque, occorre moltiplicare tutte le operazioni culturali di “decostruzione”, di analisi e disvelamento dei meccanismi che stanno dietro il successo e le finalità autentiche di questa ideologia sottoculturale (innanzitutto televisiva, perché, in tante sue trasmissioni, il piccolo schermo è, giustappunto, il vero oppio postmoderno dei popoli). In attesa che la sinistra ricostruisca un progetto culturale e politico all’altezza dell’età dei pensieri apparentemente deboli, e in verità, al solito, semplicisticamente fortissimi della destra.
fonte: selcaprarola.blogspot.it
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