mercoledì 30 aprile 2014

colori dominanti


qualcosa è cambiato



« Mi fai venire voglia di essere un uomo migliore »

(Melvin a Carol)

As Good as It Gets è un film del 1997, diretto da James L. Brooks e interpretato da Jack Nicholson e Helen Hunt. Entrambi gli attori protagonisti vinsero il Premio Oscar. Il film occupa il posto numero 140 de "I 500 Film più Grandi di Tutti i Tempi" (The 500 Greatest Movies of All Time) della rivista Empire.

Trama

Melvin Udall è un affermato scrittore di romanzi rosa che vive a New York; soffre di disturbo ossessivo-compulsivo, offende e umilia costantemente gli altri a causa del suo pessimo carattere, è un misantropo razzista e non ama molto neri, gay, ebrei, vecchiette e cani. Simon, il suo vicino di casa gay, è un pittore che subisce un'aggressione in casa e, per pagare l'assistenza sanitaria ha dilapidato tutto il suo patrimonio e, durante la convalescenza, è costretto ad affidare il suo amato cagnolino Verdell a Melvin. Carol è una ragazza single, madre di un bambino debolissimo di salute, che fa la cameriera in un locale dove Melvin va a mangiare ogni giorno portandosi dietro posate di plastica per la sua paura dei germi.

Un giorno Carol è costretta a rinunciare al lavoro per assistere suo figlio in malattia, ma questo fatto stravolge le abitudini di Melvin. Per risolvere il problema, lo scrittore invia a casa di Carol il suo medico personale con l'ordine di non badare a spese e fare tutto il possibile per far guarire il bambino in modo che Carol possa tornare a servirgli il pranzo e a sopportare le sue cattiverie. Intanto Simon è stato sfrattato e chiede a Melvin di ospitarlo nel suo appartamento.

Simon, che dopo l'aggressione non riesce più a dipingere, viene convinto dalla sua ex segretaria ad andare dai suoi genitori a Baltimora, per chiedere loro il denaro che gli occorre. Visto che non può guidare, convince così Melvin e Carol ad accompagnarlo nel viaggio. Melvin si prepara meticolosamente ad affascinare Carol approfittando del viaggio, ma non riesce mai a mostrarsi migliore di quello che è, diventando perfino geloso dell'amicizia tra Carol e Simon.

Al rientro a New York, Carol dice chiaro e tondo che non vuole più dover sopportare Melvin. Ma Simon, che è riuscito a ritrovare l'ispirazione proprio grazie a Carol, sprona l'amico a reagire. Melvin si rende conto di come la presenza di Carol lo stia aiutando a vincere le sue ossessioni e riesce finalmente a confessare a Carol il suo amore per lei.

Produzione

La prima versione della sceneggiatura si intitolava Vecchi amici, e fu indicata come una delle migliori sceneggiature non prodotte dalla rivista Movieline.

I ruoli di Melvin Udall e Carol Connelly furono offerti inizialmente rispettivamente a John Travolta e Holly Hunter. Il cane Verdell è stato interpretato da sei Griffoncini di Bruxelles, dai nomi di Timer, Sprout, Debbie, Billy, Parfait, e Jill. Il ruolo di Shirley Knight (Beverly Connelly) era stato offerto a Betty White, un'attivista per i diritti degli animali: la White rifiutò quando apprese di come il cane sarebbe stato maltrattato nel film.

Nel film, in una delle prime scene, compaiono in un cameo Lisa Edelstein e Peter Jacobson, che interpreteranno successivamente Lisa Cuddy e Chris Taub nella serie televisiva House MD.

Gli esterni utilizzati per il palazzo dell'appartamento di Melvin Udall e Simon Bishop si trovano vicino alla quinta Avenue e sulla dodicesima a Manhattan.

Distribuzione

Il film inizialmente fu valutato dalla MPAA R (per adulti). Successivamente è stato ridotto in appello a PG-13 (si suggerisce il parere dei genitori perché "alcune parti potrebbero essere inappropriate per i minori di 13 anni").

Il titolo di questo film è stato tradotto come Mr Pupù di Gatto (Mr. Cat Poop) a Hong Kong. Apparentemente si è arrivati a questo titolo dal nome "Melvin", che in cantonese suona molto simile al nome colloquiale degli escrementi di gatto.

Colonna sonora

Nel film compare una registrazione di Art Garfunkel che canta Always Look on the Bright Side of Life, una canzone tratta dalla colonna sonora del film dei Monty Python Brian di Nazareth (1979). La frase del testo originale "Life's a piece of shit..." ("La vita è un pezzo di merda...") è stata cambiata in "Life's a counterfeit..." ("La vita è una contraffazione...").

il Sacro Romano ImpEuro


E quindi uscimmo a riveder le stelle. Dante, Inferno. Canto XXXIV …Il 1978 fu un anno fondamentale per la storia italiana. Con l’omicidio Moro, abilmente orchestrato dai poteri forti, si chiuse una stagione di politiche di espansione della democrazia e del benessere nel nostro Paese. Una politica di concessioni democratiche dettate – sotto l’ egida americana – dalla pressione del blocco sovietico e dal terrore che i partiti che si ispiravano all’ideologia comunista
riuscissero a prendere il potere. Eliminata la scomoda figura di Moro e boicottato il compromesso storico, le classi dominanti nostrane, alleate al grande capitale industriale e finanziario internazionale, partirono alla riscossa, scagliando – esse per davvero – l’attacco al cuore dello Stato. L’indirizzo economico della società fu orientato in senso liberistico, in modo da sottrarre ricchezza allo Stato e al lavoro (la quota salari nel 1976 toccò il suo apice), per trasferirla al capitale e alle rendite private italiane e straniere, in un momento in cui il grande capitale si stava sempre più finanziando e reclamava nuovi mercati internazionali per fare profitto.Ma c’era troppo pubblico, troppa presenza dello Stato, troppi diritti, troppe tutele: i grandi capitali pretendevano una deregolamentazione completa. Sui giornali compariva spesso questa parola:Deregulation. In inglese suonava bene, specie se a pronunciarla erano Ronald Reagan, che era stato anche attore, o Margareht Thatcher, che pareva la protagonista di un romanzo di Agatha Christie: un’inappuntabile signora con, nell’armadio, gli scheletri di diverse famiglie di operai. Occorreva tempo, ma l’oligarchia finanziaria voleva mano libera per poter privatizzare tutto. Voleva arrivare all’eliminazione delle prestazioni erogate dagli Stati per poterle privatizzare: voleva l’istruzione, la sanità, il welfare. Nessuno, naturalmente, parlò mai di oligarchia industriale e finanziaria. Nessuno disse mai di chi realmente si trattasse. Si chiamavano mercati. Era l’apertura ai mercati, e si diceva liberalizzare. Sapeva di libertà, mentre le cose finivano sotto un padrone. Per sostituirsi agli Stati, però, questi nuovi padroni avevano bisogno che gli stessi non potessero più finanziarsi a tassi agevolati e in modo indipendente. Ottennero, allora, che gli Stati rinunciassero alla sovranità monetaria, per devolverla a istituti privati, non democratici e non elettivi, controllati, direttamente o indirettamente, non da legittimi governi, ma dagli stessi oligarchi della finanza. Fu chiamata, vergognosamente, dottrina delle banche centrali indipendenti. Ci fu il fatidico divorzio tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia, causa remota e celata dell’esplosione del debito pubblico. Ma la colpa fu attribuita alla classe politica corrotta e sprecona, che finanziava le proprie clientele. Volevano, poi, la libera circolazione dei capitali e l’eliminazione del rischio di cambio, propalato come un moltiplicatore non dei pani e dei pesci, ma degli scambi commerciali. Così, dopo la liberalizzazione del settore bancario e la successiva creazione di gigantesche banche private – liberate anche da vincoli prudenziali a tutela dei risparmiatori e lanciate nella speculazione sfrenata - vennero lo SME, il Trattato di Maastricht, l’Euro, il Trattato di Lisbona, il Fiscal Compact. Era stata, finalmente, creata una zona cosiddetta di “libero” scambio, con una unica moneta, entrambe completamente assoggettate ai dettami dell’oligarchia finanziaria. Una zona dove le Costituzioni Democratiche erano state di fatto sovvertite e sostituite dal diritto dei Trattati; dove i diritti dei cittadini non erano più tutelati e le prestazioni fondamentali dello Stato non più garantite; dove tutto era in via di privatizzazione e dove i cittadini, costretti ad aprire un conto in banca, non potevano nemmeno più disporre liberamente dei contanti. Una zona in cui Stati, una volta tra i più progrediti al mondo, erano stati colonizzati e costretti a finanziarsi con moneta straniera, controllata dagli stessi oligarchi. E dove ormai svolgevano esclusivamente il ruolo di esattori per il Potere Centrale. Si era sotto una terribile dittatura, anche se formalmente la propaganda impiegava il termine democrazia ad ogni piè sospinto. Giornali, che nel nome e nei contenuti dichiaravano di ispirarsi alle virtù della Res-Pubblica, e considerati dai più difensori degli interessi del popolo, erano i più strenui apologeti dell’Impero. Questa moneta unica, invocata dai burocrati-sacerdoti della finanza come una divinità monoteistica, irreversibile come il Giudizio Universale, stava, assieme ai vincoli dei Trattati, svolgendo egregiamente il ruolo per cui era stata progettata. Non potendo essere riequilibrate dalla flessibilità del cambio, infatti, le asimmetrie delle bilance dei pagamenti tra le diverse province imperiali, imponevano il contenimento dei salari, rendendo soddisfatti i capitalisti e i rentiers, che non vedevano i propri guadagni erosi dal mostro medioevale dell’inflazione. E un’altra virtù santa, la continenza, entrava di forza nel bagaglio dei comportamenti dei cittadini-sudditi, accusati fino a quel momento, di aver vissuto al di sopra dei propri mezzi. Inoltre, l’oligarchia centrale stava completando il suo progetto di annessione, impadronendosi delle industrie migliori dei Paesi periferici, che impossibilitate dal cambio rigido e sopravvalutato ad esportare secondo le proprie potenzialità, entravano in una spirale debitoria e vedevano precipitare i propri corsi azionari. Le industrie ancora in mano pubblica, invece – alcune veri e propri gioielli, anche se dipinte come sentine del vizio e dell’inefficienza – ci avrebbero pensato le classi politiche locali, corrotte e colluse, a liquidarle al Potere Centrale, in ottemperanza a vincoli di bilancio, che, addirittura, erano stati trasformati in vincolo costituzionale. Frattanto, la crisi dei mutui subprime, (cioè la concessione di prestiti a chi non sarebbe stato in grado di rimborsarli, sui quali erano stati costruiti prodotti finanziari derivati truffaldini, ammanniti come sicuri e lucrosi), era esplosa al di là dell’Atlantico. Tale crisi, importata in Europa grazie alle grandi banche degli oligarchi imperiali, che speculavano sugli stessi prodotti finanziari, aveva acuito i problemi strutturali della cosiddetta Eurozona. I paesi membri, non potendo agire sulla leva del cambio, avevano visto peggiorare tutti gli indicatori economici. Le banche, che avevano avuto grandi perdite con i derivati e avevano prestato denaro alla periferia, facevano fatica a riavere indietro i prestiti. Molte entrarono in crisi di liquidità. Le perdite furono riparate dagli Stati, che ricapitalizzarono le banche degli oligarchi con denaro pubblico. Ovviamente, il debito pubblico esplose ovunque. Ma proprio a quel debito gli oligarchi imputarono l’origine della crisi e dissero che era causato dagli sprechi delle caste statali. La propaganda tuonava: si disse che la corruzione e gli sprechi fossero caratteristiche congenite del pubblico. Bisognava privatizzare ancora. Gli Stati tassarono ulteriormente i cittadini per rientrare delle spese sostenute per i salvataggi bancari. Ma la disoccupazione e il crollo dei salari stavano uccidendo la domanda interna. La maggior parte delle piccole e medie imprese, entrarono in una grave crisi e ci fu una moria che de-industrializzò in modo importante il Paese. Ogni due ore chiudeva un esercizio commerciale. Il gettito fiscale crollò e ciò favorì ulteriormente il disegno degli oligarchi: le dinamiche di svendita del patrimonio pubblico e di definitiva colonizzazione degli Stati venivano accelerate, anche grazie a politiche pro-cicliche che – in dispregio a qualunque buonsenso – acceleravano la crisi, ma furono chiamate, con un ossimoro, austerità espansiva. I cittadini, privati di tutto, erano davvero divenuti austeri. Continenza e austerità venivano predicate alla gente che si suicidava. Togliersi la vita era, infatti, all’ordine del giorno. Sette di millenaristi percorrevano il Paese. Professori eretici; giudici che perseguivano ordini cavallereschi deviati; alti magistrati che agitavano la Costituzione come vessillo. Predicatori di piazza furoreggiavano e riuscirono perfino ad entrare in Parlamento, dove, però, qualcuno cominciò a dubitare della loro buona fede. Altri, vox clamantis in deserto, richiamava tutte le voci protestatarie all’unità di intenti. Ma i bassi personalismi e l’insipienza del volgo facevano sì che la maggioranza della popolazione vagolasse nelle tenebre senza sapere a quale partito rivolgersi… E sopra a tutto, al vertice della piramide imperiale, un progetto buio di dominio si delineava: i ribelli lo chiamarono mondialismo e stendeva le sue ali oscure su tutta la Terra. Una casta usurocratica, che sfidava il potere divino, sognava per sé di accentrare e controllare tutte le ricchezze e le risorse del pianeta. E il possesso completo dell’Europa era il banco di prova. La crisi si avvitava e i quartieri generali dell’Impero temevano per l’ordine pubblico. Poi, una mattina di domenica 28 Aprile 2013, a Roma, davanti a Palazzo Chigi, qualcuno sparò… ….Ma il pilota automatico guidava il popolo come la Grazia. Ad alcuni blasfemi sovvenne anche un dubbio: non sarà quella del Presidente Napolitano? Proprio nel giorno dell’attentato, dopo mesi di conciliaboli, fu eletto il Nuovo Governo della provincia, che ancora portava il nome di Italia. L’Esecutivo fu presentato come Nuovo, ma era solo un’operazione di facciata: all’interno nessuno dei membri osava mettere in discussione i vecchi Articoli di Fede e i sacri vincoli di obbedienza al Potere Centrale, primo fra tutti il vincolo di bilancio. I nuovi luogotenenti, secondo un piano scaltro quanto prevedibile, finsero di allentare la pressione fiscale: un espediente per ottenere la tregua sociale necessaria a lavorare in pace alla missione per la quale erano stati prescelti. Così il popolo assaggiò, tapino, che cosa fosse la cornucopia delle mitiche riforme strutturali, che da decenni erano state prospettate come gli orizzonti di una sfolgorante terra promessa. La Riforma della Costituzione le avrebbe sancite, immolando sull’altare del profitto privato il benessere collettivo. Si aprì una fase costituente. La vecchia Carta del ’48, infarcita di tutele obsolete, venne riscritta, in modo che i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali non fossero più garantiti. Il welfare fu largamente privatizzato, per non gravare in modo insostenibile sul bilancio statale. Ci furono conseguenze funeste, che abbassarono ulteriormente il tenore di vita degli abitanti della provincia. Il lavoro non fu più un diritto, ma una dura conquista. La disoccupazione, si diceva, nelle economie di mercato è un fatto fisiologico, che ha un livello naturale. Anche il suicidio per disoccupazione divenne, così, un fatto naturale. La sanità non fu più un buco nero dello Stato, che tante ruberie e malversazioni aveva originato, perché la sua tutela fu affidata ai privati. I costi, però, lievitarono enormemente, e ammalarsi divenne una calamità per i meno abbienti, che diventavano sempre più numerosi. L’età della pensione fu rimandata nel tempo, come un sogno irrealizzabile. Per alcuni, infatti, l’età pensionabile non arrivò mai, sopraggiungendo prima la morte. Per altri, più fortunati, essa arrivò, ma non i frutti delle contribuzioni di una vita, che i fondi pensione avevano bruciato in speculazioni avventate. Le ultime industrie pubbliche e i beni demaniali furono svenduti alle oligarchie centrali. In obbedienza alpareggio di bilancio e alle altre “regole d’oro” del Fiscal Compact, la riduzione del debito pubblico doveva procedere a tappe forzate. Inoltre, la crisi aveva ridotto il gettito fiscale. E, se non bastasse, attraverso le agenzie di rating, nelle mani degli stessi oligarchi, in ogni momento poteva essere agitato il potere divino e ricattatorio dello Spread, capace di scatenare emergenze fittizie, alle quali, però, si doveva rispondere in modo insindacabile. Come già era avvenuto nel 1992, le industrie dello Stato furono vendute a prezzo di saldo; ma si scrisse che quelle industrie erano inefficienti e improduttive, e, quando si era potuto, le si era coinvolte in scandali montati ad arte. L’Euro fu abbandonato dal Potere Centrale. Sostituito da nuove divise dai cambi liberamente fluttuanti nell’etere dei mercati. Aveva esaurito il suo potere alchemico di trasformare i debiti dell’unificazione germanica in crediti, e le province rivali in popoli conquistati, annessi e saccheggiati. La svalutazione del cambio favorì, finalmente, le industrie della provincia, ma ormai esse erano tutte in mano agli oligarchi centrali. Le popolazioni locali non ottennero alcun sostanziale beneficio: si resero sì disponibili posizioni lavorative, ma esse erano di basso livello e di bassissima retribuzione. E il Leviatano della Tassazione riprese, più crudele e vessatorio che mai. Vanificate le residue speranze in una vita migliore – promessa rinviata, come in ogni religione o stato totalitario, a data inverificabile – il popolo cominciò a comprendere di essere stato ingannato. La rabbia montava. Il Potere non vedeva l’ora che ciò accadesse e soffiava di nascosto sul fuoco, come già nel secolo precedente aveva imparato a fare in quella che si chiamò strategia della tensione. Anche gli ingenui cominciavano a capire quale ruolo avessero sempre giocato i servizi segreti, abili a mimetizzarsi tra gli oppositori e a fomentare incidenti e scontri. Ma i sistemi di controllo dell’Impero oggi erano più raffinati: internet consentiva di tenere sotto stretta sorveglianza – e alla bisogna ricattare – praticamente tutta la popolazione e di identificare gli attivisti e i dissidenti, uno ad uno. Lo Stato di polizia, non solo tributaria, divenne palese e una Forza di Gendarmeria Europea, chiamata Eurogendfor, con potere illimitato e totale immunità, nacque dalle ceneri di quelli che una volta erano corpi militari fedeli alle costituzioni nazionali. La repressione delle sommosse fu spietata e la sicurezza divenne il pretesto per un regime ancora più opprimente, che non lasciava più spazio ad alcuna privacy o libertà personale. I contanti furono definitivamente aboliti e tutte le transazioni monetarie rese elettroniche. Ciò consentiva alle banche di lucrare sulle transazioni e al Potere Centrale di tenere sotto osservazione e aggredire qualunque movimento finanziario della popolazione. I ribelli, furono dotati di carte prepagate al limite della sussistenza. La dittatura aveva mostrato il suo vero volto e ormai tutti lo potevano riconoscere. Ma era tardi. Scriveva un Italiano: “La situazione è gravissima e compromessa al punto che occorrerebbe un fronte comune di tutti gli Italiani. Purtroppo, nel nostro Paese esiste un limite culturale enorme: l’assenza del concetto di bene comune. “Extra ecclesia nulla salus”, diceva S. Agostino. E l’Italiano vive all’interno della sua ecclesia, famiglia o conventicola, dove entra o per diritto di nascita o per cooptazione, e poco gli cale che il suo orticello, il suo “particolare”, si trovi nel Lazio, in Italia, in Europa, o nel mondo. Ecco perché la colonizzazione ha sempre avuto buon gioco nel nostro sventurato Paese, ecco perché l’Italiano non ha mai fatto una rivoluzione, ed ecco perché l’Italia non offre – ne offrirà mai – alcuna resistenza al progetto del mondialismo, che vedrà presto la creazione di un’area di libero scambio tra Ue e Usa. L’impossibilità di salvare l’Italia è una impossibilità antropologica. Sulla bandiera dell’Italia, come chiosava Longanesi, dovrebbe esserci scritto: “Tengo famiglia””. E, in effetti, secoli di dominazione, uniti a una certa mollezza infusa dallo stesso cristianesimo e la sua dottrina della predestinazione, avevano prodotto un cinismo rassegnato, un fatalismo atavico, per cui si attendeva sempre l’arrivo di qualcun altro, di un salvatore o liberatore, vuoi nei panni di un americano in camicia a fiori, vuoi in quelli di un extraterrestre, proveniente o dagli spazi siderali, o dalle viscere della Terra, che qualcuno, su internet, sosteneva essere cava… Il libro interrompe qui la narrazione dei fatti. Ma c’era qualcos’altro: una lettera spiegazzata, nascosta nel sommario, vergata di suo pugno dall’autore, che somigliava più a un disperato appello che a una missiva. O forse era semplicemente un monito a futura memoria a non compiere gli stessi errori. L’autore era un Italiano. Vi leggo cosa ci ha scritto, perché è indubbio che noi siamo i destinatari. “Cari Italiani, questo voglio dirvi: nessuno verrà a salvarci. Mi rendo conto che quando un popolo è nato schiavo, sa solo immaginarsi un nuovo padrone; ma è ora di assumerci le nostre responsabilità e governare il nostro Paese da soli, per la prima volta da Italiani. In caso contrario, comincerà il Nuovo Medio Evo. Lo chiameranno Sacro Romano Impeuro. Il Papa che fa professione di pauperismo lo abbiamo già. Ci insegnerà, dopo la continenza e l’austerità, la via della decrescita. Porteremo la nostra croce, vestiti solo di un saio e scarpe di cartone, biodegradabili. Non perché saremo diventati più spirituali, ma perché non potremo permetterci altro. Poi, all’improvviso, qualcuno griderà: “Ecce IMU!”. E andremo tutti a confessarci all’Agenzia delle Entrate. É ora di ribellarci. Le virtù teologali, che ci incatenavano, sono svanite: la fede nell’Euro l’abbiamo persa. La speranza nella Ripresa non l’abbiamo mai avuta. E la carità… siamo finiti a chiederla.” di Francesco Mazzuoli


fonte: terrarealtime.blogspot.it

i fiori del male



Les fleurs du Mal è una raccolta lirica di Charles Baudelaire (1821-1867). Fu pubblicata nella primavera del 1857 in una tiratura di 1320 esemplari e comprendeva centoventisei poesie divise in sei sezioni: Spleen et ideal, Quadri Parigini, Les fleurs du mal, La revolte, Le vin e La mort.

L’opera venne immediatamente censurata perché la forma poetica e i temi trattati fecero scandalo, così come il primo titolo dell’opera "Les lesbiennes" (Le lesbiche). Nel 1861 uscì in 1530 esemplari la versione aggiornata dell'opera dove Baudelaire rimosse le sei liriche accusate e le sostituì con altre 35 dividendo l’opera diversamente e aggiungendo la sezione "Tableaux Parisiens".

Da molti critici, come dalla tradizione e dal pubblico (soprattutto quello più giovanile, attratto dalle tinte mitiche, macabre e vagamente erotiche), I fiori del male viene considerata una delle opere poetiche più influenti, celebri e innovative dell’ottocento francese e non. Il lirismo aulico ed ampolloso che si unisce a sfondi surreali di un modernismo ancora reduce della poetica romantica si tradusse, nei periodi successivi, nello stereotipo del Poeta Maledetto; chiuso in se stesso, a venerare i piaceri della carne e tradurre la propria visione del mondo in una comprensione d'infinita sofferenza e bassezza. Estremamente ispirante fu anche l’intenso misticismo del linguaggio ed un rigore formale, camuffato dall’ambigua moralità e dalle oscillanti posizioni in temi frequentemente metafisici e teologici.

Analisi critica

L’opera può a ragione considerarsi alla base della poesia moderna grazie allo straordinario contributo che Baudelaire fornisce unendo il suo gusto parnassiano per la forma con i contenuti figli di un tardo romanticismo, ma spinti all'estremo dal gusto del poeta. Temi quali la morte, l’amore e lo slancio religioso vengono estremizzati col gusto dell’orrore, il senso del peccato e il satanismo. Tra i componimenti più riusciti dell’opera sono da citare "Spleen", "L'albatro", "Corrispondenze" (che anticipa temi tanto cari al decadentismo).

A detta dello stesso Baudelaire l’opera va intesa come un viaggio immaginario che il poeta compie verso l'inferno che è la vita. Nella prima sezione "Spleen et ideal" Baudelaire esprime lo stato di malessere del poeta (figura fondamentale nella sua produzione). Egli è uno spirito superiore capace d'elevarsi al di sopra degli uomini e di percepire con la sua sensibilità innata le segrete corrispondenze tra gli oggetti, i profumi e gli elementi della natura (Correspondances), ma, proprio a causa delle sue capacità, il poeta è maledetto dalla società (Benedition) e diventa oggetto di scherno per gli uomini comuni. Baudelaire sceglie l'albatros per simboleggiare questa condizione: come il grande uccello marino infatti, il poeta si eleva ai livelli più alti della percezione e della sensibilità ma una volta sulla terra ferma non riesce a muoversi proprio a causa delle sue capacità (paragonate alle ali dell'albatros). L’albatro rappresenta anche l’aspirazione dell'uomo al cielo e quindi l’aspirazione ad arrivare ad un piano intellettuale superiore. La causa della sofferenza del poeta è lo spleen (letteralmente "milza", ritenuta dai greci la fonte del male corporeo), un’angoscia esistenziale profonda e disperata che lo proietta in uno stato di perenne disagio che Baudelaire descrive in ben quattro splendidi componimenti, tutti col titolo di "Spleen".

La seconda sezione Tableaux parisiens rappresenta il tentativo di fuggire l’angoscia proiettandosi al di fuori della sua dimensione personale nell’osservazione della città; tuttavia il tentativo si rivela vano poiché, nel guardare la grande città, lo spirito inquieto non trova che gente sofferente proprio come lui. Le poesie di questa sezione (notevole I sette vecchi) rappresentano il primo esempio di poesia che descriva l’angoscia della città moderna. Ad essi s'ispireranno grandi autori successivi come T. S. Eliot che nella sua "Terra desolata" si rifà dichiaratamente al poeta parigino. Anche le sezioni successive Le vin e Fleurs du mal sono tentativi di fuggire lo Spleen, che il poeta compie rifugiandosi nell’alcool e nell’alterazione delle percezioni.

I fiori del male sono i paradisi artificiali (tanto cari all’autore, che vi dedicherà un’intera opera) e gli amori proibiti e peccaminosi che danno l’illusoria speranza di un conforto. Quando anche questi effimeri piaceri vengono a svanire, al poeta non rimane che La revolte, il rinnegamento di Dio e l’invocazione di Satana che tuttavia non si rivela utile alla sua fuga.

L’ultimo appiglio per lo spirito disperato del poeta è la morte, intesa non come passaggio ad una nuova vita ma come distruzione e disfacimento a cui tuttavia il poeta s'affida, nel disperato tentativo di trovare nell'ignoto qualcosa di nuovo, di diverso dall'onnipresente angoscia. Per quanto riguarda l'ultima sezione La mort è da notare il componimento Le voyage, poesia che chiude I fiori del male.

lunedì 28 aprile 2014

il conte di Montecristo



Le Comte de Monte-Cristo è uno dei più famosi romanzi d'appendice attribuiti ad Alexandre Dumas. Considerata la sua opera migliore insieme alla trilogia dei moschettieri (comprendente I tre moschettieri, Vent'anni dopo, Il visconte di Bragelonne), fu completata nel 1844 e pubblicata nei due anni successivi come una serie in 18 parti.

La storia è ambientata in Italia, in Francia e nelle isole del Mediterraneo, durante gli anni tra il 1815 ed il 1838 (dalla fine del regno di Napoleone I al regno di Luigi Filippo). I principali temi trattati riguardano la giustizia, la vendetta, il perdono e la misericordia.

Personaggi

Edmond Dantès e i suoi travestimenti

Edmond Dantès — Edmond è il protagonista della storia, durante la quale assume molteplici travestimenti per portare a termine l'elaborato piano di vendetta nei confronti di coloro che hanno provocato la sua rovina. Inizialmente Edmond è un esperto marinaio, ottimo fidanzato della bella catalana Mercédès, e futuro capitano della nave mercantile Pharaon. Dopo gli anni di prigionia diventa il Conte di Montecristo, nome preso da un'isola di cui è diventato proprietario dopo avervi trovato il tesoro indicato dallo scienziato Faria. Sotto questa nascosta identità compirà la sua elaborata vendetta.

Conte di Montecristo — La persona in cui Edmond cambia la sua identità per compiere la vendetta è un nobile italiano, la cui ricchezza va di pari passo solo con l'aura di mistero che lo circonda. Secondo il passato costruito da Edmond per il suo alter ego, dietro l'identità del Conte di Montecristo si celerebbe il signor Zaccone, figlio di un ricco armatore maltese, che vive nell'agio di una ricca rendita, e che ha acquistato il titolo di "conte", assieme all'isola di Montecristo, per diletto. Egli avrebbe fatto la guerra nella marina, e poi si sarebbe dedicato a notevoli opere di carità, sfruttando le sue enormi ricchezze. Il Conte appare come una persona gentile ed educata, sebbene restia a dare eccessive confidenze. Per quanto circondato da un alone di mistero, il Conte ha molte conoscenze, è assai colto, ha viaggiato per il mondo, è amante degli agi più raffinati, ed è capace di stupire con la sua eloquenza e con le sue stravaganze.

Lord Wilmore — Un nobile inglese interpretato da Edmond per compiere buone azioni e atti di generosità. Questo personaggio è l'esatto opposto del Conte di Montecristo e durante il romanzo si suppone che i due siano rivali.

« Era un uomo piuttosto alto, aveva le basette rade e rosse, la pelle bianca, ed i capelli biondi grigiastri; era vestito con tutta la eccentricità inglese, cioè, un abito turchino coi bottoni d'oro e col colletto alto e imbottito, un gilè di cachemire bianco, ed un pantalone di nanchino, tre pollici troppo corto, ma a cui i sottopiedi della stessa stoffa impedivano di risalire fino alle ginocchia. »

Sinbad il marinaio — Il personaggio che Edmond userà per salvare la Famiglia Morrel dalla bancarotta.

« Indossava un costume tunisino, vale a dire una calotta rossa con una lunga nappa di seta turchina, una veste di panno nero tutta ricamata d'oro, pantaloni color sangue di bue larghi e gonfi, le ghette dello stesso colore orlate d'oro come la veste, ed i pianelli gialli, una magnifica sciarpa di cachemire gli cingeva la vita al disopra dei fianchi, e un piccolo cangiar acuto e ricurvo passava dentro la cintura.
Quantunque di un pallore quasi livido, quest'uomo aveva una fisionomia molto bella: gli occhi erano vivi e penetranti, il naso dritto [...] i denti bianchi come perle spiccavano mirabilmente sotto i baffi neri. »

Abate Busoni — L'identità che usa Edmond in altre circostanze per la presunta autorità religiosa.

I servitori del Conte

Bertuccio — Intendente e braccio destro del Conte, stimato da quest'ultimo poiché in grado di eseguire al meglio ogni ordine che riceve. Bertuccio, prima di conoscere il Conte, dichiara vendetta a Gérard de Villefort per non aver aperto alcuna indagine sull'assassinio di suo fratello; convinto di averlo ucciso, gli salva il figlio illegittimo che Villefort ha avuto da Hermine Danglars e che crescerà, assieme alla cognata, con il nome Benedetto. Nel corso dell'opera Benedetto reciterà il ruolo di Andrea Cavalcanti.

Haydée — Principessa greca, salvata dalla schiavitù da Edmond e, al termine della vendetta del Conte, sua futura sposa. Haydée era figlia di Alì-Tebelen, Pascià di Giannina. Quando era ancora molto piccola il padre viene rovesciato dall'acerrimo nemico generale Kourchid, grazie al tradimento di Fernand Mondego. Ridotta in schiavitù assieme alla madre, dopo la morte di questa viene comprata dal Conte al mercato degli schiavi a Costantinopoli. Anche se lei è considerata una schiava, il Conte la tratta con il massimo rispetto. Questa donna greca è innamorata follemente del Conte, che però la considera troppo giovane per lui. Durante il processo di Fernand Mondego rivelerà la sua vera identità e porterà le prove per farlo condannare. Alla fine del romanzo Edmond capisce l'amore della donna per lui, e decide di partire con lei per farsi una nuova vita, possibilmente felice.

« La bellezza del viso era da beltà greca in tutta la purezza del tipo, coi grandi occhi neri vellutati, la fronte di marmo, il naso dritto, le labbra di corallo, e i denti di perle. E in questa graziosa donna il fiore della gioventù appariva in tutto il suo splendore e profumo. Haydée poteva avere diciannove o venti anni. »

Alì — Il fedele servitore del Conte di Montecristo. Egli è muto e totalmente dedito al suo padrone per avergli salvato la vita in Tunisia, dove era stato condannato - a causa di una sua "lussuriosa" incursione nell'harem del Bey - a subire la mutilazione prima della lingua, poi delle mani e infine della testa. Quel che Alì non sa è che Dantès aveva atteso a bella posta che la lingua gli venisse mozzata prima di offrirsi di riscattarlo, in modo da potersi avvalere di un servitore muto. Alì è un abilissimo domatore di cavalli.

« «[...] non ha stipendio, non è un domestico, è uno schiavo, è il mio cane; se non facesse il suo dovere, non lo caccerei, ma lo ammazzerei!.» [...]

Alì ascoltò, sorrise, si avvicinò al padrone, mise un ginocchio a terra e gli baciò rispettosamente la mano. »

Baptistin — Servitore del Conte.

Jacopo — Marinaio conosciuto da Edmond a bordo della tartana genovese Giovane Amelia che lo trae in salvo durante la sua fuga dal Castello d'If. Diventa, in seguito, il capitano dello yacht del Conte.

La famiglia Morcerf

Mercédès Herrera Mondego — Fidanzata di Edmond all'inizio dell'opera. In seguito sposerà suo cugino Fernand quando Edmond viene creduto morto in prigione. Lei non ama Fernand, ma lo considera suo fidato amico. Dopo la rovina del marito torna a Marsiglia e vivrà nella casa del padre di Dantès.

Fernand Mondego — Più tardi conosciuto come conte de Morcerf. Lui è innamorato di Mercédès e farebbe qualsiasi cosa per averla. Infatti, con l'aiuto di Danglars, progetta l'accusa contro Edmond. Dopo l'incarcerazione di Dantès parte per la guerra: durante le sue campagne militari guadagna denaro e reputazione. Una volta tornato in Francia con il titolo di conte sposa Mercédès. Diventato membro della Camera dei Pari, la sua vita viene rovinata dal processo che lo vede imputato per il tradimento, mentre era ufficiale in Grecia, del Pascià Alì-Tebelen, grazie anche alla decisiva testimonianza di Haydée. Quando scopre che la moglie e il figlio lo hanno abbandonato, si suicida.

Albert de Morcerf — Figlio di Mercédès e Fernand. Conosce il Conte a Roma (quando è in compagnia di Franz d'Epinay) durante il carnevale. Qui vive un'esperienza di rapimento e prigionia ad opera del bandito Luigi Vampa. Viene liberato dal Conte di Montecristo, grazie alla lealtà ed il rispetto che Vampa ha nei suoi confronti. Tornato in Francia, Albert viene costretto dal padre a sposare Eugenie Danglars, che però non ama. Quando il barone Danglars scopre il tradimento di Fernand a Giannina, fa saltare il matrimonio, preferendo dare la figlia in sposa ad Andrea Cavalcanti. Albert diventa grande amico di Dantès, finché egli non causa la rovina del padre: a quel punto sfida pubblicamente il Conte a duello, anche se poi gli porgerà - altrettanto pubblicamente - le sue scuse, grazie alle rivelazioni che la madre gli fa sull'identità reale del Conte e sulle giustificate motivazioni del suo comportamento. Alla fine del romanzo abbandonerà Fernand e partirà come soldato negli Spahis per l'Africa, per potersi ricostruire una nuova vita con il nome Herrera.

La famiglia Danglars

Barone Danglars — Inizialmente è lo scrivano di bordo della nave dove lavora Edmond, del quale è geloso perché l'armatore della nave, Pierre Morrel, lo vuole nominare capitano. Dopo aver incastrato il protagonista, viene promosso capitano della nave Pharaon. Dopo poco tempo abbandona l'incarico e si trasferisce in Spagna dove lavora presso un banchiere. In seguito ad una serie di speculazioni ed investimenti (in cui dimostra un'indiscussa abilità), diventa milionario. Acquistato il titolo di barone torna in Francia, dove ben presto diventa il più ricco banchiere di Parigi.

« Davvero quest'uomo è una laida creatura. Come mai, dalla prima volta che lo vedono, non riconoscono il serpente dalla fronte schiacciata, l'avvoltoio dal cranio rotondeggiante, lo sperviero dal becco acuto? »

(Edmond Dantès)

Hermine Danglars — Moglie del barone Danglars. In gioventù, mentre il primo marito (il barone Louis de Nargonne) era assente, ha una relazione con Gérard de Villefort, dalla quale nasce il figlio Benedetto, creduto morto alla nascita, ma in realtà salvato e allevato da Bertuccio. Nel frattempo, prima della nascita del figlio, rimane vedova. Già abbastanza ricca prima di sposare il barone Danglars, con l'aiuto di Lucien Debray (ben informato sugli eventi politici in quanto lavora al Ministero degli Interni), amico e amante, riesce a mettere da parte un milione di franchi investendo il denaro del marito.

Eugenie Danglars — Figlia dei Danglars, con animo d'artista, è promessa sposa prima ad Albert de Morcerf, poi ad Andrea Cavalcanti. Ma lei non ama nessuno dei due: è infatti uno spirito libero, non desidera il matrimonio, sogna una vita sola, magari dedicata all'arte del canto e della musica. Alla fine riesce a realizzare il suo sogno: scappa di casa assieme ad un'amica approfittando della confusione creatasi per l'arresto di Andrea Cavalcanti, lo stesso giorno in cui i due dovevano firmare il contratto di matrimonio.

« Eugenie Danglars era bella, ma [...] di una bellezza un poco sostenuta. I capelli erano di un bel nero, ma nell'ondulazione si notava una specie di ritrosia al pettine; gli occhi, neri come i capelli, sotto magnifiche sopracciglia, che non avevano che un difetto, quello cioè di aggrottarsi qualche volta, erano particolarmente notevoli per una espressione di fermezza rara in una donna; il naso aveva quelle proporzioni esatte che un bravo scultore darebbe alla statua di Giunone, soltanto la bocca era un po' grande, ma con bei denti che davano risalto alle labbra, il cui carminio troppo vivo spiccava sul pallore del viso; infine, un neo nero posto all'angolo della bocca, e più largo del naturale, finiva col dare a questa fisionomia un'indole risoluta [...] Era [...] una Diana cacciatrice, ma con qualche cosa di più fermo e di più maschio nella sua bellezza. »

La famiglia Villefort

Gérard de Villefort — Sostituto Procuratore del re e, in seguito, Procuratore del re. Figlio di un bonapartista (il signor Noirtier), arriva a rinnegare il padre (e a cambiare cognome in Villefort) per garantire la sua fedeltà alla monarchia ed entrare così nelle grazie del re e di tutto l'entourage monarchico, compresa la famiglia Saint-Méran (importante e nobile famiglia di cui vuole sposare la giovane discendente, Renata). È inoltre il responsabile materiale dell'incarcerazione di Edmond: pur riconoscendo la sua innocenza, Villefort si vede costretto ad incastrarlo per salvare la sua posizione e la vita del padre; Dantès, infatti, era l'unico testimone di una lettera destinata al signor Noirtier in cui si annunciava l'imminente ritorno di Napoleone (e quindi il suo indiscusso e attivo legame con l'usurpatore, appellativo con cui i filomonarchici chiamavano Napoleone); se quella lettera fosse finita in mani sbagliate, il padre sarebbe stato condannato a morte e lui avrebbe perduto per sempre quella posizione di rilievo presso il re così faticosamente conquistata.
Morta Renata (da cui aveva avuto una figlia, Valentine), Villefort si risposa in seconde nozze con una donna di nome Héloise, da cui nascerà il figlio Édouard. Ha pure una relazione con la signora Danglars (anche se all'epoca della relazione lei era sposata con un certo barone de Nargonne), da cui nasce il figlio illegittimo Benedetto (che, creduto morto, verrà seppellito in giardino). Quando Héloise, la sua seconda moglie, avvelena gli eredi del patrimonio di famiglia affinché il figlio Édouard diventi erede universale (non solo da parte di padre, ma anche da parte della sorellastra), Villefort scopertala, la spinge al suicidio. Ma lei deciderà di portare con sé anche suo figlio. Quelle due perdite, assieme a quella della primogenita Valentine, alla scoperta che il figlio illegittimo (Benedetto) è un assassino e che dietro all'identità del Conte di Montecristo si nasconde Edmond Dantès, spingeranno Villefort alla pazzia.

Valentine de Villefort — Figlia di Gérard de Villefort e Renata di Saint-Méran. Innamorata di Maximilien Morrel, è promessa, per volontà del padre, al barone Franz d'Epinay; vive isolata dal resto della famiglia, per l'indifferenza del padre e l'odio della matrigna Héloise. Unica vera compagnia familiare è costituita dal nonno Noirtier, che però è muto e paralizzato, e comunica con la nipote con i soli occhi. È proprio il nonno che fa di tutto per impedire il matrimonio della nipote con d'Epinay: predispone nel suo testamento che nel caso questa unione avvenisse, Valentine verrebbe diseredata. Poi, poiché il figlio Gérard persiste nell'intento di matrimonio, rivela che è lui l'assassino del padre di Franz: a quel punto il giovane d'Epinay rompe l'accordo di matrimonio. Rimasta unica erede della famiglia dopo gli omicidi dei marchesi di Saint-Méran, Valentine viene avvelenata da Héloise, la matrigna, ma grazie a Noirtier (che, dandole un poco della stessa sostanza mortale da lui assunta, la abitua al veleno neutralizzandolo parzialmente) l'attacco non le è fatale, per quanto la costringa a letto. Il Conte di Montecristo le dà una sostanza che la fa cadere in coma, inducendo tutti a crederla morta, in modo da poterla salvare dalla matrigna. Dopo il finto funerale, il Conte la porterà sull'isola di Montecristo in attesa dell'arrivo dell'amato Maximilien Morrel, che finalmente potrà sposare.

Noirtier de Villefort — Padre di Gérard e nonno di Valentine: attivo bonapartista durante la rivoluzione, uccide il generale d'Epinay. Durante i Cento giorni torna alla corte di Napoleone. Dopo essere stato colpito da un attacco apoplettico diviene muto e paralizzato, e capace solo di comunicare con la nipote (a cui è legatissimo) ed il figlio attraverso il linguaggio degli occhi. Per salvare Valentine dal matrimonio forzato con Franz d'Epinay riesce a dettare il testamento, dando i suoi beni ai poveri (di fatto diseredando la nipote) nel caso in cui ella sposi il barone. Dal momento che il figlio Gérard continua a voler dare in sposa Valentine a Franz, Noirtier rivela di aver ucciso in duello il generale d'Epinay, padre del giovane, che a quel punto rompe il contratto di matrimonio. Scampa per caso al progetto di avvelenamento da parte di Héloise (solo perché il suo medico - il signor d'Avrigny - gli fa assumere ogni giorno un po' di veleno per contrastare la malattia) e, resosi conto del piano della donna, riesce a salvare Valentine dal successivo tentativo di omicidio, abituandola a piccole dosi giornaliere del veleno.

Héloise de Villefort — Seconda moglie di Gérard. Pensa solo a proteggere suo figlio Édouard, e combatte per assicurargli una generosa eredità. Odia profondamente Valentine, destinata ad ereditare il patrimonio della famiglia. Per evitare ciò mette in atto un diabolico piano: prima avvelena i due marchesi di Saint-Méran, rendendo la giovane unica erede, poi tenta, senza successo, di fare lo stesso con il vecchio Noirtier e con la stessa Valentine. Convinta di averla uccisa, viene scoperta dal marito, che le impone una scelta: o il processo pubblico e il patibolo (assieme allo scandalo e il disonore che sarebbe caduto sulla famiglia), oppure il suicidio tramite il suo terribile veleno. Héloise opta per il suicidio, portando con sé l'amatissimo figlio Édouard.

Édouard de Villefort — Unico figlio maschio legittimo di Villefort, viene avvelenato dalla madre quando ella, scoperta dal marito colpevole di quattro omicidi, decide di togliersi la vita.

« Era piccolo, gracile, bianco di pelle come i bambini rossi, ad onta di una foresta di capelli neri, ribelli ad ogni acconciatura, che ne copriva la fronte rotondeggiante, e cadendo sulle spalle ne contornava il viso, e raddoppiava la vivacità degli occhi pieni di furba malizia e di giovanile cattiveria; la bocca appena ritornata vermiglia, era sottile nelle labbra, e larga nell'apertura: i lineamenti di questo ragazzino di otto anni, dimostravano un'età almeno di dodici. »

Benedetto alias Andrea Cavalcanti — Figlio illegittimo di Villefort ed Hermine Danglars, salvato da sicura morte da Bertuccio, viene cresciuto dal còrso e da sua cognata Assunta. Malvagio e avido fin da piccolo, assieme a due compagni tortura la madre adottiva per ottenere del denaro: nella confusione la casa prende fuoco, i tre giovani fuggono con i soldi, lasciando morire la donna tra le fiamme. Conduce una vita criminale, finché non si ritrova in cella (nella prigione di Tolone) assieme a Gaspard Caderousse: grazie all'intervento di Lord Wilmore/Edmond Dantès i due fuggono. Benedetto ritorna a Parigi sotto il nome di Andrea Cavalcanti: crede che il suo vero padre sia il Conte di Montecristo, che quest'ultimo lo abbia fatto riconoscere dal maggiore Cavalcanti e che lo mantenga. In questo periodo conosce Eugenie Danglars e instaura buoni rapporti con il padre di lei, riuscendo a convincerlo a dargli in sposa la figlia; è lo stesso Conte di Montecristo a elogiare le ricchezze e la nobile discendenza del Conte (in seguito chiamato anche "principe") Andrea. Nel frattempo Caderousse lo scopre e lo ricatta; l'ex compagno di cella però non si accontenta e si fa descrivere la villa di Montecristo per poterla svaligiare. Andrea/Benedetto allora manda un messaggio anonimo al Conte per avvisarlo: la sera del furto si apposta fuori dalla casa e, quando Caderousse esce, risparmiato da Edmond, lo pugnala a morte. Il giorno del suo matrimonio con Eugenie Danglars i gendarmi vengono a prenderlo per arrestarlo: la sua fuga dura un solo giorno. In prigione Bertuccio gli svela l'identità del vero padre (Gérard de Villefort), che lui riferisce pubblicamente durante il processo, scioccando il procuratore.

La famiglia Morrel e dipendenti

Pierre Morrel — Armatore della nave Pharaon su cui lavorava Edmond all'inizio del romanzo. Uomo d'affari onesto, si fida di Edmond e gli propone di diventare capitano della nave. Dopo che Edmond viene arrestato, cerca in tutti i modi di aiutarlo, ma, essendo il protagonista accusato di bonapartismo, la cosa diventa impossibile. Negli anni dal 1825 e 1830 subisce gravi perdite e solo grazie a Sinbad il Marinaio (ovvero Edmond Dantès) risolleva i suoi affari.

Maximilien Morrel — Figlio di Pierre, capitano nel reggimento degli Spahis e ufficiale della Legion d'Onore. Maximilien conosce il Conte di Montecristo a Parigi, in occasione di una colazione a casa di un amico comune, Albert de Morcerf. Riconoscendo in lui l'onestà del suo antico armatore, il Conte gli si affeziona come fosse suo figlio. Il cuore del giovane Morrel arde per Valentine de Villefort, la quale lo ricambia, ma i due devono incontrarsi in segreto, essendo la giovane promessa a Franz d'Epinay. Quando Valentine muore, almeno così crede, cade nella disperazione e decide di uccidersi: il Conte (di cui si fidava ciecamente) però lo fa desistere dal proposito, promettendogli di aiutarlo se accetterà di ritardare di un mese la propria fine. Alla scadenza del periodo prefissato, sull'isola di Montecristo, Edmond gli fa incontrare l'amata Valentine, che adesso potrà sposare.

Julie Herbault — Figlia di Pierre, sposata con Emmanuel Herbault.

Emmanuel Herbault — Marito di Julie, ha lavorato per lungo tempo alla Morrel & Figlio come contabile: è genero di Pierre e cognato di Maximilien.

Coclite — Fedele e scrupoloso commesso della casa Morrel e Figlio.

I marchesi di Saint-Méran

Marchesi di Saint-Méran — Genitori di Renata, fedeli monarchici, avversi ai bonapartisti e non disposti a mischiare la loro nobiltà con persone di classe sociale diversa dalla loro. Danno in sposa la figlia Renata a Gérard de Villefort, e poi cercano di maritare la nipote Valentine, loro unica erede, con il nobile barone Franz d'Epinay. Entrambi i marchesi vengono avvelenati a morte dalla signora Villefort, per rendere Valentine unica erede del patrimonio.

Renata di Saint-Méran — Figlia ed unica erede dei marchesi di Saint-Méran, sposa Gérard de Villefort: il matrimonio è coronato dalla nascita di Valentine, ma qualche anno dopo Renata muore.

Altri personaggi importanti

Faria — Scienziato italiano, in giovinezza fu precettore dei figli del Conte Spada, grazie al quale venne a conoscenza dell'immenso tesoro di famiglia. Mentre è imprigionato nel Castello d'If, nel tentativo di scavare un tunnel che, secondo i piani, doveva condurlo fuori dal castello, sbuca invece nella cella di Edmond Dantès, con il quale stringe amicizia. Diventato come un padre per Edmond, insegna al giovane le lingue e le scienze, e gli rivela il suo tesoro nascosto sull'isola di Montecristo. Muore in prigione colpito da un letale attacco apoplettico. Edmond riesce a fuggire di galera sostituendosi al suo cadavere.

Luigi Vampa — Bandito italiano e amico del Conte di Montecristo, aiuterà quest'ultimo nel suo piano di vendetta.
Nato da una famiglia di pastori, ben presto mette in evidenza un'intelligenza fuori dal comune, ed il conte della zona si prende cura di lui insegnandogli a leggere e a scrivere. Comincia inoltre ad intagliare piccoli oggetti destinati ai venditori di giocattoli; con il ricavato compra regali alla sua cara amica, la contadina Teresa, la sola che riesce a tenere a bada lo spirito ardente e burbero del giovane. A soli diciassette anni Luigi Vampa aveva fama di essere il più bravo contadino dei dintorni, oltre che un eccellente tiratore con il suo fucile. Nel medesimo periodo una banda di briganti si nascondeva sui monti vicini, guidata dal celebre Cucumetto, tanto audace quanto brutale; un giorno, mentre erano soli, Teresa e Luigi salvano la vita al capobandito, nascondendolo ai gendarmi. Un giorno Vampa incontra Sinbad il marinaio (Edmond Dantès) che, persa la strada, lo ferma per chiedergli indicazioni. Tornato dove aveva lasciato Teresa, Vampa vede che è stata rapita: scorto il rapitore, lo uccide con un colpo di fucile; egli era Cucumetto, che si era invaghito della giovane la prima volta che l'aveva vista. A quel punto Vampa prende con sé Teresa e si unisce ai banditi, facendosi eleggere loro capitano: il brigantaggio permetterà a Luigi di garantire a Teresa, invidiosa della bella vita della nobiltà della zona, una vita lussuosa, seppur pericolosa. Il Conte di Montecristo ha occasione di aiutarlo in diverse situazioni, e questo gli permette di avere una sincera riconoscenza da parte del bandito, che gli si mette a completa disposizione. Durante il carnevale romano, rapisce Albert de Morcerf, ma quando scopre che era amico del Conte, lo libera immediatamente. Analogamente rapisce, questa volta su ordine di Montecristo, il banchiere Danglars, quando questi si reca a Roma per riscuotere il credito, e lo libera solo quando il piano di vendetta di Edmond si conclude.

« [...] è un bandito, vicino al quale i Decesaris e i Gasperoni sono specie di chierichetti. »

Gaspard Caderousse — Sarto e vicino di casa del padre di Edmond, partecipa - da ubriaco - al piano per incastrare Dantès. Dopo aver fallito come sarto, gestisce un albergo a Ponte di Gard e collabora con dei contrabbandieri. Caderousse è il primo, fra i vecchi "conoscenti" di Dantès, ad essere rintracciato e ricontattato dal giovane marinaio dopo la fuga dalla prigione, e lo fa presentandoglisi sotto le mentite spoglie dell'abate Busoni. L'abate gli racconta come sia stato mandato dal giovane Dantès (essendo stato il suo confessore prima della prematura "morte") con l'incarico di scoprire la verità sulla sua ingiusta incarcerazione, e per dividere il valore di un enorme diamante da cinquantamila franchi (che aveva con sé) tra le uniche persone che lo avevano sinceramente amato: il padre, la fidanzata e i suoi tre migliori amici (Danglars, Fernand e lo stesso Caderousse). Il vecchio Gaspard, allora, inizia a raccontare come andarono veramente le cose all'epoca dell'arresto di Dantès, raccontando anche quello che fecero e riuscirono a diventare quelle persone "care" al marinaio, sottolineando come solo lui sia stato veramente amico di Edmond e, di certo, l'unico ad avere bisogno del diamante (essendo gli altri diventati molto ricchi). L'abate/Dantès, allora, decide di consegnare il diamante interamente a Caderousse. Ma la cupidigia di questo e della moglie Carconta è insaziabile e porterà all'omicidio del gioielliere a cui avevano venduto la gemma, in modo da tenere per sé non solo il denaro corrispondente al valore del diamante, ma conservando pure la pietra preziosa. Arrestato parecchio tempo dopo, Caderousse viene rinchiuso in galera per complicità con la moglie, riconosciuta come colpevole materiale dell'omicidio. Liberato da Lord Wilmore (Edmond), che voleva far evadere il suo compagno di cella, Benedetto (figlio di Gérard de Villefort e della signora Danglars), Caderousse diventa un criminale. A Parigi ritrova Benedetto, che all'epoca si faceva chiamare Andrea Cavalcanti, e lo ricatta in cambio del suo silenzio: ma i soldi ben presto non gli sono più sufficienti, così decide di compiere una rapina nella villa del Conte di Montecristo. Dantès viene però avvertito da Andrea (tramite un biglietto "anonimo"); così, travestito da abate Busoni, lo coglie in flagrante per poi lasciarlo andare, sapendo che fuori c'è Benedetto che lo aspetta. Poco dopo, infatti, i gridi di Caderousse, pugnalato a morte dall'ex compagno di cella, richiamano Edmond: durante l'agonia Dantès riesce a fargli firmare la denuncia contro Benedetto e, rivelatosi a lui come Edmond Dantès, ne ottiene il sincero pentimento.
Questo personaggio è differente dagli altri autori della congiura, perché ha partecipato ad essa senza volerlo (era ubriaco), ma è troppo vigliacco (in quanto coinvolto, seppur involontariamente) per raccontare la verità. Edmond gli darà più volte la possibilità di redimersi dai suoi peccati, ma egli, mal consigliato e trascinato dalla cupidigia, dalla pigrizia e dall'orgoglio, continua a compiere malefatte.

« [...] alto, secco e nerboruto, vero tipo meridionale, cogli occhi infossati e vivaci, col naso a becco d'aquila e i denti bianchi come quelli di un animale carnivoro. »

Louis Dantès — Padre di Edmond, è molto affezionato al figlio. Durante la prigionia di Edmond rimane senza soldi, ma l'orgoglio lo costringe a lasciarsi morire di fame piuttosto che chiedere aiuto e denunciare così la sua indigenza.

Barone Franz Quesnel d'Epinay — Figlio del generale d'Epinay (ucciso in duello nel 1815 da Noirtier de Villefort), è grande amico di Albert de Morcerf. Conosce Dantès, sotto l'identità di Sinbad il marinaio, durante una sosta all'isola di Montecristo, poi lo ritrova durante i festeggiamenti del carnevale a Roma, assieme ad Albert. Promesso sposo, anche se non innamorato, di Valentine de Villefort, il suo matrimonio salta quando Noirtier, nonno della giovane, gli svela di essere stato lui ad uccidere il padre.

Personaggi minori

Lucien Debray — Segretario del Ministro degli Interni. Amico di Albert de Morcerf, confidente e amante della signora Danglars. Debray è inoltre in affari con la signora Danglars: questa, infatti, incomincia ad investire (dietro suggerimento di Lucien) parte del denaro del marito, ottenendo ottimi rendimenti da spartire con il suo amante. Così, Debray diventa milionario, mentre la signora Danglars può vivere agiatamente nonostante la bancarotta e l'annessa fuga del marito.

Beauchamp — Giornalista amico di Albert de Morcerf: scopre per primo il segreto di Fernand Mondego e del suo tradimento del pascià Alì-Tebelen, ma non diffonde la notizia in nome dell'amicizia con Albert.
Barone Raoul de Château-Renaud — Altro amico di Albert de Morcerf: Maximilien Morrel gli salvò la vita in Africa.

Capitoli

L'arrivo a Marsiglia
Padre e figlio
I Catalani
Il complotto
Il pranzo di fidanzamento
Il sostituto del Procuratore del Re
L'interrogatorio
Il Castello d'If
La sera del fidanzamento
Il gabinetto delle Tuileries
Il lupo di Corsica
Padre e figlio
I cento giorni
I due prigionieri
Il numero 34 e il numero 27
Lo scienziato
La cella dello scienziato
Il tesoro
Il terzo attacco
Il cimitero del Castello d'If
L'isola di Tiboulen
I contrabbandieri
L'isola di Montecristo
L'abbagliamento
Lo sconosciuto
L'albergo del Ponte di Gard
Il racconto
I registri delle prigioni
La casa Morrel
Il 5 settembre
L'Italia e Sinbad il marinaio
Risveglio
I briganti
Le apparizioni
Il patibolo
Il carnevale di Roma
Le catacombe di S. Sebastiano
Il convegno
La colazione
La presentazione
Bertuccio
La casa di Auteil
La vendetta
Pioggia di sangue
Il credito illimitato
La pariglia grigio-pomellata
Ideologia
Haydée
La famiglia Morrel
Piramo e Tisbe
Tossicologia
Roberto il Diavolo
Rialzo e ribasso dei fondi
Il maggiore Cavalcanti
Andrea Cavalcanti
Il recinto di trifoglio
Il signor Noirtier Villefort
Il testamento
Il telegrafo
Mezzo di liberare un giardiniere dai ghiri che gli mangiano le pesche
I fantasmi
Il pranzo
Il mendico
Scena coniugale
Disegni di matrimonio
L'ufficio del Procuratore del Re
Un ballo in estate
Le informazioni
La festa del ballo
Il pane e il sale
La signora di Saint-Méran
La promessa
La tomba della famiglia Villefort
Processo verbale
Progressi del signor Cavalcanti figlio
Haydée
Ci scrivono da Giannina
La limonata
L'accusa
La stanza del fornaio in ritiro
Rottura
Giustizia di Dio
Beauchamp
Viaggio
Il giudizio
La sfida
L'insulto
La notte
L'incontro
Madre e figlio
Suicidio
Valentina
Confessione
Padre e figlia
Contratto di nozze
La strada del Belgio
L'osteria della Campana e della Bottiglia
La legge
L'apparizione
Locusta
Valentina
Massimiliano
La firma di Danglars
Il cimitero Lachaise
La separazione
La fossa dei leoni
Il giudice
Le assise
L'atto d'accusa
L'espiazione
La partenza
La casa dei viali di Meillan
Il passato
Peppino
La carta di Luigi Vampa
Il perdono
Il 5 ottobre

Critica

La prima parte di Montecristo, fino alla scoperta del tesoro, è un pezzo perfetto di racconto a effetto; non c'è mai stato un uomo che abbia partecipato a queste commoventi avventure senza un fremito, eppure Faria è un personaggio di cartapesta e Dantès poco più di un nome. Il seguito non è che il dilungarsi di un errore, cupo, sanguinoso, innaturale e stupido; ma quanto a questi primi capitoli, non credo esista un altro volume nel quale si possa respirare la stessa inconfondibile atmosfera di romanzo. (R.L. Stevenson).

[Il Conte di Montecristo] è forse il piú «oppiaceo» dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subito un'ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla «punizione» da infliggere loro? Edmondo Dantès gli offre il modello, lo «ubbriaca» di esaltazione, sostituisce il credo di una giustizia trascendente in cui non crede piú «sistematicamente». (A. Gramsci).

Ancora oggi può interessare la grossa ma genuina facoltà inventiva, che associa, in un rapido susseguirsi, senza preoccupazioni di una trama ragionata e verosimile, le più straordinarie avventure, raccontate con l'ausilio di uno stile che non manca di agilità e di movimento, anche se numerosi luoghi comuni guastino la verità psicologica dei caratteri e la coerenza delle vicende. (Amelia Bruzzi).

Il Conte di Montecristo è senz'altro uno dei romanzi più appassionanti che siano mai stati scritti e d'altra parte è uno dei romanzi più mal scritti di tutti i tempi e di tutte le letterature. (U. Eco).

Il Conte di Monte-Cristo è una sterminata hilarotragedia, dove il riso e il delitto, il gioco e il Male Assoluto si sfiorano e si intrecciano. Il lieve tocco ironico, lo spirito settecentesco, l'allegretto sono presenti in ogni capitolo. (P. Citati).

Alessandro Dumas sfoggia non poche qualità del grande scrittore: e non delle secondarie. In primo luogo una sovrana impudenza; un insieme di complicità e oltraggio nei confronti del lettore; nessun patetismo, neppure quando ricorre a situazioni obiettivamente patetiche. E ancora, il gusto del gioco, della mistificazione; l'onesta carenza morale; una nobile guitteria, che gli detta la mossa esatta per scatenare la consenziente credulità del pubblico. (G. Manganelli).

Il quadro socio-storico, nel Conte di Montecristo, forse è la componente di maggiore rilievo: la facilità del guadagno, dello sperpero di danaro, delle corse irrefrenabili su per la scala sociale di affaristi spregiudicati e funzionari di mezza tacca che sapevano sfruttare la politica, le amicizie di qualità a unico profitto personale; quindi il precipizio in cui tante improvvise fortune finanziarie piombavano a terra con la velocità del suono, e travestimenti conseguenti, lacrime per alcuni e per altri gioie: questa la vera sostanza del romanzo. (E. Siciliano).

Un motivo che riveste un fascino perenne: il nesso maestro-allievo. Tra Faria e Dantès si stabilisce il rapporto, l’intesa, la complicità, la devozione che nasce tra maestro e allievo. Dantès deve tutto al vecchio: ma non importa tanto il tesoro abbagliante; gli deve la conoscenza. (L. Canfora).

Tagli e censure nelle versioni italiane

La traduzione italiana attualmente più diffusa de Il conte di Montecristo, ossia quella attribuita a Emilio Franceschini, più volte pubblicata da Mondadori e BUR, presenta numerosi tagli e censure.

Questo succede, ad esempio, ogniqualvolta un personaggio venga paragonato a un dio. Così, nel capitolo 31

(«L'Italia e Sinbad il marinaio»), Edmond Dantès non si presenta a Franz come le roi de la création («il re della creazione»), né poco più avanti, nel capitolo 33 («Banditi romani»), Luigi Vampa appare beau, fier et puissant comme un dieu («bello, fiero e potente come un dio»), bensì soltanto «bello, superbo e potente». Inoltre, nella traduzione di Franceschini, risultano mancare intere frasi o paragrafi. Si veda, ad esempio, il finale del succitato capitolo 31:

(FR)

« Alors ce fut une volupté sans trêve, un amour sans repos comme celui que promettait le Prophète à ses élus. Alors toutes ces bouches de pierre se firent vivantes, toutes ces poitrines se firent chaudes, au point que pour Franz, subissant pour la première fois l'empire du haschich, cet amour était presque une douleur, cette volupté presque une torture, lorsqu'il sentait passer sur sa bouche altérée les lèvres de ces statues, souples et froides comme les anneaux d'une couleuvre; mais plus ses bras tentaient de repousser cet amour inconnu, plus ses sens subissaient le charme de ce songe mystérieux, si bien qu'après une lutte pour laquelle on eût donné son âme, il s'abandonna sans réserve et finit par retomber haletant, brûlé de fatigue, épuisé de volupté, sous les baisers de ces maîtresses de marbre et sous les enchantements de ce rêve inouï. »

(IT)

« Allora, per Franz che subiva la prima volta l'effetto dell'hashish, fu una voluttà, un amore come quello che prometteva il Vecchio della Montagna ai suoi seguaci. »
Anche il finale del capitolo 40 («La presentazione») risulta incompleto, seppure in misura minore:

(FR)

« «Décidément», dit-il, «les hommes ne sont pas égaux; il faudra que je prie mon père de développer ce théorème à la Chambre haute.» »

(IT)

« «Davvero» disse, «gli uomini non sono tutti eguali.» »
Di portata decisamente maggiore è lo stravolgimento del capitolo 35, già a partire dal titolo: «La mazzolata» in francese, «Il patibolo» in italiano. La «mazzolat(ur)a» è un tipo di esecuzione pubblica molto cruenta, inflitta ai condannati a morte per mezzo di una mazza percossa sul cranio della vittima. Nell'edizione italiana, l'intera descrizione della mazzolata è sostituita da una più blanda impiccagione:

« I due aiutanti avevano portato a grande stento il paziente ai piedi della scala fatale. Il misero si dibatteva, si contorceva, e puntava i piedi, gettandosi con tutta la persona all'indietro. Uno di quei due tentò d'acquistare qualche vantaggio col salire alcuni scalini dalla sua parte, e tirarlo a sé mentre l'altro lo avrebbe sospinto all'insù. In quell'attimo il carnefice lo afferrò per la vita e lo sollevò da terra. Il misero, senza punto d'appoggio e tirato e sospinto, in un attimo fu sotto al laccio. »

Nel testo originale, la descrizione della mazzolata è molto più cruenta e giustifica la reazione di Franz – che si trova a cadere mezzo svenuto – al turpe spettacolo:

(FR)

« Les deux valets avaient porté le condamné sur l'échafaud, et là, malgré ses efforts, ses morsures, ses cris, ils l'avaient forcé de se mettre à genoux. Pendant ce temps, le bourreau s'était placé de côté et la masse en arrêt; alors, sur un signe, les deux aides s'écartèrent. Le condamné voulut se relever, mais avant qu'il en eût le temps, la masse s'abattit sur sa tempe gauche; on entendit un bruit sourd et mat, le patient tomba comme un bœuf, la face contre terre, puis d'un contre-coup, se retourna sur le dos. Alors le bourreau laissa tomber sa masse, tira le couteau de sa ceinture, d'un seul coup lui ouvrit la gorge et, montant aussitôt sur son ventre, se mit à le pétrir avec ses pieds. A chaque pression, un jet de sang s'élançait du cou du condamné. »

(IT)

« I due aiutanti avevano portato il condannato al patibolo e là, malgrado i suoi sforzi, i suoi morsi, le sue grida, lo avevano costretto a mettersi in ginocchio. Intanto il boia si era messo di lato con la mazza sollevata; poi a un suo cenno i due aiutanti si spostarono. Il condannato volle rialzarsi, ma prima di averne avuto il tempo la mazza si abbatté sulla sua tempia sinistra; si udì un rumore sordo e cupo, il condannato cadde come un bue con la faccia a terra e poi, per il contraccolpo, si rivoltò sulla schiena. Allora il boia lasciò cadere la mazza, prese il coltello dalla cintura e con un colpo solo lo sgozzò. Quindi salitogli sul ventre, si mise a pestarlo con i piedi. A ogni pressione un fiotto di sangue sprizzava dal collo del condannato. »
Significativo è inoltre il taglio che riguarda la spiegazione che Faria dà a Dantès circa i motivi della sua reclusione (capitolo 16 - «Lo scienziato»):

(FR)

« Moi? parce que j'ai rêvé en 1807 le projet que Napoléon a voulu réaliser En 1811; parce que, comme Machiavel, au milieu de tous ces principicales qui faisaient de l'Italie un nid de petits royaumes tyranniques et faibles, j'ai voulu un grand et seul empire, compact et fort: parce que j'ai cru trouver mon César Borgia dans un niais couronné qui a fait semblant de me comprendre pour me mieux trahir. C'était le projet d'Alexandre VI et de Clément VII; il échouera toujours, puisqu'ils l'ont entrepris inutilement et que Napoléon n'a pu l'achever; décidément l'Italie est maudite! »

(IT)

« Perché ho sognato nel 1807 il progetto che Napoleone ha tentato di realizzare nel 1811. »
La figura del traduttore Emilio Franceschini possiede tratti assai incerti. Il suo nome comparve per la prima volta in un'edizione degli Oscar Mondadori del 1984, in tutto simile ad un'anonima traduzione italiana dell'Ottocento pubblicata da Salani. Secondo la ricostruzione effettuata dall'editore Donzelli, Franceschini non sarebbe mai esistito e tale nome di fantasia sarebbe stato impiegato soltanto al fine di firmare la traduzione anonima, che resiste da ormai due secoli.

Nel 2010 e nel 2011 sono state pubblicate due traduzioni integrali e senza censure del romanzo: una condotta da Gaia Panfili per Donzelli Editore, l'altra da Lanfranco Binni per Garzanti; entrambe sono state effettuate basandosi sulla edizione critica di Claude Schopp, autorevole studioso di Dumas, pubblicata dall'editore Robert Laffont nel 1993. Nel 2012 è stata pubblicata una nuova edizione del Montecristo (formato Universale economica Feltrinelli), sempre basata sulla traduzione di Gaia Panfili. Infine, nel 2013 anche Rizzoli ha proposto una nuova traduzione a firma di Guido Paduano.

Da segnalare pure una precedente traduzione di Giovanni Ferrero, pubblicata da San Paolo (1975) e da Fabbri Editori (2001), rispettosa dell'originale ma non basata sul testo stabilito dallo Schopp, il quale – consultando, quando possibile, il manoscritto di Dumas – ha emendato diverse imperfezioni tipografiche, comprese le rimozioni di interi capitoli.

Elementi storici e leggendari

Il grande tesoro citato nel romanzo, appartenuto alla famiglia Spada e nascosto sull'isola di Montecristo, riprende una leggenda[senza fonte] già esistente legata ad un ipotetico tesoro che i monaci di San Colombano avrebbero nascosto prima della distruzione del potente Monastero di San Mamiliano da parte dei saraceni. Nel romanzo il tesoro è localizzato in una grotta; e in effetti sull'isola esiste, sotto i resti di un eremo, la Grotta di San Mamiliano.

Potrebbe aver ispirato Alexandre Dumas per il personaggio di Edmond Dantès la storia di Pierre Picaud, un personaggio realmente esistito.

Adattamenti cinematografici, televisivi e teatrali

Adattamento a fumetti statunitense del romanzo (Classic Comics n.3, 1942)

Monte Cristo, film diretto da Emmett J. Flynn (1922)
Il conte di Montecristo (Monte-Cristo), film diretto da Henri Fescourt (1929)
Il conte di Montecristo (The Count of Monte Cristo), film diretto da Rowland V. Lee, con Robert Donat (1934)
Il conte di Montecristo (Le comte de Monte Cristo), film diretto da Robert Vernay, con Pierre Richard-Willm (1943)
Il ritorno di Montecristo (The Return of Monte Cristo), film diretto da Henry Levin, con Louis Hayward (1946)
Il conte di Montecristo (Le comte de Monte Cristo), film diretto da Claude Autant-Lara, con Louis Jourdan (1961)
Il conte di Montecristo, varietà televisivo della serie Biblioteca di Studio Uno, con Franco Volpi (1964)
Il conte di Montecristo, sceneggiato televisivo diretto da Edmo Fenoglio, con Andrea Giordana (1966)
Il conte di Montecristo (Montecristo 70), film diretto da André Hunebelle, con Paul Barge e Claude Jade (1968)
Il conte di Montecristo, film TV diretto da David Greene, con Richard Chamberlain (1975)
Il conte di Montecristo, film TV diretto da Ugo Gregoretti (1996)
Il conte di Montecristo (Le comte de Monte Cristo), miniserie televisiva diretta da Josée Dayan, con Gérard Depardieu e Ornella Muti (1998)
Montecristo (Montecristo), film diretto da Kevin Reynolds, con Jim Caviezel e Guy Pearce (2002)
Il conte di Montecristo (巌窟王 Gankutsuō), serie anime diretta da Mahiro Maeda (2004)
Il conte di Montecristo, il musical, di Robert Steiner e Francesco Marchetti, regia di Jocelyn Hattab (2007)
Il conte di Montecristo, il musical, di Robert Steiner e Francesco Marchetti, regia di Gino Landi (2008)
Revenge, serie televisiva di Mike Kelley, liberamente ispirata (2012)

Casaleggio getta la maschera

  
di Luciano Lago
Potevamo credere (anche se con qualche dubbio) fino a ieri l’altro che il movimento dei 5 Stelle di Grillo rappresentasse una svolta in Italia nella contestazione al sistema, nonostante le numerose ambiguità sui temi fondamentali dell’opposizione all’eurocrazia ed al sistema finanziario delle centrali di potere dominanti.
I dubbi sono caduti e si sono trasformati in certezze dopo l’ultima intervista di Roberto Casaleggio  al Fatto Quotidiano.
Dopo aver risposto alla domanda  postagli sull’uscita dell’euro con il solito modo ambiguo, affermando che l’Italia deve ricevere “garanzie” dall’Europa e che il problema non è l’euro ma il modo in cui viene gestito e che il vero problema dell’Italia è il debito pubblico (sic) che non diminuisce .
A successiva domanda del giornalista: “Chi se la prende con l’euro dice che la crisi italiana non dipende da corruzione, burocrazia, sprechi, evasione fiscale…”

Risponde Casaleggio : “
L’euro e l’Europa non devono essere un alibi. Noi abbiamo oggi 800 miliardi di spesa. Di questi, 100 sono tasse sul debito. Degli altri 700, possiamo tagliarne 200. Io discuterò con l’Europa sulla gestione, ma non per questo sono esonerato dal fare pulizia a casa mia”.
Quindi  con questa inequivocabile risposta Casaleggio getta la maschera e si schiera dalla stessa parte della troika di Bruxelles e Francoforte e di quanto questa sostiene: il problema dell’Italia secondo lui è l’eccesso di spesa pubblica ed il debito,  nessuna parola sul fatto che il debito si stato creato artificialmente dal cartello bancario sovranazionale dal momento del divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro (1981) voluto da Andreatta e Ciampi, con l’effetto di far schizzare verso l’alto i tassi d’interesse sul debito che fino a quel momento corrispondevano a circa il 60% del PIL. Vedi “Le vere cause del debito pubblico italiano”.

Di conseguenza Casaleggio ed il suo movimento  avallano sostanzialmente la stessa posizione di Napolitano, di Monti, di Letta, di Draghi e della Merkel secondo i quali  la soluzione in Italia sia il taglio della spesa pubblica e le privatizzazioni del patrimonio dello Stato.
Neanche una parola poi sul fatto, oggettivamente provato, che l’euro è stato creato dalle centrali di potere finanziarie per  esautorare la sovranità degli Stati europei ed assoggettare questi  ad organi non rappresentativi, non controllati  ed oligarchici costituiti dalla Commissione Europea e dal Consiglio Europeo che emanano le loro direttive sulla testa dei popoli.
Tanto meno Casaleggio rileva il completo dominio della finanza sulla politica che si attua mediante la subordinazione degli Stati e dei Parlamenti ai voleri delle centrali finanziarie e della BCE in violazione dei principi base della stessa Costituzione (art. 42 e 43).
Per Casaleggio, Grillo ed il Movimento 5 Stelle il problema sta tutto nella casta politica, nella partitocrazia corrotta, nella  rapporti Stato- mafia, nei finanziamenti pubblici ai partiti, nei rapporti di affari dei partiti, negli inceneritori, ecc..  Neanche una parola sul tema della sovranità.
L’unica concessione che fa Casaleggio (bontà sua)nella sua intervista  è quella della necessità di rivedere il “Fiscal Compact” ed ottenere deroghe al vincolo del 3%.
Per Casaleggio e Grillo non esiste quindi una mafia dei poteri finanziari (ben più potente delle mafie locali) che hanno soggiogato l’Europa, non sono rilevanti le centinaia di miliardi sottratti all’Italia dal sistema dell’usura del cartello bancario sovranazionale dominato dai Rotschild, non è essenziale che l’Italia rinegozi i trattati europei fondamentali e vincolanti da Mastricht a Lisbona al MES/ESM, ma tutto dipende da “una buona gestione del sistema euro”.
Questo spiega perché il movimento 5 Stelle ha rifiutato qualsiasi apparentamento con il FN della Marine Le Pen e con gli altri movimenti che in Europa si battono contro l’Euro e l’oligarchia tecno finanziaria che si cela dietro le istituzione della UE.
Questo spiega perché sui temi sostanziali come l’opposizione all’immigrazione di massa ed africanizzazione dell’Italia, allo “ius soli” conseguente, un tema caro ai mondialisti, il movimento 5 Stelle abbia preso posizioni di accondiscendenza con questi principi.
A questo punto possiamo affermare con certezza, al di là delle posizioni apprezzabili mantenute da qualche esponente dei 5 stelle in varie occasioni, il movimento 5 Stelle è utilizzato come un falso veicolo di contestazione che vuole portare la protesta delle masse di italiani scontenti su binari innocui per il vero potere: la contestazione alla casta politica (già screditata)  ed al sistema dei partiti senza toccare gli interessi delle centrali finanziarie sovranazionali.
In pratica con le dichiarazioni di Casaleggio  il movimento 5 Stelle si rivela per quello che è: una sorta di “movimento arancione” etero diretto da centrali esterne o, se vogliamo, una “primavera araba” suscitata in Italia.
I cittadini italiani e quanti speravano che  Grillo ed i “grillini” fossero una leva diretta a scardinare il sistema, possono regolarsi ed esserne consapevoli: al vertice del movimento si annidano dei truffatori della fiducia accordata e manipolatori della protesta.
fonte: www.nocensura.com

venerdì 25 aprile 2014

la passione



 è un film del 2010 diretto da Carlo Mazzacurati. La pellicola, prodotta da Fandango, è stata presentata alla 67ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, con uscita nelle sale italiane il 24 settembre 2010. Racconta le avventure di un regista autoriale in crisi, interpretato da Silvio Orlando, che si ritrova a dover dirigere controvoglia una rappresentazione della Passione di Gesù in un piccolo paese della Toscana. Nel cast, Orlando è affiancato da Giuseppe Battiston, Marco Messeri, Corrado Guzzanti, Kasia Smutniak, Cristiana Capotondi e Stefania Sandrelli.

Trama

Roma. Gianni Dubois è un regista da cinque anni in crisi creativa, che mentre si trova nella sua casa in Piazza Annibaliano viene chiamato d'urgenza in Toscana, dove scopre che le vetuste tubature della sua casa (il film è stato girato quasi completamente a Casale Marittimo, ma anche a Montecatini Val di Cecina e in altre zone limitrofe), hanno rovinato la parete dell'edificio adiacente, una chiesa, mirabilmente adornata da un affresco del '500. L'amministrazione comunale locale gli propone un modo per evitare la denuncia alla Soprintendenza dei Beni culturali: dirigere la tradizionale sacra rappresentazione della Passione di Gesù. Contemporaneamente, a Dubois capita l'occasione di rivalsa: la starlette televisiva del momento, Flaminia Sbarbato, ha intenzione di girare un film con lui, ma l'uomo continua a non avere in mente alcuna idea.

Mentre è costretto a restare in paese, viene affiancato da Ramiro, un ex-galeotto che si dimostra bravissimo come aiuto-regista e riesce ad organizzare l'intera rappresentazione. Resta solo un ruolo vacante, quello di Gesù, e l'unica soluzione è Abbruscati, celebrità locale, meteorologo dilettante e attore tanto incapace quanto permaloso. Mentre Ramiro scopre di essere ricercato dalla polizia ed è costretto a scappare dal paese, lo stressato Dubois finisce con il litigare sia con Abbruscati, con il quale viene obbligato dagli organizzatori a scusarsi per il bene della rappresentazione, sia con Flaminia, che non ha accettato il soggetto che il regista ha improvvisato, che con il produttore il quale rompe i rapporti con lui.

La notte della rappresentazione sembra tutto a posto, ma Abbruscati si fa male ed è impossibilitato a recitare e Dubois sembra ormai arrendersi di fronte a questo fallimento. Ma quando le luci si accendono, al centro della rappresentazione appare il corpulento Ramiro, un Gesù che nonostante il pubblico inizi deridendolo, grazie ai consigli di Dubois, riesce ad offrire una rappresentazione genuina, toccante e applaudita, portandola al successo, anche se alla fine della Passione un violento temporale disperde pubblico e attori, lasciando soli sulle croci Ramiro e i due extra-comunitari ingaggiati nel ruolo di ladroni. Dubois torna infine a casa e mentre è in sosta in un autogrill prende carta e penna e inizia a sviluppare il soggetto del suo nuovo film.

Produzione

« La Sacra Rappresentazione è uno dei momenti più alti della cultura italiana. Mi piaceva l'idea di far precipitare un gruppo di personaggi inconsapevoli in una situazione di bellezza estrema. In questo caso è la storia di un uomo che perde l'ispirazione, ma la ritroverà attraverso questa catarsi. »

(Carlo Mazzacurati durante la conferenza stampa del film)

Il regista Carlo Mazzacurati ha spiegato che lui stesso si è trovato, suo malgrado, a dirigere una Sacra Rappresentazione, esperienza nella quale è nata l'idea di un film, che ha voluto parlare della paura del blocco creativo per gli artisti, in una situazione di oggi dove «la libertà e il coraggio sono fondamentali, ma non sono sufficienti, e prevalgono gli obiettivi economici». Mazzacurati cita la «sovrapposizione del destino di un "povero Cristo" a quella del Cristo delle rappresentazioni sacre, delle processioni di paese» Aggiungendo inoltre che «non vuole essere una riflessione esistenziale sul mestiere del regista, ma un film sulla paura e il panico di quando si perde l'ispirazione, su un attimo di vuoto. È la storia di un blocco e di uno sblocco».

Silvio Orlando ha dichiarato di aver lavorato molto sui silenzi piuttosto che sulle battute, per un ruolo in un film che da sempre aspettava, ossia poetico e che sintetizza sia la commedia che la tragedia. Giuseppe Battiston ha spiegato come condivida con il suo personaggio la paura verso il pubblico, e il suo Ramiro alla fine trovi «la sua sublimazione nell'amicizia che si crea con il regista Dubois». Cristiana Capotondi infine ha raccontato che il suo personaggio non è ispirato a nessuno in particolare, ma nasce dalla visione del mondo della TV dall'esterno.

Critica

Nicoletta Dose di MyMovies cita la poca originalità del soggetto, ma sottolinea il contesto italiano, dove i potenti e arroganti sfruttano i deboli e gli impotenti come Dubois, ma alla fine «il grido ribelle di chi riconosce l'ingiustizia e non vuole tacere riporta tutto ad un senso di rettitudine ammirevole di cui il nostro paese avrebbe tanto bisogno». Anche Fabio Ferzetti de Il Messaggero rileva come venga rappresentata l'Italia, sebbene il film e le gag siano fiacchi. Lietta Tornabuoni de La Stampa lo definisce «commedia amara intelligente e divertente», lodando la recitazione del cast, Alberto Crespi de L'Unità scrive «Film lieve ma delizioso, fatto di frammenti azzeccatissimi, con attori stupendi», e Roberta Ronconi di Liberazione, nonostante un disappunto iniziale, lo premia apertamente.

Curiosità

Il film è stato girato in Toscana, tra Casale Marittimo, Montecatini Val di Cecina, Montescudaio, Cecina, mentre la scena della crocefissione è stata girata proprio nella torre davanti al Relais Sant’Elena a Bibbona.
La colonna sonora di Carlo Crivelli è stata registrata, invece che in studio di registrazione, in Location recording, al Teatro "La Fragolina" di Fossa (AQ), dall'Orchestra "Città Aperta".