martedì 9 giugno 2015

Ivan Illich: a che servono le crisi?

Paolo Cacciari

Propongo una rilettura di Ivan Illich del lontano 1978 (Disoccupazione creativa, riedito da Boroli, 2005): “Il vocabolo crisi – scriveva – indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i Paesi diventano casi critici. Crisi, parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire ‘scelta’ o ‘punto di svolta’, ora sta a significare: ‘Guidatore dacci dentro!’ Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e di tecnica gestionale”.

Come non vedere che è proprio così? Creare una emergenza , provocare un pericolo catastrofico (il default, la disoccupazione, la Grecia) per annullare i diritti, ribadire il dominio della ragione economica dell’impresa e intensificare le forme di sfruttamento, concentrare il potere economico-finanziario. Del resto sono le stesse persone che prima hanno creato la crisi dai loro posti di comando nelle istituzioni bancarie private che ora sono chiamate a “mettere in ordine” nei conti pubblici. Il loro vero obiettivo: impadronirsi anche delle casse degli stati, dei flussi fiscali, dei beni demaniali.

Quando il mondo è sovrastato da una montagna di debiti pericolanti, coloro che manovrano il denaro diventano sempre più potenti e temuti. I tecnocrati alla guida del sistema finanziario possono giocare a piacimento, con qualche telefonata tra amici, sugli spread, sui tassi di interesse, sulle valute… mettendo con le spalle al muro prima l’uno, poi l’altro governo. L’obiettivo è garantire comunque che i rendimenti dei capitali siano pagati a sufficienza. Tutto il resto – i livelli di occupazione e dei salari, il funzionamento dei servizi pubblici e alle persone, l’istruzione e la sanità - non interessa nulla. I possessori dei titoli del debito sono la nuova classe padrona...

Ancora Illich: “La crisi come necessità di accelerare non solo mette più potenza a disposizione del conducente, e fa stringere ancora di più la cintura di sicurezza dei passeggeri; ma giustifica anche la rapina dello spazio, del tempo e delle risorse”.

La “crescita” è il nuovo falso mito. Tutti sanno in cuor loro che non ci potrà più essere (almeno in questa parte del mondo e nelle misure promesse) ma funziona come fattore sociale disciplinante: se non lavori di più a più buon mercato e con meno tutele sei nemico dell’“interesse generale”. La “crescita” è il nuovo patriottismo che dovrebbe mobilitare le masse nella guerra competitiva tra le diverse aree economiche del pianeta globalizzato dal capitale finanziario. Loro (gli “investitori”, i possessori dei titoli di credito) possono muoversi e fare business dove meglio credono, mentre i lavoratori territorializzati sono messi in competizione tra loro. Lo chiamano “multipolarismo”, si legge “aree speciali di sviluppo”, accordi di libero scambio, patti interbancari, ecc.

La “crescita” è la nuova falsa religione. Il nuovo nome della vecchia ideologia egemone del produttivismo e dello sviluppiamo. Non importa sapere cosa dovrebbe crescere, quali produzioni per rispondere a quali bisogni umani. L’importante è costringere, attraverso il ricatto del licenziamento selvaggio, la gente a lavorare a qualsiasi condizione.

“Così intesa la crisi torna sempre a vantaggio degli amministratori e dei commissari (…) una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo”, ma Illich scriveva anche: “’Crisi’ può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa”.

fonte:crepanelmuro.blogspot.it

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