di Gianni Lannes
14 febbraio: santi Cirillo e Metodio. Ma san Valentino che fine ha fatto? È sparito dal calendario per decisione del Vaticano nell’anno 1969. Questioni di guerra fredda: un santo cattolico ha inventato la scrittura usata nell’allora Unione Sovietica. Eppure si festeggia. Il culto, comunque, è controverso assai: Terni o Roma? Comunque non era il santo dell’amore, anche se la speculazione commerciale non molla le reliquie.
A Vico del Gargano la leggenda inventata ha plasmato addirittura la moda corrente di un vicolo del bacio e dell'elisir d'amore (mai esistiti prima) per attrarre turisti. Il calendario gregoriano lambiva il 1618 dell’era cristiana (81 anni prima di Terni) quando nel borgo adriatico di origine illirica, «Vonno detti Sindaco ed Eletti pigliare per protettore Santo Valentino Prete per di tutto il Popolo» recita l'atto cartaceo voluto dal feudatario Spinelli. A Vico il martire, patrono per contratto, secondo la credenza popolare - inculcata dalle istituzioni religiose - protegge gli agrumi dalle calamità naturali.
Insomma, tradizioni inventate di sana pianta per soggiogare il popolino. Dopo la proclamazione nel 391 del cristianesimo come religione ufficiale, esso inizia a sostituire le feste pagane con le proprie. Il 15 febbraio, dai tempi della fondazione di Roma, si celebrano i Lupercalia: una festività della fertilità di origine osco-sabellica. Il Lupercale è la grotta sacra al dio Pan. Februare vuol dire purificare. A Roma si sacrificava in onore di Pan Liceo, Pan del Lupi e in onore di Giunone, la dea delle donne e del matrimonio. In Grecia questo periodo dell’anno era chiamato Gamelion (mese del matrimonio), dedicato al matrimonio di Zeus ed Era, e prevedeva riti di purificazione. Si tratta della tendenza a purificare prima che il mondo rinasca a primavera. Ecco il fulcro: fertilità della terra e delle donne. La festa di san Valentino cade il 14 febbraio, quando in base alla credenza popolare di epoca medievale, gli uccelli iniziano ad accoppiarsi per riprodursi.
Lo studio più significativo è di padre Agostino Amore. Nel dodicesimo volume della Biblioteca Sanctorum si legge: «Chi fosse Valentino e quando sia vissuto è impossibile precisare; è presentato come vescovo di Terni, ma non consta con certezza di questa sia dignità. Notizie leggendarie si leggono in una Passione, anteriore all’VIII secolo, in cui si narra che fu inviato a Roma per guarire da un’artrosi deformante il figlio di Cratone l’Ateniese, fu arrestato per ordine del prefetto Placido e, poiché si rifiutò di sacrificare gli idoli, fu decapitato. Il suo corpo fu trasferito a Terni».
Nelle fonti storiche -martirologi e passioni- (Martirologio Geronimiano, Passio Sancti Valentini, Liber Pontificalis, Elogium di San Valentino) rose e innamorati non sono mai menzionati. Qual è la connessione del “santo” con la festa degli innamorati? La tesi del francescano Luciano Canonici è illuminante: «Nel 1465 il papa Paolo II autorizzò il cardinal Giovanni Torquemada a fondare l’Arciconfraternita della SS. Annunziata a Roma, che doveva provvedere e quindi procurare e distribuire la dote per le fanciulle nubili: dote che veniva poi distribuita a Roma, nella sede dell’Arciconfraternita a Santa Maria sopra Minerva, il giorno 14 febbraio di ogni anno. Ora, le ragazze nubili andarono da quel giorno a Roma, per ricevere al dote o parte di essa. Naturalmente, stazionando in chiesa, facevano anche la Comunione e la Confessione; divenne quindi una specie di festa ecclesiastica e devozionale. Quindi quel santo cominciò per questo motivo a essere venerato in modo particolare dalle nubili; specialmente se fidanzate. San Valentino divenne la festa del confermato fidanzamento: e ufficialmente in pubblico». Ha argomentato ancora Canonici: «Da Roma, la festa di san Valentino dei fidanzati emigrò specialmente in Inghilterra e quindi, dalla scoperta dell’America in poi, andò - come eco - a rallegrare le nubende del nuovo mondo».
A partire dal 1960, secondo l'antropologo Alfredo Cattabiani, «è tornata a noi, trasformata e arricchita in una laica ricorrenza nella quale non ci si accontenta più, come un tempo, di scambiarsi bigliettini affettuosi, detti “valentini”, o un fiore, ma è d’obbligo il regalo costoso». In altri termini, è una “tradizione” inventata in Inghilterra alla fine del Settecento. Nell’immaginario globalizzato di oggi è un emblema pubblicitario. La moda di san Valentino è recente: una campagna commerciale di rose e cioccolatini per ottenere la felicità.
La ricorrenza celebrativa vichese di san Valentino rientra a pieno titolo nel processo economico sotteso alla formazione dei patronati e al traffico di reliquie. Fenomeni che preannunciavano la grande guerra contadina: nel regno napoletano scosse gli ordinamenti feudali nel 1647-48 e finì repressa nel sangue. L’adozione pubblica - mediante strumento notarile (caso unico in Italia)- conta quattro secoli. A quel tempo in paese dimoravano poco meno di tremila anime e ben 60 ecclesiastici. La festa ha un arcaico sapore pagano e affonda le sue radici nelle culture agrarie indo-europee. I gesuiti plasmarono la festa pre-cristiana invernale di morte e rinascita dei campi: atteggiamento che induceva le moltitudini a cercare sicurezza e speranza nell’accettazione di un potere sovrannaturale.
Economia, politica ed antropologia a braccetto: il movimento ascensionale per le vie del borgo -ricolmo di arance- è solcato da processioni laiche di confraternite che avanzano con il santo verso la “coppa” (collina) del Carmine. Qui viene impartita la benedizione religiosa ai sottostanti giardini d’agrumi e agli alberi d’alloro della “Vascianza" (luoghi vicini al mare). Durante la processione per le vie del paese, ormai irriconoscibile per via della speculazione edilizia che ha cancellato quasi totalmente la sua identità medievale, sulla statua del santo viene posizionato in bella evidenza il denaro, che ad ogni sosta i fedeli offrono spontaneamente (un'usanza profanatoria della sacralità, introdotta nel rito a partire dal XX secolo).
Il dito di san Valentino è un indice meteorologico: rivolto in basso indica rovinosi presagi per gli alberi dalle foglie lucenti. La processione del santo protettore -adornato nella chiesa madre di arance- ripete l’arcaico schema simbolico-rituale del primaverile matrimonio degli alberi che si ri-generano. Un tempo l’intermediario divino regolamentava perfino i contratti di vendita degli agrumi. Annotava un secolo fa lo storico vichese Giuseppe del Viscio: «se la valutazione si fa prima del 14 febbraio il proprietario è obbligato ad abbonare al negoziante il 10 per cento sulla quantità della frutta risultante dalla stima; se dopo quel giorno non si dà percentuale di sorta».
Le fonti storiche rivelano che sul Gargano la presenza di agrumi diviene significativa nell’anno Mille. Gli Arabi propagarono quest’arboricoltura a partire dall’VIII secolo, mescolandola alla tradizione ellenistica. Nella Puglia dilaniata dalla siccità, gli agrumi -arance, limoni, mandarini e cedri (“limongelle”)- ebbero il più vitale nucleo d’insediamento -tuttora in vita nonostante la colonizzazione “unitaria” - nell’areale rivierasco settentrionale di Vico, Rodi e Ischitella.
Grazie ai privilegi del microclima, alla eccellente preparazione agronomica dei contadini, ma soprattutto alla presenza di centinaia di affioramenti sorgivi d’acqua dolce, in loco prese il via nel ‘700 una sconosciuta avventura dell’agrumicoltura italiana. Annota nel 1791 l’economista Galanti: «Vi sono frutti squisiti e vari; e aranci migliori di quelli di Sorrento in Vico, Ischitella, Peschici e Rodi. Vico e Rodi sono i paesi di maggior traffico di tutta la provincia. Vico tiene 6 trabaccoli con case che trafficano per Trieste, per Venezia, e per Ancona di agrumi. Rodi tiene otto trabaccoli e dodici mezze barche o sieno pinchi da viaggio».
A fine ‘800 questa minuscola area produttiva con 340 mila piante distribuite su 540 ettari produceva con metodi naturali (autenticamente biologici) ad ogni stagione, 100 milioni di frutti (circa 15 mila tonnellate). Vi furono annate, come nel 1847, in cui la rendita dei limoni superava il valore di proprietà del fondo. Nel 1877 quando le arance siciliane si vendevano a 16,6 lire al quintale, quelle garganiche -in considerazioni delle straordinarie qualità organolettiche- spuntavano alla contrattazione anche 36,6 lire.
Al mirabolante guadagno economico, tuttavia, non presero parte contadini e braccianti che, alla stregua di servi della gleba ricevevano, si fa per dire, quando non venivano pagati in natura (con cibo), i più bassi salari del regno Savoia. Dopo la feroce repressione del brigantaggio (una rivolta sociale) pre e post unitaria, risolta nel sangue e nell’emigrazione forzata verso le Americhe, il promontorio garganico iniziò a svuotarsi di presenze umane con grave danno per la civiltà agrumaria. Una società della passività sofferente: “animali erbivori” li definirà nel 1880 la Società italiana di Etno-antropologia. 23 anni dopo l’annessione d’Italia finanziata dalla massoneria inglese, l’Inchiesta agraria di origine parlamentare rileverà «le deficienze alimentari le precarie condizioni abitative, l’analfabetismo, l’alto indice di mortalità».
Il mercato agrumario trascinato dalla domanda inglese e nordamericana, consentì di realizzare alla classe dominante di latifondisti e proprietari terrieri, (feudali e borghesi) profitti eccezionali fino alla crisi del primo ‘900, quando gli Stati Uniti d’America introdussero la tariffa Dingley (un dazio di 3,80 lire per cassa d’agrumi). La domanda delle città mercantili -Napoli, Trieste, Venezia, Vienna, Ragusa- e degli Stati nazionali, aprì un’area periferica dell’Europa a un complesso di relazioni non esclusivamente commerciali fino al primo dopoguerra.
Oggi
sopravvivono miracolosamente i segni della massacrante fatica dei
senza terra - le gore che incanalano l’acqua sorgiva, le
plurisecolari siepi di leccio - ma a prevalere, è ancora un
sistema economico eterodiretto come ai tempi dei “galantuomini”.
Nel Gargano come del resto, nell’intero Mezzogiorno d’Italia - a
causa del neo colonialismo imperante- emigrano o muoiono soprattutto
le intelligenze e prolifera il cemento armato che ha cancellato la
bellezza naturale, la storia, l'archeologia e pure i connotati
identitari della geografia.
Riferimenti:
Gianni Lannes, "San Valentino non è il santo dell'amore", Protagonisti, 1996, Foggia.
Gianni Lannes, La montagna profanata, Edizioni del Rosone, Foggia, 2015.
https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/search?q=Gargano
fonte: SU LA TESTA GIANNI LANNES
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