venerdì 27 febbraio 2015

l'odio razziale di casa nostra - dal 1963 ad oggi di K



In cinquant’anni gli Stati Uniti, grazie al cielo  hanno fatto passi da gigante riguardo la questione razzista, tanto da eleggere infine anche un presidente nero.
Noi invece in questi anni abbiamo alimentato uno strano odio, sfociato addirittura nel fenomeno della Lega. Una strada decisamente inversa che prese forma proprio in quei primi anni sessanta.

Negli anni del miracolo economico tra il ’55 e il ’63 un flusso notevole di persone iniziò a scorrere verso le città del centro-nord Italia, in particolare verso le metropoli di Milano, Torino e Genova, ai vertici del cosiddetto “triangolo industriale”. Dalle regioni del Mezzogiorno si mossero oltre un milione e trecentomila persone. Dalle 69.000 nuove iscrizioni anagrafiche del 1958 nei comuni del triangolo industriale, si passò nel 1963  ad un numero quasi triplicato (183.000), già superato l’anno precedente fino a raggiungere le  200.000 unità. Il peso delle regioni meridionali nell’originare questi flussi migratori aumentò progressivamente fino a costituire nel 1963 quasi i ¾ degli espatri e il 100% del saldo migratorio. Fra le regioni meridionali, Puglia e Campania si attestarono tra le più “ricche di emigranti”.

A Torino e provincia l’elemento scatenante furono le assunzioni alla FIAT: “si trattò di un afflusso improvviso di 15.000 operai giovani, meridionali, nella loro stragrande maggioranza di origine non contadina”. Una massa enorme che si trovò a fare i conti con il problema dell’abitazione. Si cercarono le più disparate soluzioni, quelle che offriva una società stravolta e impreparata a questi arrivi e quelle che suggerì l’arte di arrangiarsi. Nacquero case “fai da te” e piccoli, disordinati, nuclei urbani lontani dal centro, le “coree degli immigrati”, un nome assunto dalla contemporanea guerra in Corea e dall’impressione che ne avevano avuto i residenti nel milanese, ai quali gli immigrati si presentavano come degli esuli, dei profughi, come “gente che aveva perduto una guerra”. Nei paesi della “cintura” milanese, dove i terreni costavano di meno, si formarono dei nuclei urbani (coree), che significano “disordine di accostamento, assurdità urbanistica, cumulo di errori tecnici, promiscuità di ogni tipo, speculazione incontrollabile”. Altrove, come a Torino e a Genova, si verificò l’abbandono del centro degradato da parte dei proprietari che cercarono altrove abitazioni più confortevoli e più moderne. Nella città marittima si svuotarono i quartieri del porto e in generale della città vecchia per riempirsi dei diseredati, lo stesso avvenne a Torino con i Murazzi e San Salvario. Gli emigranti occuparono tutti gli spazi disponibili: soffitte, cantine, sottoscale, vecchie cascine e  persino case destinate alla demolizione, e quando non ci riuscivano vivevano in alloggi sovraffollati. L’esito fu il moltiplicarsi delle bidonville: “ruderi delle case bombardate nel vecchio centro storico erano stati riadattati ad abitazioni primitive…  sulle rive e sui greti dei due corsi d’acqua si stendevano lunghe file quasi ininterrotte di baracche e capanne”.

Da un lato quindi lavoro precario e mansioni dequalificate, dall’altro pessime condizioni di vita fuori dalla fabbrica, a cominciare dal problema della casa. Di fronte a questo scenario, ai meridionali non restò che reagire intensificando il lavoro, nella speranza e nella prospettiva di conquistare una condizione di vita più dignitosa e poter richiamare la famiglia. L’esperienza sui luoghi di lavoro e la condivisione delle sofferte condizioni materiali spinse ad un processo di omogeneizzazione fra emigranti e classe operaia locale, favorito dalla pratica di forme di solidarietà e dalla partecipazione alle lotte sindacali che si andavano organizzando per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro e per l’affermazione di un maggior potere contrattuale in fabbrica. Nel corso dei rinnovi contrattuali si organizzarono scioperi e manifestazioni pubbliche – una novità per gli operai meridionali! -, che culminarono a volte in veri e propri scontri con le forze di polizia, come avvenne nel 1962 in Piazza Statuto a Torino.
Il Nord Italia manifestò subito nei confronti dei “nuovi ospiti” incomprensioni, intolleranza, diffidenza anche tra la stessa classe operaia. Li chiamavano “terroni”, un termine finalizzato a offendere e discriminare. Un termine che io stessa uso tutt’oggi, non tanto per offendere in verità, ma per evidenziare la diversità di personalità, di modi di fare, di abitudini.
Un termine comunque che mi è stato insegnato nell’infanzia, usatissimo in tutta la mia famiglia, soprattutto dai miei nonni materni, operai immigrati dal Veneto. Quel substrato sociale lì, di miseria, sfruttamento e ignoranza, invece di creare empatia e quindi complicità, ha sortito l’effetto opposto dando origine, a lungo andare, al fenomeno della Lega. Non credo sentissero minacciata la loro posizione sociale; o per lo meno non era solo questo. Odiare i meridionali immigrati rappresentava il proprio riscatto personale, pubblico e persino morale. Da ultimi diventavano penultimi, i rinnegati che rinnegano, solo puntando il dito sulle diversità razziali. Insomma la solita guerra tra poveri. Eppure è proprio da quella stupida e ignorante forma di appartenenza che prese forma l’ideologia leghista. Pian piano col tempo si passò dall’astio verso il terrone immigrato alle rivendicazioni di massa nei confronti dei nostri connazionali meridionali. Tutti i mali che ci affliggevano erano focalizzati in quella “Roma ladrona” individuata nella cultura e appartenenza meridionalista. Io ho assistito a questo passaggio e ne ho memoria. Anch’io individuavo un problema di gestione della nazione negli apparati statali. Anch’io pensavo si dovesse fare qualcosa per cambiare. Ma ci fu un preciso momento, nei primi anni novanta, che mi resi perfettamente conto dell’enorme differenza che c’era tra le mie rivendicazioni e quelle dell’emergente sentire della Lega Nord. C’era qualcosa di più, c’era un sapore di vendetta, di razzismo bello e buono. Non mi sono mai minimamente avvicinata alle ideologie leghiste, lontanissime dalla mia tradizione culturale e morale. Eppure anch’io provenivo da quelle frange che poi divennero e sono tutt’ora appartenenti alla Lega. Pensate che ho rotto persino i rapporti con parenti per questioni politiche.
Quest’odio, questo razzismo non si è fermato, non ha avuto nemmeno un calo nonostante le disfatte, gli inciuci leghisti con la mafia e la ‘ndrangheta in particolar modo. Anzi è aumentato, indirizzato adesso ancor di più verso gli stranieri. Sapete cosa dice il leghista tipo? “Ci portano via anche i posti in ospedale” riferito agli extracomunitari. Una situazione disperata, una situazione che io non sopporto più.
Ecco dove ci hanno anche condotto quegli anni lì del boom economico.

Kamala

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