venerdì 5 maggio 2017

non si butta via niente!

La donna e il suo ruolo di recupero del materiale e dell'immateriale


NB: Il presente saggio è un aggiornamento dell’omonimo contributo pubblicato sul libro a cura di Silvano Crepaldi “La metà imperfetta”, edito da Asino Chi legge nel 2014.
Il ruolo della donna, tradizionalmente, è sempre stato molto complesso, soprattutto nel territorio del Vco. Erano le donne, ad esempio, quelle che si occupavano di tramandare le tradizioni, che erano le "depositarie" del mantenimento del sapere, soprattutto quello "magico" e religioso.
Inoltre questo aspetto di mantenimento risulta particolarmente evidente in ambito culinario: sono le donne quelle che si occupano del "riciclo" degli avanzi, del loro riutilizzo, spesso unendovi una abilità manuale che ne conferiva un "valore aggiunto", ancora oggi "spendibile" in campo turistico ed enogastronomico.
La donna assume quindi il ruolo di "trade d'union" tra passato e futuro, tra tradizione ed innovazione. La logica che sta alla base di questo lavoro, se vogliamo, è quella del "non si butta via niente": in una economia tendenzialmente povera come quella tradizionale agricola e montana, non era consentito buttare via gli "avanzi", soprattutto quelli di cibo. Ma il discorso, naturalmente, può essere allargato ad altri oggetti: il cosiddetto "bricolage contadino" portava a non buttare via le falci spuntate, ma a tenerle da parte per trasformarle in coltelli, dar loro nuova vita (Grimaldi, 1998). E così accadeva anche per molti oggetti di casa: nei rari casi in cui si doveva buttare un paio di scarpe, piuttosto che di pantaloni, un tempo (ma l'usanza è viva ancora oggi) si "salvava il salvabile", ovvero si toglievano tutti gli oggetti che avrebbero potuto essere recuperati, dai bottoni alle zip ai lacci.
La cosa maggiormente interessante è che la tendenza femminile al "riciclo" si è tramandata anche nel campo delle tradizioni, in una singolare ri-creatività che mischia tradizione ed innovazione. Gli antichi saperi erboristici precristiani, giusto per fare un esempio, sono stati salvati dalle donne, che a loro volta hanno subito la stigmatizzazione sociale nel periodo medioevale diventando streghe, incarnazione del male, ma che a loro volta sono rientrate nella società attraverso i riti "cristiani" di raccogliere e benedire le erbe. Analogo discorso per i culti precristiani di matrice vegetale, reinseriti nella liturgia e che rischiavano, anche recentemente, di finire nella "discarica", nel dimenticatoio. Proprio grazie all'impegno (o ingegno?) femminile, certi riti ed usanze non solo si sono salvate, ma addirittura si sono rafforzate tornando ad assumere livelli di partecipazione paragonabili a quelli del secolo scorso.


Le druidesse ovvero il recupero della sapienzialità antica

Che le donne fossero, quantomeno nell'immaginario folklorico, correlate a saperi magico-medicamentosi è facilmente riscontrabile anche nello studio dell'immaginario leggendario ossolano (cfr Ciurleo, 2005). Le cosiddette fate bianche, infatti, diffuse in area montana, prevalentemente in boschi ed ambienti naturali, altro non erano, secondo diversi studi, che le eredi delle antiche druidesse. Analogo discorso sulla figura, spesso ambigua, di fata e strega: si trattava di figure prevalentemente negative (l'equazione strega - brutta e cattiva e fata - bella e buona è spesso fallace, almeno analizzando il folklore ossolano), ma che rappresentavano le depositarie degli antichi saperi, delle ritualità perdute piuttosto che delle conoscenze erboristiche.
Erano infatti le streghe e le fate che si occupavano di curare i casi più gravi, loro che sapevano cosa utilizzare in caso di avvelenamento, loro che sapevano mischiare gli ingredienti e le erbe dell'orto per preparare decotti e "pozioni". È cosa nota che nelle Alpi trentine si coltivasse il papavero da oppio e che con questo si preparassero dei decotti che venivano somministrati ai bambini. Oppure l'utilizzo dell'erba ruta, che poteva, a seconda del dosaggio, "scacciare i vermi" o essere utilizzata come erba abortiva.
Anche in ambito cristiano erano le donne quelle che si occupavano della raccolta delle erbe magiche, nella notte di san Giovanni, anch'esso un periodo ritualmente molto importante, poiché a ridosso del solstizio d'estate e dell'inizio della bella stagione. Si tratta, anche in questo caso, di una interessante permanenza che sottintende una sessualizzazione di alcuni ambiti rituali molto importanti. Molto spesso, nel territorio ossolano, si assiste anche ad una divisione sessuale, in molti casi ancora oggi in vigore, all'interno delle chiese, con le donne che si dispongono nei primi banchi, insieme ai bambini, mentre gli uomini occupano gli ultimi banchi, quando non si piazzano direttamente in piedi in fondo (se non all'esterno) dell'edificio di culto. Ed anche intervistando le persone, salvo rari casi, si nota che l'educazione religiosa dei figli era affidata alle donne (Cfr Ciurleo, 2010; Ciurleo 2014).


Il recupero della tradizione: case study

Che le donne abbiamo un ruolo fondamentale per il recupero delle tradizioni, soprattutto religiose, è evidente. A tal proposito penso che sia necessario citare il  caso della rinascita delle Cavagnette a Trontano.
A Trontano c'è l'usanza di portare in processione, in occasione della festa patronale della Madonna e di san Leonardo (rispettivamente la prima domenica di agosto e la seconda di novembre) le cavagnette, degli alberi rituali particolarmente diffusi sul territorio ossolano. Si tratta di un elemento vegetale alberiforme adornato con fiori, monili, reliquie (per la precisione immagini sacre) e coccarde, che parte da un cestino e che viene portato all'offertorio ed in processione in origine dalle ragazze in età da marito (cfr Ciurleo 2012, in Crepaldi, 2012). La prima volta che feci ricerca su questa complessa realtà rituale fu nel 2008. In quell'occasione vennero portate, da uno sparuto gruppo di donne, tutte abbastanza su di età, tre cavagnette (ve ne era anche una quarta, molto antica, ma non fu portata in processione). La tradizione sembrava stesse oggettivamente per morire, a causa anche di un ricambio generazionale che sembrava essere assente. Iniziò così, da una parte grazie all'interesse suscitato anche in ambito accademico da questo fenomeno degli alberi rituali ossolani (molto diversi da quelli diffusi in Piemonte) e dall'altra grazie all'intervento del gruppo Folk e tradizioni, guidato da Rosalia Zaccheo, una vera e propria sistematica riscoperta del rito, con risultati veramente sorprendenti. Nel giro di pochissimi anni si è assistito ad un'importantissima opera di valorizzazione, dapprima con il restauro di cavagnette antiche, poi con la creazione di nuovi oggetti rituali. E, guarda a caso, la "sapienzialità", o se vogliamo la "direzione artistica", è stata in tutti i casi femminile. È stata una donna a fornire il modello costruttivo entro cui inserire le variazioni del caso, è stata una donna che si è occupata del reperimento dei materiali, è stata una donna a coinvolgere altre donne ed insegnar loro il corretto modo per portarle. Già perché portare la Cavagnetta a Trontano non significa solamente poggiarla e mantenerla in equilibrio sulla testa.
Nel corso di pochi anni si è riusciti a riportare la festa ad una versione, seppur inevitabilmente aggiornata agli standard sociali del XXI secolo, nella sua sostanza molto simile a quella originale. Si è assistito pertanto ad un importante ringiovanimento delle ragazze, che hanno tornato ad essere, anagraficamente, le "ragazze da marito", come testimoniato simbolicamente dall'uso di un fazzoletto piegato posizionato tra i capelli ed il fondo del cestino. Nell'agosto 2014 sono state portate in processione ben una decina di cavagnette, accompagnate ognuna da due donne (che si occupano di tenere aperta la gonna per evitare che si inciampi), per un totale di oltre trenta donne in costume (con l'inserimento di molte ragazze sotto i vent'anni).
Il caso di Trontano è senza dubbio emblematico, ma non è unico in Ossola. Nell'ultimo quinquennio si è assistito ad un vero e proprio revival delle Cavagnette e del folklore legato agli alberi rituali. Ad esempio a Viganella, dove si sono costruite nuove cavagnette, dopo diversi lustri. O a Cravegna, frazione di Croveo, dove, dopo  quasi mezzo secolo di interruzione, sono nuovamente uscite, nel 2012, le Corbelle, portate da un nutrito gruppo di fanciulle biancovestite.


Il costume femminile

Il costume femminile, come è noto, è di fondamentale importanza per la comunità: il "vestito della festa", che accompagnava le donne "dalla culla (o meglio dal matrimonio) alla bara" era un simbolo di appartenenza. Il costume, infatti, era diverso a seconda del paese di provenienza, e le differenze, in particolare nel caso ossolano, erano nei particolari. Il foulard, piuttosto che l'allacciatura del "panet" e la capigliatura sottostante (ad esempio le trecce - quazz - in uso a Vogogna [cfr Ciurleo, 2014]) piuttosto che il ricamo sul petto o i vari colori erano simbolo di appartenenza ad una comunità.
Partiamo dal dire che il costume tipico che oggi ci è stato consegnato è un chiaro retaggio del XIX secolo, quando cioè la moda borghese cittadina, che prediligeva colori scuri quali il nero o il viola, si impose anche in ambito montano (Cfr Saiu, 2008) e, di conseguenza, in Ossola.
Sono state proprio le donne le ultime ad abbandonare l'uso del costume, in anni anche relativamente recenti: gli uomini si conformarono ben presto alla cosiddetta "divisa borghese", con pantaloni a sigaretta a cravatta che annullassero i richiami alla sessualità (cfr MacLaren, 1999). E, allo stesso modo, sono state proprio le donne, in anni ancora più recenti, a recuperarne (e talvolta codificarne gli elementi) l'uso in ambito folk.
L'uso del costume in tempi recenti è stato testimoniato ad esempio a Luzzogno, in Val Strona, dallo studio condotto da Battista Saiu, che ha fotografato, ancora pochi anni fa, donne che, in alcuni paesi del Piemonte, portavano ancora quotidianamente il costume tipico.
In Ossola l'uso del costume è oggi limitato alle feste che hanno qualche matrice folk, in primis la patronale. Ma così non era: fino agli anni '50 (e nei paesi montani quali Cravegna addirittura fino ai '70 / '80)  le donne portavano ancora il costume tipico. A testimonianza di quanto detto basta farsi un giro nei cimiteri ed osservare le foto delle defunte. Almeno fino a metà del XX secolo troviamo foto di donne che indossano elementi del vestito tradizionale, in particolare i copricapi ed i foulard.
Quelle stesse donne che venivano seppellite con il vestito tipico (motivo per cui, ancora oggi, difficilmente, si trovano abiti tradizionali originali).
Proprio le donne, che come detto per ultime hanno abbandonato l'abito tipico festivo, sono state però le prime a recuperarlo, con la nascita dei vari gruppi folk.
E l'Ossola risulta molto ricca di queste associazioni, prevalentemente femminili, di donne in costume. Una parte, ad esempio, si è riunita nel gruppo "Le donne del Parco", associazione che riunisce i vari gruppi folk delle comunità del Parco Valgrande. Ma, ancora in questi anni, sono nati nuovi gruppi che si sono occupati di codificare (o anche inventare) il costume tipico di un comune, come ad esempio il gruppo I takar di Montecrestese, nato pochi anni fa e composto prevalentemente da giovani (tra cui anche molti maschi, caso abbastanza singolare).
Un'opera di riscoperta del proprio passato, certamente, ma anche di ri-appaesamento, un tentativo di costruzione (o ri-costruzione) di una propria identità che passa attraverso il ritorno alle simbologie passate, in una sorta di folk-revival.
È molto bello assistere, ad esempio, alla festa dei santi Gervasio e Protasio, patroni di Domodossola, e vedere sfilare, come accaduto nel 2014, centinaia di donne in costume, divise in gruppi a seconda del paese / gruppo folk di provenienza, precedute da apposito stendardo che sottolineava (ma un tempo non sarebbe stato necessario) l'individualità del gruppo (e naturalmente l'affermazione identitaria avviene per contrasto con l’alterità...).
Quella del portare il costume è una problematica che va affrontata con una certa lucidità. Come spiega Rosalia Zaccheo «Portare i costumi è per noi un gesto di recupero della memoria del territorio, è il modo per esprimere la nostra orgogliosa appartenenza ad esso e sottolineare il nostro ruolo femminile di conservazione della tradizione» (Zaccheo, 2012, p. 143).
Una presa di posizione molto forte, che pone l'accento sulla differenza che intercorre tra folklore e folklorismo, o, meglio, tra folk e fake (cfr Ciurleo, 2013b).
Si può dire, quindi, che, oggi, esistano almeno due linee filosofiche riguardo all'utilizzo del costume. Da una parte troviamo la frangia conservatrice, che "sacralizza" l'abito (o se vogliamo vede il costume come un oggetto rituale, che deve essere utilizzato solo in determinate occasioni); dall'altra una visione più "esibizionista" che vede il vestito come un valore aggiunto "spendibile" anche in ambito turistico. Ecco quindi che le "uscite" dei gruppi e le loro partecipazioni agli eventi performativi possono essere un valido tornasole per scoprire la filosofia del gruppo e la concezione del vestito. Se vogliamo estremizzare i due pensieri da una parte troviamo l'abito / feticcio usato solo in occasioni "sacre", dall'altro l'abito / travestimento, utilizzabile anche a fini turistici o carnevaleschi.

Polpette e torte di credenza: il ruolo della donna nel recupero alimentare

La donna come "regina del focolare", colei a cui è (o meglio era) demandato il compito di pulizia della casa e, soprattutto, di cucinare. Un classico stereotipo, ma naturalmente non è questa la sede opportuna per aprire un dibattito sulla sessualizzazione dei ruoli e sulle modificazioni avvenute nel corso del tempo. Quello su cui vorrei riflettere è invece la peculiarità, tutta femminile, di recupero sistematico degli avanzi, in un perfetto lavoro di rielaborazione a cui aggiunge il “valore aggiunto” della manualità. Mi spiego meglio: il caso tipico è senza dubbio quello dei raviolini “del plin”, specialità piemontese rinomata in tutta Italia e non solo. Si tratta di un particolare tipo di agnolotto (prodotto tipico della tradizione piemontese) il cui ripieno è composto, prevalentemente, da avanzi di carne. La peculiarità e data appunto dalla forma molto piccola: grazie alla manualità, al tempo necessario per effettuare ogni singolo raviolino, la donna, si può dire, “sopperisce” alla povertà degli ingredienti.
Proprio questa manualità diviene particolarmente importante oggigiorno, e si configura come un vero e proprio valore aggiunto, spendibile anche nel campo della ristorazione. Ad esempio il caso, secondo me emblematico, della Sagra della patata di Montecrestese (cfr Ciurleo, 2007), dove un vero e proprio esercito di donne lavora per preparare, ogni anno, migliaia di porzioni di gnocchi. Gnocchi che sono diventati richiamo per migliaia di visitatori provenienti da Piemonte, Svizzera e Lombardia grazie anche ad una raffinata operazione di “marketing” che puntava sul concetto di “tradizione”, “antichità della ricetta” e “sapienzialità / manualità casalinga”. Un aneddoto: proprio gli studi condotti per il conferimento agli gnocchi di patate della certificazione DeCo, Denominazione comunale, hanno fatto emergere da un lato che la ricetta è tramandata oralmente (bisogna conoscere l’esatta consistenza dell’impasto, che può variare a seconda della tipologia di patate utilizzate), dall’altro che la preparazione casalinga degli gnocchi (che sembra venissero preparati anche per smaltire le patate “vecchie”, e qui ritorna il discorso della donna come principale artefice del recupero alimentare) è diventata sempre più rara.
La considerazione generale che va fatta, naturalmente, e che va di moda anche oggi, dove diverse tonnellate di alimenti vengono quotidianamente buttati causa piccoli difetti estetici che li rendono poco appetibili per la vendita, è quella secondo cui il gettare il cibo è peccato, vuoi per le contingenze economiche, vuoi anche per gli aspetti rituali. In particolare era “tabu” buttare via il pane, soprattutto per via delle simbologie e della sacralità dell’alimento. Se leggiamo le ricette tradizionali troviamo un’ampia gamma di preparazioni che si basano sull’uso del pane raffermo. Dai canederli trentini sino ai passatelli, senza dimenticare le varie torte a base di latte (che serviva per ammollare) ed “avanzi di credenza” (cfr Ciurleo, 2013B).


Le principesse Disney

Come visto le donne nella tradizione, non sono figure passive, sottomesse all’uomo. Ed è interessante notare come si sono evolute alcune figure di eroine femminili nella cultura pop.
E parlando di cultura pop non si può che iniziare dal primo lungometraggio Disney, risalente agli anni ’30 del Novecento: Biancaneve e i sette nani.
La protagonista, una bambina pre adolescente, scappa nel bosco, trova la casa dei nani e “ne prende possesso”. Il suo atteggiamento non è così sottomesso: dopo aver ordinato tutto, detta le sue regole ai nani, che sono costretti ad ubbidirle. Memorabile la scena in cui prima di offrire la cena “obbliga” i nani a lavarsi la mani, indifferente alle lamentele di Brontolo. Per non parlare della regina cattiva, la cui autorità non viene mai messa in discussione: lei è la regina, e la figura del re nemmeno è citata…
Le principesse Disney sono figure paradossalmente molto autonome, che hanno dato luogo addirittura ad un brand (Disney’s Princess appunto). E tutte sono caratterizzate da una grande autonomia, eccezion fatta forse per Cenerentola. Ariel che disubbidisce al padre alla scoperta delle usanze degli uomini, Jasmine che canta “Il mondo è mio”, e poi la “barbara” Merida (che rappresenta un punto di svolta se vogliamo nella narrativa Disney), fino al duo Anna & Elsa, le eroine di Frozen, dove il ruolo maschile è ridotto a comprimario (e narrativamente quasi inutile: uno è un principe Hans che si rivela il cattivo, l’altro è Kristoff, il cui ruolo è quasi da macchietta comica, rischiando di ricordarsi maggiormente della sua renna Sven…). E che dire poi di Oceania, dove Vaiana riesce, con l’aiuto di Maui, a restituire il cuore di Te Fiti?
Questa la brevissima panoramica sulle principesse DIsney - a cui andrebbe inserita di diritto anche Leila di Guerre Stellari -, ma la cinematografia pop sembra, negli ultimi anni, rivalutare il ruolo femminile trasformandole in protagoniste molto forti. Almeno in apparenza…
Pensiamo ad esempio a Katniss, la protagonista di Hunger games: la ragazza decide volontariamente di offrirsi come tributo per salvare la sorella, dimostrando il suo enorme carattere. Ma poi, nei sequel, viene incastrata nel sistema, diventa eroina quasi controvoglia, la sua immagine viene strumentalizzata tanto dal presidente Snow che dalla Ribellione… O la protagonista di un altro romanzo adolescenziale quale Twilight, che ha “edulcorato” (rendendola nauseante, nda) la figura del vampiro. In questo caso la protagonista, Belle, si trova impalata in mezzo - e la “recitazione” di Kristen Steward di certo non aiuta - ad uno scontro tra vampiri e licantropi, indecisa su chi scegliere.
Ed il medesimo ruolo di donna quasi succube la si trova anche nel romanzo e nel film “Cinquanta sfumature di grigio”: una donna degli anni ’10 del Duemila molto più succube e sottomessa - non solo fisicamente - di quelle della tradizione o della Biancaneve - che compie 80 anni -.
E che dire di Mary Poppins, una sorta di Mr Wolf tarantiniano (meno pulp naturalmente) che “risolve problemi”.
Tornando a Twilight pensiamo come l’omonima protagonista del cartone animato La bella e la bestia - ed anche del recentissimo film -, sia terribilmente più indipendente, anche se di oltre 20 anni più antica rispetto all’eroina di Meyer. La Belle della Disney vuole leggere, rimprovera ed affronta più volte la Bestia, non esita, come Katniss, ad offrirsi come vittima per salvare il padre, non ha paura a rifiutare apertamente Gaston; la Belle di Meyer esiste (non si può dire che agisca, è una figura estremamente passiva) e non riesce nemmeno a prendere una decisione chiara su chi preferisce!

Conclusioni

All’interno del cosiddetto “gioco della tradizione” la donna assume quindi un ruolo fondamentale, in Ossola come in altre realtà contadine ed alpine, facendo un’importantissima opera di “recupero” e di salvataggio. Ed il recupero, come visto, può essere quello dei polpettoni che “tolgono dalla spazzatura” un arrosto troppo grosso (e magari non eccellente), piuttosto che dei bottoni di un vecchio cappotto logoro. E l’immagine dei bottoni penso sia forse la migliore metafora di quanto fa la donna nell’ambito delle tradizioni, soprattutto religiose, o più semplicemente nel folk: si salvano elementi di una ritualità e si trapiantano su un’altra struttura, magari modificandola e trasformandola. Se infatti il bottone del cappotto può sostituire il bottone di una mantella, ma può anche diventare collana o oggetto ornamentale, così il nostro “bottone della tradizione” può a sua volta assumere nuovi usi. E trasformarsi, da momento in cui le ragazze “da marito” di mostravano alla comunità, ponendosi sul mercato matrimoniale, a (forte) rito di riappropriazione identitaria (Trontano docet).

Luca Ciurleo

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/

Bibliografia

Ciurleo, Luca
2005 - L'immaginario folklorico ossolano. Dal valico al traforo del Sempione, Prova finale del corso di laurea in Studio e gestione dei beni culturali, Università del Piemonte orientale, Vercelli
2006 - Sempione: la sottile linea scura (a cura di), Comitato Cent’anni Sempione, Vercelli
2007 - Tradizioni e neotradizioni in Ossola: tra riscoperta del passato e rilancio per il futuro, Tesi di laurea in Antropologia culturale ed etnologia, Università di Torino, Torino
2010 - Gente di paese, paese di gente. Indagine etnografica sul comune di Piedimulera, Edizioni GraficaElettronica, Napoli
2012 - L’Ossola, in Crepaldi, 2012, pp. 394-421
2013A - Tradizioni di pastafrolla, Edizioni Ultravox, Domodossola
2013B - C’era un volta in Ossola: rettili, streghe e uomini selvaggi, in Crepaldi, 2013
2014 - All’ombra del castello, sotto il manto di Re Lupo, Landexplorer, Domodossola

Crepaldi, Silvano (a cura di)
2011 - Geografia dell’immaginario, Lampi di stampa, Milano
2012 - Santi e reliquie, Lampi di stampa, Milano
2013 - Cüntuli dal favlé - Storie dell’Alto e Basso Novarese, Lampi di stampa, Milano

Ferraris, Sebastiano Adolfo
1936 - Tradizioni popolari ossolane. Ingiurie, imprecazioni e nomignoli ossolani, in Bollettino storico della Provincia di Novara, anno XXX, pp. 171-188
1997 - Novelle e leggende ossolane ed altri scritti, Edizioni Grossi, Domodossola

Gallo Pecca, Luciano
1987 - Le maschere, il Carnevale e le feste per l’avvento della primavera in Piemonte e nella Valle d'Aosta, Gribaudo, Cavallermaggiore

Grimaldi, Piercarlo
1993 - Il calendario rituale contadino. Il tempo della festa e del lavoro tra tradizione e complessità sociale, Franco Angeli editore, Milano
1996 - Tempi grassi, tempi magri. Percorsi etnografici, Omega, Torino
2012 - Cibo e rito. Il gesto e la parola nel cibo tradizionale, Sellerio, Palermo

Jorio, Piercarlo
2006 - Attorno al fuoco - Leggende delle terre alpine, Priuli e Verlucca, Ivrea

Parco Valgrande
2012 - Tanti superbi modi di ornarsi - Costumi tradizioni femminili nei comuni del Parco Valgrande, Ente Parco Valgrande, Vogogna

Saiu, Battista
2008 - Il vestito della luna - Abiti cerimoniali e quotidiani delle donne piemontesi del III millennio, Circolo Su Nuraghe, Biella


Zaccheo, Rosalia
2012 - Indossare il costume oggi, in Parco Valgrande, 2012, pp. 143-145

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