martedì 31 ottobre 2017

carte false: così nascosero la storia della Papessa Giovanna

«E’ per evitare equivoci sul sesso del Papa che fu introdotta la sedia “gestatoria”, la speciale poltrona per la cerimonia di incoronazione del nuovo pontefice, con un foro nel sedile attraverso cui uno o due diaconi, con le mani, dovevano verificare la presenza degli attributi maschili», ricorda l’agenzia di stampa “Adn Kronos”. La formula di annuncio, in latino: “Habet duo testiculos et bene pendentes”. Questa curiosa consuetudine «fu introdotta nel medioevo, quando la Chiesa decise di porre fine alle dicerie sulla Papessa Giovanna, una giovane donna originaria di Magonza, salita al soglio di Pietro dopo aver ingannato la corte papale sul suo reale stato anagrafico». Ma è veramente esistita, la Papessa femmina? Non per Wikipedia, che propende ancora per la “leggenda”: «La Papessa Giovanna sarebbe stata l’unica figura di Papa donna, che avrebbe regnato sulla Chiesa con il nome di Giovanni VIII dall’853 all’855. È considerata dagli storici alla stregua di un mito o di una leggenda medievale». Poi, nel 2011, lo storico Pietro Ratto scova un volume avventurosamente custodito, che svela che la cronologia vaticana ha “taroccato” due secoli interi, proprio per cancellare – a posteriori – la storia imbarazzante della Papessa, fattasi passare per Papa. Ratto scrive la sua scoperta in un saggio, “Le pagine strappate”, lo invia a grandi editori e si sente rispondere così: «Ma lei non tiene alla sua famiglia?».
Il libro è uscito, ma è stato accolto dal silenzio più assoluto.  «Ho capito che avevo toccato un potere davvero forte, oltre ogni immaginazione», afferma Ratto in un’intervista. Nel sito “In-Contro Storia” premette: «La storia che i professori insegnano a La Papessa, filmscuola è quella che a loro volta hanno imparato». Tutto scorre senza intoppi e senza dubbi: «In pochi si chiedono se ciò che viene raccontato sia effettivamente accaduto, e le perplessità che eventualmente insorgono vengono presto soffocate». Chi davvero cerca la verità la può trovare, aggiunge Ratto, «ma solo a patto di stravolgere le proprie conoscenze, mantenendosi aperto a sempre nuove prove, a sempre nuovi elementi di studio». Il suo libro, “Le pagine strappate”, descrive passo dopo passo «l’affascinante analisi di un testo del Quattrocento sfuggito alla censura del Concilio di Trento». Un’analisi che Ratto definisce «onesta, appassionante e appassionata, che incredibilmente svela i trucchi della Chiesa per rimuovere la vicenda storica della Papessa Giovanna, restituendoci uno scorcio di realtà da tempo rimossa».
Per il blog storico “Sguardo sul Medioevo”, il saggio di Ratto è «altamente convincente», dal momento che l’autore «riesce quantomeno a dimostrare che la censura selvaggia della Chiesa abbia davvero nascosto una presunta Papessa». L’originalità de “Le pagine strappate”, rileva “SoloLibri.net”, «sta proprio nel modo di in cui l’autore ha scelto di esporre i risultati di una ricerca storica – basata su dati verificati, su notti insonni, su confronti, calcoli, date, fonti antiche – rendendola accessibile ed invitante, senza banalizzarla ma accrescendone invece il fascino, anche per chi non mastica storia quotidianamente». Wikipedia, che non è aggiornata sul libro di Ratto e quindi alla storia della Papessa non crede, ricorda però che la vicenda «ottenne in Occidente un qualche grado di plausibilità a causa di elementi intriganti contenuti nella storia». Il primo a raccontare questa storia per iscritto, nel 1240, fu il cronista domenicano Giovanni di Metz, ripreso pochi anni dopo dal confratello Martino Polono. Chi era, Giovanna? Secondo la narrazione, scrive Wikipedia, si trattava di una donna inglese, educata a Magonza: «Per mezzo dei suoi convincenti e ingannevoli travestimenti in abiti maschili, riuscì a farsi monaco con il Bartolomeo Sacchi, il Platinanome di Johannes Anglicus per poi salire al soglio pontificio, alla morte di Papa Leone IV (17 luglio 855), con il nome di Giovanni VIII».
Sembra che la Papessa non praticasse l’astinenza sessuale, aggiunge Wikipedia. Così, Giovanna rimase incinta «di uno dei suoi tanti amanti». Durante la solenne processione di Pasqua, nella quale il Papa tornava al Laterano dopo aver celebrato messa in San Pietro, mentre il corteo papale era nei pressi della basilica di San Clemente, la folla entusiasta si strinse attorno al cavallo che portava il Pontefice. «Il cavallo del Papa, impaurito, reagì violentemente, provocando a “Papa Giovanni” un travaglio prematuro». Scopertone il segreto, la Papessa Giovanna «fu fatta trascinare per i piedi da un cavallo, attraverso le strade di Roma, e lapidata a morte dalla folla inferocita nei pressi di Ripa Grande». Fu poi sepolta «nella strada dove la sua vera identità era stata svelata, tra San Giovanni in Laterano e San Pietro in Vaticano». In altre versioni, Giovanna sarebbe morta subito, al momento del parto; oppure, una volta scoperta, rinchiusa in un convento. Pietro Ratto, però, racconta un’altra storia. Che comincia, per lui, nel novembre del 2011. Via web ha appena conosciuto un personaggio misterioso, protetto dall’anonimato, che l’autore chima “l’Erudito”. Vive in una baita in montagna, isolata, immersa nella natura. Un giacimento di archivi preziosi: incunaboli, pergamene, manoscritti antichissimi. Anche un originale del Decamerone di Boccaccio. E poi Machiavelli, Mazzarino e Guicciardini, tutti «in preziosissime, inestimabili Pietro Rattoedizioni originali», per non parlare delle pergamene del Trecento, dei documenti longobardi.
«Tra le tante meraviglie – racconta Ratto – l’Erudito collezionista mi spalanca davanti agli occhi, sornione, un testo del Quattrocento. Un’opera di un illustre storico della Chiesa, in un’edizione miracolosamente sfuggita all’inesorabile censura del Concilio di Trento, che strategicamente l’anziano collezionista apre sul tavolo in un punto preciso, proprio là dove un anonimo segnalibro si nascondeva da chissà quanti anni. Gli domanda: «La conosce la storiadella Papessa Giovanna?». Ma certo, la famosa favola. Al che, “l’Erudito” storce il naso: «Non gli piace ch’io liquidi frettolosamente come leggenda quello che considera un evento storico a tutti gli effetti». L’anziano bibliofilo non aggiunge nient’altro, «ma il suo sguardo beffardo è un invito alla lettura, allo studio, una volta tornato a casa». Giorni e notti di lavoro febbrile, in cui Ratto passa dallo scetticismo all’euforia. «Gli occhi bruciano, a suon di leggere e rileggere», contando «giorni, mesi, anni, tra l’855 ed il 1100». “L’Erudito” gli procura alcune edizioni successive dell’opera, quelle opportunamente rivedute e corrette dagli inquisitori, quelle che gli storici conoscono a menadito. «E man mano che procedo, man mano che conto, mi accorgo del trucco», scrive Ratto.
«La Papessa, evidentemente, è esistita davvero, dato che la Chiesa è ricorsa ad un complesso processo di falsificazione di date e nomi di Pontefici relativi ai duecento anni successivi per occultare e rimuovere dalla storia un periodo esattamente corrispondente al lasso di tempo in cui, secondo gli storici medievali, si sarebbe verificato il suo pontificato», afferma lo studioso. «Le pagine che mi trovo di fronte e radiografo per settimane ne sono la prova». Da qui nasce il libro, “Le pagine strappate”, che «narra di questa mia entusiasmante ricerca, le cui tappe vengono raccontate come in un romanzo ma meticolosamente spiegate e dimostrate, come in un saggio storico». E’ un libro che parla di un altro libro, “Delle vite dei Pontefici”, scritto dal celebre storico rinascimentale Bartolomeo Sacchi, detto il Platina. Attenzione: l’edizione che Ratto si Il saggio di Rattoritrova tra le mani è quella originale del 1552, tradotta in volgare e sfuggita ai censori. E’ ben diversa, dunque, da quella “ripulita” che poi è giunta agli storici. Così, la ricerca dello studioso «si trasforma in un autentico scoop, per quanto la scabrosità della scoperta abbia indotto gli “studiosi” e la stampa più o meno specializzata a non divulgarla».
«Comincia così la mia analisi comparata nei confronti di questa antica copia, confrontata con l’edizione in latino del 1562 e con quella in volgare del 1650, colpite invece da una progressiva censura ecclesiastica», spiega Ratto. «Tutte e tre le copie sono, naturalmente, presenti nella collezione dell’anziano collezionista. Dal confronto delle tre edizioni risalgo pian piano alle ragionevoli prove dell’esistenza della Papessa ed agli evidentissimi trucchi con cui i suoi due anni di pontificato potrebbero essere stati cancellati dalla Storia, ricorrendo a complesse correzioni di date e nomi di pontefici relativi ai due secoli successivi». Tanto per cominciare, il Platina era il direttore della Biblioteca Vaticana. Un illustre umanista, che ha dedicato la sua storia dei Papi a Sisto IV, pontefice da cui è molto apprezzato e che gli ha conferito quell’importante ruolo. Nonostante ciò, il Platina riporta la vicenda della Papessa, citando il cronista medievale Martino Polono, «senza smentirla o liquidarla come pura leggenda e senza venir attaccato dalla Chiesa».
Secondo l’edizione del 1552, al momento della sua elezione la Papessa (di cui si raccontano particolari della vita fino al suo parto avvenuto in strada durante una processione), assume il nome di Giovanni VIII. Così, la numerazione dei Papi omonimi continua poi per tutta la serie fino all’ultimo, il predecessore di Martino V, che viene chiamato Giovanni XXIV. Nelle altre due edizioni analizzate, che tendono a considerare la Papessa una “fabula”, Giovanni VIII è colui che nell’edizione del 1552 è Giovanni IX, e il diretto predecessore di Martino V compare come Giovanni XXIII, antipapa. «Questa circostanza è importante: come avrebbe potuto uno storico famoso come il Platina, infatti, sbagliare il numerale di un Papa regnante sessant’anni prima, senza venir pubblicamente smentito e deriso? Sarebbe un po’ come se uno studioso attuale chiamasse Montini “Paolo VII”». Aggiunge Ratto: dall’analisi delle correzioni apportate nelle edizioni del 1562, e soprattutto del 1650, si rafforza l’ipotesi che le complesse motivazioni normalmente addotte per giustificare la celebre “Questio Paparum Joannum”, il La Papessa nei tarocchirebus che ha assillato gli storici (nel conteggio di tutti i Papi Giovanni, infatti, mancherebbero due pontefici) non avrebbero in realtà nessun fondamento, «a parte l’esigenza di occultare il pontificato della Papessa».
Autore dell’occultamento: il revisore Onofrio Panvinio, «vero e proprio braccio armato della censura ecclesiastica». Un potente burocrate vaticano, «in grado di risistemare il conteggio dei Giovanni con autentici “giochi di prestigio”». Come quando, nell’edizione del 1650, Panvinio «sostiene improvvisamente di essere in possesso di non meglio precisate “brevi apostoliche”, in virtù delle quali “i Giovanni che noi chiamiamo 21, 22 e 23 si dovrebbero chiamare 20, 21 e 22”. Per Ratto sono «trucchetti, questi, smascherabili proprio grazie al confronto con l’edizione incensurata». Infine, tramite un complesso conteggio condotto in parallelo sulle copie del 1552 e del 1650, relativo a tutti i pontificati a partire da quello del successore di Leone IV – che per la prima edizione è (la Papessa) Giovanni VIII mentre nella seconda è Benedetto III – Piero Ratto rileva «un evidente processo di correzione di centinaia di date di elezione o di morte di pontefici, nonché di nomi e di numerali». Una manipolazione bella e buona, per «assottigliare progressivamente la differenza tra la versione del Platina e quella della Chiesa ufficiale, fino al definitivo riallineamento delle due cronologie, raggiunto con la consacrazione di Benedetto IX, verificatasi nel dicembre 1032».
Wikipedia riconosce che in molti hanno accostato la carta della Papessa, uno degli “arcani maggiori” dei tarocchi, alla figura della Papessa Giovanna. E cita un romanzo sulla vicenda, “La Papessa Giovanna” del greco Emmanouil Roidis, uscito nel 1865, poi tradotto nel 1954 dall’inglese Lawrence Durrell, col titolo “The Curious History of Pope Joan”. Più recente il romanzo dell’autrice statunitense Donna Woolfolk “Cross Pope Joan” (1996), da cui è stato tratto nel 2009 il film “La papessa”. Ma Wikipedia non cita il saggio di Ratto neppure nella (vasta) bibliografia sulla controversa vicenda. «Ciò che davvero potrebbe aver spinto la Chiesa del Cinquecento a cancellare la vicenda di Giovanna – osserva Ratto – sarebbe stato unicamente l’insopportabile scandalo di una “foemina” sul soglio di Pietro». Da notare, infine, «l’importante e inconfutabile prova» che il saggio fornisce relativamente alla presenza del busto di Giovanna tra quelli degli altri pontefici, «ben visibile nel duomo di Siena ancora alla fine del XVI secolo». In un’opera del 1595, scritta proprio per smentire la “favola” di Giovanna, un giurista cattolico rinascimentale si lamentò a gran voce della presenza di quel busto a Siena e ne richiese l’immediata rimozione. «Un elemento molto importante, questo, dato che fino ad oggi anche questa particolare circostanza è sempre stata liquidata come l’ennesima falsità collegata alla “fabula” e messa in circolazione dai soliti “eretici” protestanti».
(Il libro: Pietro Ratto, “Le pagine strappate”, Elmi’s World, 112 pagine, 12 euro).

fonte: http://www.libreidee.org/

mercoledì 25 ottobre 2017

l'irrazionale risposta degli scienziati all'ipotesi dell'antico astronauta

Ciò che vi proponiamo è un articolo critico scritto dal Dottor Pasqual S. Schiavella (1914-2011), in merito al discorso sulla teoria degli antichi astronauti. Pone, sulla questione, la censura degli scienziati e la ridicolizzazione della teoria degli antichi alieni da parte di quest'ultimi, senza accennare a complotti o cospirazioni. E non poteva essere altrimenti. 
Infatti, il Dottor Pasquale S. Schiavella non era uno qualunque. Era Dottore in Filosofia presso la Columbia University e fu fondatore, nonché presidente, del The National Council for Critical Analysis, e editore del The Journal of Critical Analysis e del The Journal of Pre-College Philosophy. 
L'articolo in questione è apparso sul sito di Antiguos Astronautas 
Buona lettura.

Traduzione a cura di Antonio De Comite per Centro Ufologico Ionico

Che intelligenze extraterrestri abbiano visitato la Terra in tempi antichi e alterato il corso della storia umana è una vecchia ipotesi, riproposta da Erich von Däniken. Anche se simpatizzo per questa tesi, l'idea centrale di questo articolo è una critica sul comportamento dei critici, in modo particolare gli scienziati, nel senso più ampio del termine. Come una ipotesi storica, i meriti della ipotesi degli antichi astronauti devono essere confrontati con l'evidenza disponibile con rigoroso controllo scientifico. Sfortunatamente, questo non è avvenuto. Invece, la comunità scientifica ha attaccato l'ipotesi e von Däniken con oltraggi e insulti. Le sue prove sono state rifiutate con scherno. L'ipotesi viene attaccata con un fallace ragionamento e un appello all'autorità...

Incisioni rupestri - Val Camonica (BS)
Altrettanto inquietante è il sepolcrale silenzio degli “esperti” per quanto riguarda le evidenze delle ipotesi. Questo silenzio, e gli attacchi dei critici, dimostrano chiaramente che non intendono sperare in una valutazione scientifica, almeno negli Stati Uniti. Va osservato, innanzitutto, che questo esame di tale irrazionalità da parte di molti scienziati in nessun modo può essere interpretato come mancanza di fiducia che ho nella Scienza. Sono, naturalmente, un forte difensore della Scienza. Ecco perché mi sento così irritato con gli scienziati dogmatici che distruggono la credibilità della Scienza reclamando, per se stessi, più di quanto siano in grado di fornire e rifiutando di concedere alla ipotesi degli antichi astronauti la considerazione scientifica che si merita.

Tutto il mondo sa che è possibile e probabile che vi siano esseri intelligenti in altre parti dell'Universo. Anche i critici dell'ipotesi degli antichi astronauti lo ammettono.

Supporre, altre cose, è come tornare al Medioevo, quando si credeva che la Terra fosse al centro dell'Universo e l'uomo la suprema creazione. Lo storico Will Durant, nel suo "Story of Civilization", propone che noi non siamo necessariamente i discendenti di primitive culture alle quali gli archeologi e antropologi preferiscono attribuire la nostra ascendenza.

La sua tesi, e i misteri che la Scienza non ha chiarito, suggerisce la possibilità che antichi viaggiatori spaziali abbiano visitato la Terra. Nessun argomento, basato con la poca informazione che abbiamo sopra i problemi dei viaggi intergalattici e la vastità dello Spazio, ha ancora dimostrato che una intelligenza superiore non possa realizzare ciò che noi, con i nostri pochi secoli di limitata tecnologia e teoria scientifica, crediamo impossibile. E' possibile e probabile che antichi astronauti abbiamo visitato la Terra. Questo non può essere negato a meno che non si consideri l'evoluzione come impossibile, o che non ci sia evoluzione e solo Dio ci abbia creati (un problema che solleva domande sopra le quali non si hanno evidenze per poter essere affrontate), o che tale evoluzione si sia verificata solo sulla Terra, o che eccetto noi non ci sono astronauti o altre intelligenze nell'Universo, o che la prova sia tutta nella nostra origine, o che abbiamo la conoscenza assoluta di queste cose, e similari. Naturalmente, nessuna persona intelligente può sostenere queste idee medievali.

A meno che non si neghi la possibilità di evoluzione in altre parti dell'Universo o pretendere di avere la conoscenza assoluta rispetto al nostro passato, dobbiamo riconoscere almeno la possibilità che le civiltà tecnologicamente avanzate siano sorte da qualche parte e che ci abbiano visitato in un remoto passato. L'ipotesi dell'antico astronauta, dunque, è come minimo possibile. Come prova delle teorie di von Däniken, dovrebbe essere ricordato che l'ipotesi dell'antico astronauta non può sperare di seguire le rigide regole e gli standard di prove stabilite dalle scienze naturali. Le sue modalità di prova sono essenzialmente simili a quelle delle scienze sociali come la psicologia, la sociologia e l'antropologia.

Sperare formali rigidezze, in tali discipline informali è come esigere ciò che non può essere. Tuttavia, ci si auspica che si permetta agli scienziati di estrapolare informazioni disponibili da von Däniken, in modo che essi stessi accettino l'estrapolazione come una sorta di prova che permetta un maggiore progresso della Scienza.

Le tesi di von Daniken spiegano, fino ad ora, i misteri inspiegabili, nessuno dei quali ha ricevuto qualche chiarimento da parte delle menti accademiche imprigionate da pregiudizi e preconcetti. Non è fatale per l'ipotesi che i critici incorrano in errori. Considerati nel loro insieme, i risultati di von Däniken segnalano convincentemente una intromissione extraterrestre nel lontano passato del genere umano.

L'ipotesi dell'antico astronauta è poco differente dalla maggior parte della documentazione storica.

L'ipotesi richiede solo "validazione" delle informazioni riportate per la correlazione di questi dati con gli inspiegabili e meravigliosi manufatti tecnici del lontano passato. Le prove della ipotesi dell'antico astronauta possono essere trovate nella logica dei possibili e probabili eventi, nella Storia, anche se prevalentemente religiosi, documenti che si conservano con grande considerazione in tutto il mondo, e antichi manufatti che non possono essere spiegati in termini di presunte conoscenze e capacità degli antichi.

Tutto questo, studiato come un insieme di informazioni coerentemente descritte, punta ad un intervento extraterrestre. Inoltre, la descrizione in antichi documenti, quando si associano con i dati empirici, indeboliscono notevolmente la tesi secondo cui i terrestri siano i responsabili di questi manufatti, che ovviamente vanno oltre le loro competenze linguistiche, concettuali e tecniche. Sembra, quindi, come von Däniken ha ribadito, che sia giunto il momento di indirizzarsi a questi affascinanti misteri, e sulle descrizioni di essi nelle lingue dell'antichità, nuove prospettive e ipotesi praticabili sono rese possibili dal linguaggio più sofisticato e la conoscenza della nostra epoca .

Se le istituzioni scientifiche e religiose lo permetterano, e se i governi o fondazioni concedino dei finanziamenti, i ricercatori potrebbero introdurre dati provenienti da tutto il mondo su computer per stabilire le similitudini comparative tra le descrizioni empiriche delle "divinità dello Spazio” e determinare se queste descrizioni non siano, come i critici preferiscono credere, altro che le creazioni di menti folli o immaginazioni troppo eccessive. Integrate da computers, esperti in linguistica comparata, traduzione, culture antiche e lingue antiche, sarà possibile determinare se l'informazione tecnica, i concetti e le realizzazioni che si trovano nei musei, esistenti nei siti archeologici, e descritti nei documenti storici e religiosi possano aver avuto origine con un popolo pre-scientifico che parlava solo un linguaggio semplice e non tecnico. Allo stato attuale, l'ipotesi dell'antico astronauta è principalmente una ipotesi storica e secondariamente una scientifica. Fondato su prove documentali e circostanziali, e in alcuni casi, sopra una forte evidenza che non dovrebbe essere negata se non altro per la distorsione dei fatti che vanno oltre la ragione e la probabilità.

Gran parte della critica negativa a Erich von Däniken e sull'ipotesi dell'antico astronauta proviene da un piccolo numero di scienziati che affermano che non esiste "uno straccio di prova" per sostenere tale ipotesi. L'affermazione è che dimostrano le loro teorie, mentre l'ipotesi dell'antico astronauta non lo fa. Voglio ricordare che ci sono molti tipi di prove. Che la prova non può essere solo empirica, osservazionale, sperimentale, o induttiva, ma anche teorica, logica, matematica, ipotetica, deduttiva, statistica, probabile, e documentale. Queste varie forme contano molto nell'esame critico ed è fondamentale all'interno della Scienza stessa. L'uso, di molte di queste classi di prova, da parte dei teorici che difendono l'ipotesi dell'antico astronauta, non è meno valida rispetto al loro uso da parte degli scienziati. Naturalmente, devono essere direttamente o indirettamente verificabili e compatibili con un corpo comprensivo di fatti rilevanti, teorie, generalizzazioni e ipotesi. Per il grado in cui questi elementi si adattano in modo coerente, senza contraddizioni, possiamo legittimamente affermare che abbiamo le prove, l'evidenza, o conoscenza.

Avere un deliberato disinteresse per queste differenti tipi di prove è il modus operandi di quegli scienziati che sono colpevoli di dogmatismo e pregiudizio. I critici di von Däniken suggeriranno mai che non esiste una verità o conoscenza se non quella che si trova nelle scienze naturali?

Affermeranno mai che non c'è "uno straccio di prova" che il presidente Lincoln sia stato colpito nel Ford Theater di Washington, o che la storia degli Stati Uniti accadde sostanzialmente come è stata registrata sulla base del fatto che non c'era nessuno nel viverla e vedere cosa è successo? Metteranno mai in dubbio documenti che indicano la scoperta della penicillina di Fleming, o che Cesare abbia governato Roma? Tale conoscenza non può essere verificata mediante le tecniche della scienza naturale, con la sperimentazione, o informazioni non falsificabili.

Naturalmente, la Scienza deve svolgere la sua ricerca della verità in modo obiettivo. Ma la Scienza non è gli scienziati. 

Questi sono ben lungi dall'essere infallibili e spesso lungi dall'essere obiettivi, alcuni sono anche disonesti, inclini all'autoritarismo e ai sogni di infallibilità scientifica anche quando ammettono che stanno speculando. Essi dimenticano che i risultati attuali della Scienza sono poco più di uno sviluppo embrionale nella continua ricerca della verità. Elevandosi al trono della propria infallibilità, suggeriscono che sono gli unici a detenere la chiave per i misteri dell'Universo. Questi dimostrano il peggior tipo di mentalità provinciale non riuscendo a vedere che ci sono problemi di un tipo che non possono essere risolti da uno studio di costruzioni subatomiche o di strutture molecolari. A peggiorare le cose, le conquiste tecniche della Scienza sono spesso combinate con certezza scientifica, inducendo all'errore il grande pubblico nel credere che i prodotti della tecnologia - come la televisione, gli armamenti nucleari e i viaggi nello Spazio – siano l'ampia prova che ciò che gli scienziati dicono sia ipso facto veritiero.

Anche se von Däniken non ha alcuna esperienza nel campo della Scienza, non ha mai preteso di essere uno scienziato. Tuttavia, i suoi critici lo ignorano e argomentano, sul fatto che von Däniken abbia pensato di essere uno scienziato. Poi procedono nel mostrare ciò che egli stesso ammette – che non lo è. Questo approccio di "uomo di paglia" è tipico di molti dei suoi critici. In realtà, è a nostro vantaggio che von Däniken non sia uno scienziato. Le idee espresse da von Däniken sono state sollevate, come dice lui, migliaia di volte nel passato. Nessuno prima, tuttavia, fu sufficientemente audace e provocatorio nel sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale sulla possibilità e la probabilità dell'intelligenza extraterrestre.


In effetti, la perseveranza di von Däniken e il suo provocatorio e accusatorio stile di scrittura non ha la simpatia degli scienziati del mondo, e nemmeno dei suoi leader religiosi. Tuttavia, se le sue domande non sono appropriate, dovrebbe essere facile per i suoi critici nel dimostrarlo. Gli scienziati non hanno infatti dimostrato che la caratterizzazione che fanno di von Däniken sia sbagliata, e quel che è peggio, le carenti risposte di rigore scientifico di questi sostengono le sue opinioni. Né le prove devastanti contro le sue ipotesi sono state dimostrate.
Da allora la diffamazione e i deboli reclami non furono più fatti. Gli attacchi e le risposte negative da parte delle istituzioni religiose sono facilmente comprensibili, in considerazione del loro particolare interesse. Ci si aspetterebbe, però, un atteggiamento di maggiore comprensione da parte dei membri della comunità scientifica. Il loro approccio finora odora di autoritarismo dogmatico. Ovviamente non si può pensare ad una Scienza che si distragga con affermazioni che possono risultare colme di contraddizioni interne, ambiguità e termini privi di significato. Ma questo non è il caso con l'ipotesi dell'antico astronauta.

Se la Scienza ha una sua etica morale e scientifica come anche la responsabilità di avvertire il mondo su ciò che sia razionale e cosa no, allora è necessario farlo con un approccio che non faccia discriminazioni. 

Se si attacca von Däniken, allora dovete attaccare tutti i sommi sacerdoti di irrazionalismo - religioso, politico e scientifico, in tutto il mondo. Come una comunità umanistica, la Scienza dovrebbe attaccare le idee, non i difensori delle idee. Si consiglia di ricorrere al metodo scientifico non con la tirannica voce dei dogmi e dell'autoritarismo. Gli scienziati farebbero bene, quindi, ad ammettere che i teorici dell'antico astronauta hanno il diritto di utilizzare lo stesso tipo di prove che utilizza la Scienza stessa. Farebbe bene a esaminare l'evidenza e le informazioni con l'obiettività di chi afferma l'utilizzo nelle scienze "concrete". Essi non dovrebbero occupare il tempo in denunce, ma piuttosto nella ricerca. Farebbero bene a prestare i loro interessi, i loro metodi, le loro tecniche, e il loro sostegno morale e finanziario per una ricerca seria di conoscenza storica in relazione all'ipotesi dell'antico astronauta.

Fonte: www.altrogiornale.org

fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it/

mercoledì 18 ottobre 2017

la Divina Commedia e la Grande Opera (Dante esoterico)


dante esoterico

Concepito come il percorso iniziatico di uomo alla ricerca delle sue origini e quindi sulla Via del ritorno, quello della Divina Commedia è un linguaggio simbolico che cela segreti universali che riecheggiano ancora nei versi del Sommo Poeta.

La Divina Commedia è un testo iniziatico-alchemico? Possiamo ravvisarvi il mezzo attraverso cui Dante, il Sommo Poeta, volle codificare le sue conoscenze e la sua sapienza come altri prima di lui fecero?

“O Voi che avete gl’intelletti sani
mirate la dottrina che s’ asconde
sotto il velame delli versi strani”

Con queste parole si rivolge Dante al suo uditorio privilegiato capace di comprendere un insegnamento che si nasconde sotto il velo dei suoi versi, una dottrina che non è per tutti, ma solo per gli iniziati, per coloro che, appunto, hanno “gli intelletti sani”.

Una medaglia conservata a Vienna reca l’immagine di Dante e la scritta F.S.K.I.P.F.T., interpretata come “Fidei Sanctae Kadosh Imperialis Principatus Frater Templarius” e vista come la verifica della appartenenza del poeta all’ordine dei Fedeli d’Amore, o Fede Santa, associato a quello dei Templarima la sua opera parla da sola e indica il cammino della trasmutazione dell’essere umano che la Divina Commedia illustra. 

Dante compie il suo viaggio durante la settimana santa, all’equinozio di primavera, quando gli antichi misteri celebravano una morte e una rinascita, nella natura che esce dal gelo e nell’uomo - Dio vincente sulla cristallizzazione della materia: il candidato ai misteri, colui che ha acquisito consapevolezza di trovarsi in una dimensione pesante e innaturale per il figlio della luce, in una selva oscura e di aver smarrito la retta via, viene spinto a volgere gli occhi in alto, verso la montagna, simbolo del percorso iniziatico, dalla quale verrà l’aiuto. 

Tre bestie tuttavia gli sbarrano la strada allorché si accinge ad affrontare la dura salita: esse rappresentano la natura bestiale dell’uomo da purificare e trasmutare in un cambiamento radicale di coscienza, in cui si sostanzia la morte iniziatica con lo abbandono dell immedesimazione nelle energie dell’ego. Prima di salire, Dante inizia un percorso che lo conduce verso il basso, negli inferi interiori, nelle regioni oscure dell’ inconscio dove c’è il ribollente magma del rifiuto, l’ombra in cui energie maligne e distorte si agitano richiamando la sua attenzione. 

Il messaggio è noto alla tradizione: anche Enea nel VI canto dell’Eneide e Maometto in un testo islamico, di appena ottanta anni prima di Dante, compirono viaggi notturni attraverso un inferno che necessariamente precede la salita alle sfere, perché l’uomo deve svelare i suoi meandri più oscuri e negletti per permettere alla luce della coscienza di dissolvervi le tenebre, proprio come suggeriscono gli ermetisti: “Visita interiora tua (o terrae), rectificando invenies occultum lapidem”.

L’Inferno

Nel susseguirsi di personaggi che popolano l’inferno, Dante passa in rassegna le oscure tendenze dell'anima umana, che le impediscono di volare, che la rendono dualistica e priva di integrità.

Con compassione l’iniziato sul cammino osserva senza giudizio ogni moto della sua anima, traendone il messaggio e davanti alla sua coscienza sfilano tutte le potenzialità inespresse e represse, tutti gli stati di esistenza di un passato remoto, occultato nell’intimo e proiettato, come un fardello di altri, sull’intero creato.

Come negli antichi misteri, una guida accompagna il candidato: per Dante è Virgilio che già offrì a Enea il ramo d’oro di Eleusi, a simbolo di resurrezione e immortalità, perpetuato nel cristianesimo nella palma della domenica che precede Pasqua, e in massoneria nell’acacia.

La guida rappresenta la coscienza dell’uomo dialettico, la ridestata consapevolezza della necessità di raddrizzare le vie del Signore, come diceva il Battista, di compiere un processo di morte e rinascita, per recuperare una condizione divina che spetta per diritto ereditario e di cui il candidato ai misteri avverte una grande nostalgia che funge da pungolo: in una serie incessante di prese di coscienza, penetrando la natura umana, disgregandone la sua apparente compattezza sotto l’azione del calore infernale del crogiolo alchemico, Dante realizza l’opera al nero, la nigredo. 

Nelle profondità del suo abisso interiore lo attende Lucifero, la sorgente energetica dell’ego dialettico che, come il minotauro nel labirinto, deve essere affrontato dall’eroe solare che diviene consapevole di essere dominato da forze che lo governano, plasmando la sua fallace personalità in cui si immedesima, ma che lo separa dalla integrità del suo vero essere. 

lucifero, divina commedia
Abbandonati i pre-giudizi e smascherato il suo programma interiore originato da karma, educazione ed esperienze, l’iniziato sa che il sistema che lo alimenta deve essere spento, un nuovo cielo e una nuova terra devono apparire.

Per questo Dante, nel profondo del suo inferno, incontra Lucifero il quale ha tre facce: una nera, una bianca e una rossa, i colori dell’alchimia, perché anche le energie luciferine si convertiranno con il compimento della Grande Opera: “… conviene che di fortezza t’armi”, gli consiglia Virgilio mentre Dite-Lucifero, con le sue ali tutto ghiaccia, perché tale è la sua azione cristallizzante e Dante così descrive la sua morte iniziatica: “… io non morì, e non rimasi vivo”. 

Ormai le energie luciferine sono domate, Virgilio e il poeta si aggrappano a Lucifero per uscire dall’inferno, vale a dire che la stessa natura dialettica, vinta dalle energie divine, diviene lo strumento per riscattare l’uomo.

Non a caso Dante, volgendo lo sguardo indietro, vede Lucifero capovolto, evidente simbolo della conversione che avviene quando nel bacino dell’iniziato (raggiunto dalla luce entrata nel suo sistema attraverso il cuore) Cristo e Lucifero domato, qual unico flusso di energia, risalgono lungo il canale del serpente, lungo la spina dorsale realizzando l’abito di luce, il manto d’oro delle nozze. L’inferno finisce con il verso “… e quindi uscimmo a riveder le stelle”, la stella che appare nell’athanor alchemico dopo il fetore della sostanza sotto l’effetto del fuoco che la sollecita.

Il Purgatorio

“Per correr migliori acque alza le vele
ormai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sè mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al cielo diventa degno”.

Inizia così il Purgatorio, la fase alchemica dello albedo, della purificazione, della caduta delle scorie sotto l’effetto del fuoco, in cui è finalmente possibile intraprendere la salita alla montagna che a ogni passo porta al distacco dai valori del piano orizzontale e alla conquista della libertà.

Con Casella, Dante vede quanto leghi la stessa bellezza della terra, con Manfredi scopre l’effetto dei rancori, con Jacopo del Cassero constata come i ricordi possano pietrificare l’anima, con Bordello è la polemica politica a legare. Insomma con i personaggi mano a mano incontrati, Dante scorge i suoi legami interiori da sciogliere per aspirare alla libertà.

All'ingresso un angelo su 3 gradini, ancora contrassegnati dai 3 colori dell’opera alchemica, lo segna sulla fronte come i salvati dal Signore di biblica memoria: sette “P” sono tracciate sulla sua fronte, i sette peccati capitali secondo la critica, comunque sette ostacoli da sciogliere nel processo di purificazione per rendere possibile la visione, l’apertura del terzo occhio, l’accensione del candelabro dai 7 bracci. Solo con il passaggio per le 7 cornici – come i 7 gradini dei misteri mitriaci e massonici – Dante può essere idoneo agli stati superiori dell’essere, alla trasformazione più radicale che lo porterà dal piombo all’argento e quindi all’oro. 

Nel ricevere i doni delle sette forze dello Spirito, superando le prove a esse connesse, Dante purifica il suo essere e il suo fardello si alleggerisce preparandosi a una frequenza vibratoria superiore. La scala a sette gradini suggerisce altrettanti livelli d’iniziazione: la guida è ancora Virgilio, perché il suo strumento più elevato è la mente illuminata che lo induce a neutralizzare i legami con il mondo, senza reprimerli, vigilando, osservandoli obiettivamente, come Dante appunto fa con i personaggi che incontra.

Staccarsi dalle abitudini del sangue, dai pregiudizi, dal sentimentalismo oscurante, costituisce la base per quella trasformazione fondamentale che porta l’iniziato a liberare la vera facoltà del pensiero, a realizzare l’iniziazione di Mercurio, del potere del pensiero che porterà alla conoscenza di prima mano, alla vera saggezza. A Mercurio segue Venere, fonte di amore che guida l’iniziato a porsi al servizio di Dio per compassione verso il mondo. 

La Gnosi penetrata nel sistema del candidato ai Misteri conquista i santuari della testa e del cuore, ma ora i nuovi potenziali sviluppati devono essere concretizzati al servizio del piano divino, attraverso una forte volontà nella quale si esprima la potenza creatrice, il fiat lux: è l’iniziazione di Giove, il dio del fuoco, del mago che tutto può perché saggio, pieno d’amore e fornito di volontà divina, è il sacerdote che collega le terra al cielo e che ripristina il piano divino. Quando non vi è purificazione e non viene compiuto il giusto procedimento alchemico, si rischia di divenire maghi luciferini che hanno acquisito poteri per accrescere il proprio ego e non per eseguire la volontà di Dio. 

Non a caso nella fase dell’albedo gli alchimisti pongono la prova del drago, dell’anima liberata dal corpo che si trova ad affrontare una forza tremenda pronta a destarsi per prendere il sopravvento e imprigionare l’anima, se l’attenzione dell’iniziato si indebolisce, soggiogata dagli antichi legami: il rischio di tale fase è di perdersi nell’ingannevole mondo tenebroso, nel divenire operatori dell’occulto, al servizio di Lucifero.

La Forza Saturnina

Il processo continua il suo sviluppo sotto l’effetto del fuoco dello Spirito: ora è Saturno, responsabile del processo di cristallizzazione della struttura fisica, a essere dominato per lasciare il posto al nuovo Saturno che, dopo aver eliminato con la falce gli impeti passionali della vita inferiore, le forze della personalità dialettica, segna il passaggio tra una vecchia e una nuova dimensione. Dal nuovo Saturno, nascerà l’uomo celeste. Aperta la porta di Saturno al limite della dimensione dialettica, l’uomo divino inizia a manifestarsi e diviene esso stesso sorgente d’amore, di un amore impersonale che abbraccia l’intera umanità. 

Nel Purgatorio, dunque, l’iniziato domina gli aspetti inferiori dei pianeti, per consentire a quelli superiori di manifestarsi, al fine di conseguire il Paradiso. Alla settima cornice Dante attraversa un cerchio di fuoco (in greco pur), estrema prova di purificazione possibile solo per chi ha già compiuto un graduale, consapevole processo di liberazione dell’anima dai legami della materia. L’iniziato è pronto per la Gnosi: “…tra Beatrice e te è questo muro”, dice Virgilio. 

Con il supremo sforzo di volontà, spinto dal desiderio del divino, Dante realizza l’albedo, l’opera al bianco: “Non aspettar mio dir più nè mio cenno: libero, dritto e sano è il tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: per ch’io te sovra te corono e mitrio”. La creatura già in balia del karma e di autorità esteriori, diviene rex pontifex, Cavaliere Kadosh che riunisce in sé corona e mitra, potere temporale e spirituale, per cui è libero e finalmente responsabile, capace di ascoltare la saggezza che può acquisire solo l’anima, non più condizionata dai legami della materia, grazie alla luce divina che non incontra più ostacoli nell’inondare l’intero essere trasformato. 

Ora Dante incontra Beatrice, di cui darà la definizione nel VII canto del Paradiso: “… il santo rivo ch’esce da fonte onde ogni Ver deriva”. È la Gnosi, l’intelligenza dei trovatori, la donna, la sapienza divina, la luce di Dio, la Grazia. Il viaggio per il Purgatorio è concluso e l’iniziato è “…rifatto sì come piante novelle rinnovellate di novella fronda, puro e disposto a salir alle stele”. “Novelle, rinnovellate, novella”, una triplice esaltata sottolineatura dell’Uomo Nuovo che è nato dalla vecchia natura, ormai nel fondo dello athanor.

“Nel ciel che più della sua luce prende fu’ io…”, qui Dante si sente trascendere i limiti della condizione umana e s’innalza attraverso la sfera del fuoco. L’iniziato oltrepassa la natura umana, è rinato nella luce nella quale fissa lo sguardo: la trasfigurazione è compiuta e, non a caso, il poeta passa nel cielo della luna, simbolo alchemico della fase al bianco.

In questo passaggio l’iniziato richiama l’attenzione di chi è in grado di comprendere il suo discorso:

“O voi che siete in piccioletta barca, desiderosi di ascoltar, seguìti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, chè, forse,
perdendo me, rimarreste smarriti”.

Il Paradiso

L’esperienza del Paradiso è per pochi ed è coperta dal segreto iniziatico, essendo straordinaria. Inizia la fase culminante dell’opera alchemica: la rubedo. Dante rivolge la sua preghiera al dio sole Apollo e, perennemente accompagnato dalla Luce divina, dalla Saggezza, da Beatrice, attraversa le sfere celesti corrispondenti a Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno, le stelle fisse, l’Empireo, viaggiando tra mondi e dimensioni. 

Come nel Purgatorio i pianeti hanno rappresentato il loro aspetto inferiore di cui disfarsi, con la purificazione che consegue al distacco dal potere del pensiero egocentrico, responsabile primo della separazione da Dio, dallo amore umano che lega al mondo, dalla azione al servizio del mantenimento del mondo dialettico, dalla volontà guidata dall’egoismo e dal potere, dalla cristallizzazione del vecchio Saturno che chiude la porte alla energia divina, compiuto tale processo nel Paradiso gli stessi pianeti rappresentano le mutazioni legate al procedimento alchemico nella sua fase finale. 

Di sfera in sfera Dante passa in un processo di esaltazione ed estasi che spesso si esprime con momentanee cecità, con il sonno o con svenimenti, nel tentativo di spiegare a parole la trasformazione della coscienza sotto l’effetto del fuoco divino. 

Dal nuovo Mercurio nasce la capacità di cogliere il piano divino, di acquisire la conoscenza che è sapienza e saggezza. Dalla nuova Venere nasce la capacità d’indirizzare l’amore verso l’esterno, al servizio di Dio e del creato. Dal nuovo Marte nasce la volontà, riflesso di quella divina. Dal nuovo Giove nasce il sacerdozio, l’essere strumenti della luce realizzando la Giustizia secondo la volontà di Dio. Non a caso, nel cielo di Giove, Dante accusa il papa e si appella al primo verso del libro della sapienza: “… diligite iustitiam, qui iudicatis terram”, la M finale si trasforma in aquila, simbolo di quell’impero che ha la sua fonte nella mitica terra bianca, nel regno del prete Gianni, in Shamballa, per designarlo con nomi di diverse tradizioni. Il cielo di Saturno, degli spiriti contemplanti, esprime l’ingresso in una nuova dimensione, lì ove le forze cristallizzanti del vecchio Saturno non hanno accesso, si manifesta l’Uomo divino accolto da una scala d’oro, un ampio passaggio verso il compimento dell’opera. 

Nell’ottavo cielo delle stelle fisse, l’Uomo Nuovo appare in tutto il suo splendore, tanto che a Dante appare la Luce del Cristo: il sorriso di Beatrice, la forza irradiante della Gnosi diviene tale che Dante sviene, la sua coscienza non è più umana. Segue la visione della Vergine, dell’anima nuova di natura divina, è l’anima mundi degli alchimisti che genera l’essere divino e che è generata dalla personalità trasmutata nel procedimento alchemico. 

Il processo continua e, negli occhi di Beatrice, Dante scorge un punto luminosissimo: Dio circondato da nove cori angelici e oltre l’empireo, il cui splendore acceca: è il momento conclusivo della rubedo, la visione del Paradiso dove, nel fiume di acqua viva, appare la candida Rosa della più pura tradizione esoterica, il simbolo per eccellenza del divino, la meta agognata da ogni cercatore della Verità, cantata dai trovatori e cercata dai cavalieri, come il loto dell’oriente, espressione di una fioritura che, con lo stelo, attraversa le acque del divenire, per aprire i suoi petali alla luce del Sole. 

La rosa è fiorita lì dove i due bracci della croce umana si uniscono nell’unità. Beatrice lascia Dante accolto da S. Bernardo, colui che ha dato la regola all’ordine dei Templari, la coscienza divina che ormai guida l’iniziato e che gli consente di “ficcar lo viso per la luce eterna”, dove il lungo viaggio attraverso il molteplice si conclude con il ritorno all'unità: “nel suo profondo vidi che s’interna, ciò che per l’universo si squaterna”.

La natura umana, mortale e fallace si è trasformata nell’oro splendente del corpo di gloria della resurrezione.

Fonte tratta dal sito .

fonte: http://wwwblogdicristian.blogspot.it/

la chiave della Divina Commedia: l'amore



Il segreto della Divina Commedia. L’amore.
Introduzione alla lettura della Divina Commedia.

Paolo Franceschetti



1. LA CHIAVE DI LETTURA DELLA DIVINA COMMEDIA: L’AMORE.


La chiave di lettura della Divina Commedia, esplicitata in modo chiaro e inequivocabile da Dante nell’ultimo verso dell’opera, è l’amore, inteso non in senso umano ma divino. Il percorso dantesco è un percorso iniziatico, un viaggio quindi di perfezionamento di se stessi, alla ricerca del segreto della vita, e quindi dell’amore, che coincide con Dio.
Non a caso, la parola amore ricorre 148 volte, con una progressione, nel senso che il numero di volte che compare il sostantivo aumenta man mano che ci si avvicina al Paradiso: troviamo la parola 19 volte nell’Inferno, 50 nel Purgatorio e 79 nel Paradiso. 
Dio è chiamato «’l primo amore» già all’inizio di tutta l’opera (Inferno III, 6).
Se letta in questa chiave, quella dell’amore, molti apparenti misteri e molte incongruenze dell’opera dantesca non saranno più tali.



Che questa sia la chiave sotto la lente della quale leggere tutta l’opera è assolutamente evidente dal fatto che questo è il concetto di cui Dante parla più spesso e più a lungo; in particolare sono dedicati al concetto di amore i canti centrali di tutta la Commedia (esattamente al centro abbiamo infatti il canto XVI del Purgatorio; nel XV si comincia a parlare dei beni materiali, il XVI tratta delle cause della corruzione nel mondo, il XVII tratta dell’amore vero e proprio, il XVIII del libero arbitrio, e tali canti idealmente si collocano nel mezzo di tutta l’opera).
Qui il concetto è spiegato benissimo, in modo spiritualmente molto elevato e sviscerato in tutti gli aspetti possibili, sì che poi tutta la Commedia può essere letta come una precisazione, una spiegazione, un dettagliare, questo concetto centrale. Anzi, Dante stesso, per bocca di Virgilio, dopo che costui gli ha spiegato per due canti il concetto di amore, precisa che ci sono altri aspetti del concetto che dovranno essere approfonditi, ma da Beatrice e in tempi successivi. Virgilio spiega anche che, però, alcuni aspetti dell’amore non possono essere compresi solo con l’intelletto.
Ogni essere umano nasce capace di amore, che è la naturale attrazione verso qualcosa. Il punto è, però, che non tutto l’amore si rivolge sempre a cose positive, e quindi possono esserci amori distruttivi, quando l’oggetto desiderato non porta alla felicità ma alla sofferenza. Quello che viene chiamato male è in realtà amore mal indirizzato, ovvero amore per il male altrui.
E’ con la ragione che possiamo indirizzare l’amore verso ciò che ci fa bene ed è utile e positivo, sia per noi che per gli altri.
Alcuni autori ritengono poi contraddittoria l’affermazione secondo cui l’odio per Dio non sarebbe possibile, quando in altre parti dell’Inferno alcuni personaggi, come Lucifero, avevano invece affermato l’esatto contrario; ma in realtà la contraddizione è solo apparente se si ha presente il concetto iniziatico secondo cui l’uomo è una particella del divino, quindi l’odio per Dio è possibile solo nel momento in cui si ritiene se stessi separati dal tutto e da Dio.

Il concetto di amore, è dunque quello più spiegato della Divina Commedia, e a cui è dedicato il maggior numero di versi (torna infatti ad essere nominato anche nel canto XXVI del Paradiso, dove si precisa che Dio è l’oggetto dell’amore ma anche il fine e il principio di tutto) e nell’ultimo canto, dove si specifica che l’amore è il legame che tiene insieme tutte le creature e tutte le cose create (Paradiso XXXIII, 85-90).
E’ l’amore, infatti, che “move il sole e l’altre stelle”, come dice l’ultimo verso dell’opera; e l’amore è anche, in realtà, Dio stesso, come altrettanto esplicitamente dice al primo verso del Paradiso: “la gloria di colui che tutto move”. Il concetto è ribadito anche nell’Inferno, dove Dio è definito “Primo amor”, ovvero l’amore assoluto da cui tutto discende.

Dante viene spesso accusato di piazzare le anime all’Inferno, in Paradiso o in Purgatorio, secondo un suo personale capriccio, secondo quindi una visione personale che sarebbe assolutamente parziale e soggettiva. Non si capisce infatti (e i commentatori devono scervellarsi non poco per spiegarlo) come Dante possa collocare persone che amava (come Brunetto Latini o Farinata degli Uberti) all’Inferno, o possa fare delle differenze eclatanti, come quella di collocare Paolo e Francesca all’Inferno tra i lussuriosi, mentre poi donne dalla vita dissoluta  e molto più lussuriosa della amorosa coppia, vengono collocate in Paradiso, come Raab e Cunizza da Romano.

Il punto è che i vari personaggi della Commedia vengono collocati a seconda del loro grado di iniziazione (iniziazione che poteva essere anche conseguita in epoca precristiana), oppure a seconda dei “moventi” delle loro azioni; se sono dettati dall’amore, vengono collocato in Paradiso; se sono dettati da altri fini vengono collocati all’Inferno o al Purgatorio.

2. STUDIARE LA DIVINA COMMEDIA.


Gli studi ufficiali, da sempre, si sono appuntati sul significato letterale, allegorico, o morale, ostinandosi tutt’oggi, dopo 700 anni, a presentare Dante come un cristiano fedele alla dottrina cattolica, nonostante nella Divina Commedia di cattolico non ci sia nulla. Che Dante sia cristiano non c’è dubbio, lo dice lui stesso e a più riprese; ma mai Dante si definisce, in tutta la Commedia, fedele alla Chiesa di Roma.
Tanto per fare alcuni esempi, i più eclatanti: il Purgatorio non è assolutamente conforme a come lo presentava la Chiesa allora; l’Inferno anche, dal momento che, ad esempio, ogni persona in genere commette più peccati e invece, inspiegabilmente, Dante colloca ogni personaggio all’Inferno o in Purgatorio come se avessero commesso un solo peccato; personaggi non battezzati vengono collocati in Paradiso; il Paradiso si apre con un’ode ad Apollo e addirittura altrove si parla di “Giove crocifisso” (Purgatorio VI); non si fa cenno agli istituti dell’eucarestia o della confessione, né ad altri istituti tipici del cattolicesimo, e mai un cenno alla messa, che pure è uno dei pilastri della ritualità cattolica.
Gli studi che hanno cercato di approfondire la Commedia sono diversi ma, effettuati da un’ottica non iniziatica, non permettono di capire il quadro complessivo. Ad esempio il Valli fece degli studi eccezionali, ma partiva sempre dal presupposto che Dante fosse Cattolico. Lacunosi sono anche gli studi di Aroux, Caetani, Pascoli, Rossetti.
Per studiare Dante in chiave esoterica, quindi, abbiamo poco o niente: il libro di Robert John, “Dante templare”, che ha però il grosso limite di preoccuparsi di specificare che Dante era, sì, un templare, ma fedele alla Chiesa di Roma (una cosa difficile da conciliare); e di recente una studiosa eccezionale per chiarezza, intelligenza e cultura, Maria Soresina, la quale ha riletto la Divina Commedia in chiave catara, spiegando molti apparenti misteri dell’opera; ma anche nei suoi libri esiste un palese limite, perché la studiosa, non conoscendo i rapporti – strettissimi – tra Catari e Templari (entrambi appartenenti a quella corrente cristiana detta “giovannita”), e ignorando che Dante fosse un templare, scrive che il poeta era si, cataro, ma “certamente non era un templare”.
La lettura congiunta di questi due autori (stante lo stretto rapporto tra catarismo e templarismo) fornisce comunque una visione d’insieme diversa da quella tradizionale anche se sempre parziale.

3. LO SCOPO DELLA DIVINA COMMEDIA: IMPEDIRE LA DISPERSIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE TEMPLARE.


La Divina Commedia, letta in chiave esoterica, è un percorso iniziatico, che svela i principali segreti della dottrina giovannita, rosacrociana e templare.
Proprio perché è un percorso iniziatico, ad esempio, i peccatori sono collocati all’Inferno e puniti per un solo peccato; in quanto l’Inferno non è un luogo fisico, ma un luogo dell’anima. E con lo stesso criterio si spiega perché peccatori peggiori di altri sono collocati in Paradiso.

La cosa è nota da sempre agli iniziati, tanto è vero che Eliphas Levi, nella sua “Storia della magia”, scrive che la Commedia di Dante è un’opera che svela per la prima volta nella storia il simbolo della Rosacroce; in quest’opera c’è tutto il sapere del cosiddetto esoterismo “giovannita”, proprio di quei gruppi di società segrete che si rifacevano – come si rifanno oggi – alla dottrina di San Giovanni anziché a quella della Chiesa romana, che si rifaceva invece a Pietro e Paolo; a queste correnti appartenevano i Catari, i Patarini, i Dolciniani, i Bogomili, i Fedeli d’Amore, i Templari, i Rosacroce.

C’è allora da chiedersi perché i Giovanniti, che fino a quel momento avevano custodito gelosamente i loro segreti, decidono di mettere per iscritto il loro sapere.
La spiegazione è abbastanza evidente sol che si ponga mente alla data in cui l’opera viene redatta.

Essa viene scritta tra il 1304 (ma le data più probabile è il 1307) e il 1321, ovverosia – non a caso – proprio negli anni in cui inizia il processo ai Templari e brucia sul rogo Jacques De Molay.
Dante fu un cavaliere templare (nel museo di Vienna è presente una medaglia creata dal Pisanello, che raffigura Dante, con le iniziali F.S.K.I.P.F.T.: Fidei Sanctae Kadosh Imperialis Principatus Frater Templarius), iniziato ai misteri esoterici da Brunetto Latini, a sua volta entrato in contatto con i sufi e iniziato al templarismo in Francia; secondo l’attuale sovrano gran maestro dell’ordine templare Soeet, Luca Monti, Dante fu molto probabilmente anche il Sovrano Gran Maestro dei Templari, successore segreto di Jacques del Molay.

Si capisce allora perché i Giovanniti decidono di mettere in versi tutto il sapere iniziatico templare e rosacrociano. Il punto era che il processo ai Templari rischiava di distruggere completamente l’ordine e di disperderne le conoscenze, cosicché Dante si decide a svelare i segreti del cristianesimo Giovannita, in forma comprensibile solo agli iniziati che ne possedevano la chiave di lettura (“il velame de li versi strani”).
I Giovanniti avevano già, in passato, subito il massacro dei Catari, le cui fonti di conoscenza, i libri, e i principali esponenti, erano stati distrutti quasi completamente dalla Chiesa.
All’epoca di Dante, il rischio era che la storia si ripetesse, e che venisse disperso pure il patrimonio sapienziale templare, sì che tali conoscenze venissero definitivamente perdute.
Lo scopo del viaggio di Dante è esplicitato nel XXXII canto del Purgatorio, dove Beatrice raccomanda a Dante di tenere a mente tutto, per riferire ciò che ha visto una volta tornato sulla terra: “Però in pro del mondo che mal vive, al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, ritornato di là, fa che tu scrive”.
E più in là, nel XXXIII, il concetto viene ribadito: “Tu nota, e si come da me sono porte, così queste parole segna a vivi, del viver che è un correre a la morte”.

4. L’INCONTRO CON BEATRICE.


Oltre ai canti del Purgatorio che abbiamo citato sopra, il concetto di amore viene precisato da Beatrice al canto XXX.
Beatrice rappresenta diverse cose: è la donna che Dante amava, e quindi simbolicamente rappresenta l’amore (non però l’amore terreno, ma quell’amore che “move il sole e l’altre stelle”); ed è l’espressione della scuola cui Dante apparteneva, l’insegnamento da seguire per raggiungere la beatitudine, la Sophia ma al tempo stesso anche l’Amore.
Nel Dolce Stil Novo, infatti, i Fedeli d’Amore si chiamavano in tal modo perché erano fedeli a quell’amore predicato da Cristo, e che la Chiesa di Roma non seguiva più da molti secoli; anche la chiesa catara si chiamava “Chiesa d’Amor”, in contrapposizione alla Chiesa di Roma (da notare i due termini opposti e complementari: ROMA – AMOR). In generale quindi tutte le poesie d’amore di quel gruppo di poeti che prendeva il nome di Fedeli d’Amore (come del resto molte delle poesie dei Trovatori del 1200) nascondevano un significato esoterico.
Ciò è anche confermato dal sostantivo utilizzato da Beatrice stessa per indicare l’allontanamento di Dante dal suo insegnamento: altra “scuola”. Dante, cioè, dopo la morte di Beatrice avrebbe seguito altra scuola, non basata sull’amore, ma più sull’intelletto: “quella scuola c’hai seguitata e veggi sua dottrina come può seguitar la mia parola; e veggi vostra via dalla divina distar cotanto, quanto si discorda da terra il cielo che più alto festina”.
Beatrice spiega a Dante il motivo per cui si è ritrovato nella “selva oscura”: egli è nato infatti con doti naturali eccezionali, predestinato a compiere cose grandi, ma ad un certo punto ha smarrito la strada perché si è ritrovato a dare troppa importanza a cose materiali (“e volse i passi suoi per via non vera, immagini di ben seguendo false, che nulla promissione rendono intera”) smettendo di amare “lo bene al di là del qual non è a che s’aspiri”.
Dopo la morte di Beatrice, Dante ha quindi seguito “altra scuola”, concentrandosi sui beni materiali, nonostante la grazia divina lo avesse dotato di caratteristiche eccelse, distraendosi dall’obiettivo principale di ogni essere umano: la ricerca di Dio e l’amore.
E, per chi avesse dubbi sul fatto che Beatrice rappresenti una “scuola” di pensiero, quella della Chiesa d’Amor, contrapposta alla Chiesa di Roma, basti pensare che è Dante stesso a dire che dietro alle parole della sua Commedia si nasconde una vera e proprio dottrina: “sotto il velame de li versi strani”, infatti, Dante lo dice espressamente, si nasconde una “dottrina”, appunto; la dottrina giovannita, propria dei Catari, dei Templari, e dei Fedeli d’Amore, e che successivamente passerà ai Rosacroce e alla Massoneria.

5. MAOMETTO.


Dante incontra Maometto nel canto XXVIII dell’Inferno. Due sono le cose che colpiscono dell’incontro con Maometto.
La prima è che Maometto, che pure è collocato tra i seminatori di discordia, non dice nulla della ragione per cui si trova in quel posto, né dello scisma che ha creato nella religione abramitica.
La cosa che la maggior parte dei commentatori non riesce a capire è la ragione per cui proprio Maometto avverte Dante di portare un avvertimento a Fra Dolcino.
Cosa lega Fra Dolcino e Maometto? Ma, più in particolare, cosa lega le tre figure, Dante, Fra Dolcino e Maometto insieme?
La stranezza è solo apparente e si spiega se si tiene presente due cose: che Dante era un iniziato, e quindi le sue posizioni erano molto vicine a quelle dei Dolciniani; e che Dolciniani, Catari, Templari, condividevano con l’Islam molte conoscenze. Templari e Sufi, infatti, come abbiamo detto altrove, erano solo l’espressione di una diversità formale, all’interno di una cerchia di iniziati che condividevano però le stesse conoscenze.
Non a caso gli studiosi migliori ritengono che tutta la Divina Commedia sia stata ispirata (anche) da una corrispondente opera islamica, il “Libro della Scala di Maometto”.
Dante sta quindi dicendo che Maometto, i Dolciniani, e lui stesso, condividono uno stesso fine, sono dalla stessa parte.
Resta da capire il motivo per cui Maometto viene collocato all’Inferno.
Alcuni commentatori hanno sostenuto che Dante non potesse fare diversamente, altrimenti sarebbe stato condannato per eresia, ma tale spiegazione non è convincente perché Dante avrebbe avuto altre possibilità per evitare il problema, come non citarlo affatto.
Il punto invece è che Maometto fu, nella seconda parte della sua vita, un condottiero militare, non un iniziato, e la sua conoscenza non derivava da un vero e proprio percorso iniziatico, ma dal fatto di ricevere i messaggi da Dio, per tramite dell’Arcangelo Gabriele. Era infatti, a differenza di Cristo, un profeta, e Dante sapeva bene che il primo era un iniziato, oltreché un maestro, mentre Maometto non lo era.
Il posizionamento di Maometto all’Inferno, quindi, non è una scelta dovuta al “peccato” da costui commesso, ma relativo al grado di iniziazione e alla quantità di amore che mossero le sue azioni: la vita di Maometto, infatti, anche se fu intrisa di amore, compassione e umiltà, era pur sempre quella di un condottiero militare, le cui campagne, per necessità di cose, non potevano essere dettate (solo) dall’amore.

6. PAOLO E FRANCESCA.


Uno degli incontri più belli della Divina Commedia è quello di Dante con Paolo e Francesca. Quando si parla dell’amore dantesco, i critici ufficiali generalmente prendono questo canto come il più importante tra tutti quelli in cui parla dell’amore. Paolo e Francesca, travolti dall’amore l’uno per l’altro, vengono collocati all’inferno tra i lussuriosi, perché un giorno, mentre leggevano un libro, si sono lasciati andare alla passione e questo atto sarebbe peccato mortale, essendo Francesca sposata con Gianciotto Malatesta, fratello di Paolo, tanto da collocarli all’Inferno.
I commentatori non riescono però a spiegare perché personaggi che hanno avuto una vita lussuriosa molto peggiore di quella di Paolo e Francesca, vengano collocati in Paradiso, come ad esempio Cunizza da Romano, che addirittura – narrano le cronache del tempo – riteneva scortese non offrire il suo corpo a coloro che glielo chiedevano cortesemente. La spiegazione che viene data in genere è che questi personaggi si sarebbero pentiti e si sarebbero poi dedicati alla vita religiosa, Paolo e Francesca no. Ma la verità è che Dante non dà affatto questa spiegazione e il lettore la deve trovare da solo.
Paolo e Francesca sono all’inferno perché hanno ceduto ai sensi, perché hanno ceduto alla bellezza fisica l’uno dell’altro. Loro si amavano, sì, ma non è questo il loro peccato; il punto invece è che si sono lasciati trascinare dalla passione fisica e sensuale.
Oltre, in diversi punti, Dante ribadirà più volte che seguire gli istinti materiali allontana da Dio e fa precipitare l’uomo nella selva oscura, mentre seguire la via spirituale, e quindi agire per amore di Dio, porta l’uomo in Paradiso. Questo concetto è particolarmente chiaro se si legge l’incontro di Dante con Beatrice.
Non c’è in tutto il canto un solo verso di riprovazione verso i due amanti, o un qualsiasi giudizio morale; anzi, Dante è commosso dalla loro storia e vi partecipa empaticamente, e l’adulterio da loro consumato viene definito “doloroso passo” (“quanti dolci pensier, quanto disio, menò costoro al doloroso passo”). I due amanti non sono all’Inferno perché hanno commesso un peccato, ma perché, come tutti, quando vengono spinti dalla passione, perdendo di vista le “stelle” che dovrebbero essere sempre usate come guide, sono come fuscelli sbattuti dal vento, senza controllo. Tra tutte le passioni terrene però, questa è senz’altro una delle meno riprovevoli, tant’è vero che la loro pena non è poi così dolorosa, se la si compara a quella di altri peccati e, anzi, potrebbe addirittura essere una condizione desiderabile per due amanti, perché vengono costretti a rimanere insieme, anche se sbattuti dal vento (“’nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggeri”).

7. RILETTURA DELLA COMMEDIA IN CHIAVE INIZIATICA.


E’ ovvio che se letta nella chiave cattolica con cui tale opera viene spiegata nelle scuole e dagli accademici, l’impressione che si ricava è di contraddittorietà, parziarietà, se non addirittura talvolta di confusione concettuale; ben altra impressione si ha se si legge l’opera in chiave iniziatica.

Ovviamente è impossibile dare conto in questa sede di tutti gli aspetti dell’opera, per rileggerli in chiave iniziatica; di seguito mi limito agli accenni relativi a ciò che più mi ha colpito in relazione ai miei studi, per fornire alcuni spunti di riflessione e approfondimento a chi vorrà seguire questa chiave di lettura; e riservandomi di approfondire in articoli successivi altri aspetti dell’opera.

►Incomprensibili, in chiave letterale, sono alcune scelte poetiche come quella di chiamare Dio con l’appellativo tratto dalla religione “pagana”, Giove (Purgatorio VI, 118; Inferno XXXI, 92), o quella di collocare all’Inferno personaggi mitologici come Ulisse. Per non parlare della bizzarra scelta di iniziare il Paradiso con un invocazione ad Apollo. Tali scelte, infatti, avevano fatto insospettire la Chiesa che in un primo momento aveva osteggiato l’opera dantesca, salvo rivalutarla in un momento successivo. La cosa si spiega se invece si tiene presente che, per la dottrina giovannita, Dio è uno e sempre uguale, qualsiasi religione si segua e qualsiasi nome gli si voglia dare, come del resto è scritto anche nel Corano: se Dio avesse voluto creare una sola religione lo avrebbe fatto; se ne ha create diverse è perché voleva che diverse siano le strade per arrivare a Dio.

►Inspiegato da tutti i commentatori è il motivo per cui nel canto centrale di tutto il poema (il XVI del Purgatorio, che idealmente è al centro di tutta la Commedia) uno dei concetti dottrinali che costituiscono la chiave dell’opera, quello del libero arbitrio, viene messo in bocca ad un personaggio apparentemente scialbo di cui la maggioranza dei critici ignora l’identità: Marco Lombardo.
Il mistero può essere svelato sol che si tenga presente che tale personaggio fu il vescovo cataro di Concorezzo, considerato, allora, una delle massime autorità spirituali della Chiesa catara (ovverosia della Chiesa d’Amor, come la chiamavano i catari stessi) per la sua levatura morale e spirituale.

►La maggior parte dei commentatori non spiega perché i golosi sono divorati da un cane (Cerbero, che li graffia, li iscoia e li isquatra) e sostiene che qui Dante non abbia applicato il contrappasso, oppure che tale contrappasso sia di difficile comprensione. Altri, invece, sostengono che il contrappasso consista nell’essere mangiati, lì dove il peccato dei golosi è di mangiare troppo e qualche commentatore addirittura si limita a dire che il contrappasso consiste nel giacere nel fango, ignorando completamente il fatto che Cerbero li divori (v ad es, il libro "Vita di Dante", di Pasquini).
In realtà il contrappasso è evidentissimo, sol che si tenga presente che nella dottrina catara, in quella rosacrociana e giovannita in genere, è predicato il vegetarianesimo, per rispetto agli animali; quindi i dannati ricevono, in questo girone, la stessa pena che loro hanno inflitto agli animali che hanno mangiato scuoiato e divorato, per giunta dopo averli storditi ripetutamente con urla che li confondono e li rendono quasi sordi.

►Diventa poi chiaro perché Dante ponga nella Candida Rosa dei Beati dei personaggi biblici che non hanno ricevuto il battesimo (sono personaggi che hanno seguito la via iniziatica dell’amore); il motivo per cui non vengano citati personaggi di spicco della storia dell’umanità come Plotino o Pitagora (il sistema pitagorico e le sue dottrine sono una delle basi fondanti della Divina Commedia).

►Diventa chiara la ragione per cui Saladino (che era un condottiero islamico) viene collocato nel Castello degli Spiriti Magni, nonostante, dal punto di vista cristiano, dovrebbe essere collocato tra gli eretici (in quel periodo infatti l’Islam veniva visto come un’eresia rispetto al cristianesimo). Per giunta nella biografia di Saladino si contano migliaia di morti cristiani, tanto che costui si meritò l’appellativo di “feroce” (egli sconfisse infatti l’esercito crociato nel 1187), quindi a maggior ragione da un punto di vista cristiano, la sua collocazione corretta sarebbe l’Inferno; Saladino era però un iniziato sufi, le cui posizioni erano molto più vicine a quella cristiane e dantesche ripetto alla vulgata comune (basti pensare che anche San Francesco intrattenne rapporti ottimi con il nipote di Saladino, Al Malik Al Kamil). E tale personaggio non era “feroce” come lo dipingevano le cronache di allora; al contrario, come molti degli iniziati sufi, era un condottiero eccezionale ma amorevole e compassionevole, tanto che la sua biografia è costellata da momenti di straordinaria elevatezza; ad esempio durante la battaglia di Giaffa del 1197, re Riccardo era rimasto appiedato e Saladino gli inviò due cavalli, affinché potesse continuare a combattere come un personaggio del suo rango meritava.

►Diventa altresì spiegabile anche perché, oltre al personaggio già citato, Cunizza da Romano, vi sia una prostituta come Raab, per giunta nata prima della venuta di Cristo, collocata nel IX canto del Paradiso.

►In chiave iniziatica diventano chiari anche alcuni passi che parlano dei principali concetti spirituali: la reincarnazione, la meditazione, la continuità sapienziale tra le varie tradizioni religiose. Nel Paradiso Dante parla di resurrezione (“e quinci puoi argomentar vostra resurrezion”; Paradiso VII, 146); la critica ha sempre inteso tale termine come la resurrezione dei corpi nel giorno del giudizio, ma la verità è che Dante non accenna affatto al giorno del giudizio (che è invece un’arbitraria aggiunta di tutti i commentatori); in realtà l’autore qui sta parlando della resurrezione in chiave iniziatica che è definibile o come la reincarnazione o, forse, come “lo stato in cui l’uomo fa l’esperienza di Dio, e riconosce che creato e creatore sono la stessa cosa, facendo l’esperienza del tutto”.
Nell’ultimo canto del Paradiso, invece, egli dice chiaramente che Dio lo si può percepire solo dentro di noi, mediante la meditazione, quando avviene quel processo che in tutti i tempi e le epoche è stato chiamato “illuminazione” o “estasi mistica” (“la mente pervasa dal fulgore”; Paradiso XXXIII, 141).

Come abbiamo detto, qui mi sono limitato a qualche accenno, riservandomi in futuro di approfondire.

8. CONCLUSIONI.


Resterebbe da chiarire perché la Divina Commedia, nonostante le traduzioni letterali non le rendano merito e la riducano a un’opera incompresa nei suoi contenuti essenziali, abbia avuto tanto successo nei secoli, presso persone che del suo significato effettivo non hanno compreso quasi nulla.
Il punto è che la prosa parla alla ragione, la poesia parla al sentimento e all’anima; ed è per questo che alcuni si sentono irresistibilmente attratti da quest’opera, pur continuando a pensare che essa consista in un banale viaggio fatto per l’incomprensibile amore di una donna conosciuta a nove anni e morta molto presto, Beatrice, di cui il poeta continua a cantare questo amore, nonostante fosse sposato da anni con Gemma Donati.
Inoltre, essendo un’opera da leggere in chiave iniziatica, è comprensibile solo a partire dal livello di coscienza e di cultura iniziatica/spirituale del lettore o dell’interprete; ad esempio un ateo o una persona priva di cultura spirituale non riusciranno mai a capire tutti i passaggi della Commedia. E da qui la spiegazione del perché la maggior parte dei lettori si innamora dell’Inferno. L’Inferno infatti tratta la materia, e questa è comprensibile da tutti. Tale cantica attrae per le suggestive immagini dei dannati, soggetti al contrappasso, nonché per i rumori, gli odori e i personaggi che lo popolano, come Lucifero, Cerbero, Caronte, che rimangono scolpiti nella memoria collettiva e sono conosciuti quasi da tutti perché sono, in effetti, comprensibili da chiunque.
Il Purgatorio invece inizia ad essere più evanescente, le immagini diventano meno nitide, i concetti dottrinali più complessi, finché nel Paradiso c’è solo luce e amore, e può quindi rimanere abbagliato da queste cantiche solo chi dalla luce e dall’amore è attratto, e chi questi concetti li ha capiti anche nella vita reale, trascendendo la materia e vedendo ciò che c’è al di là di questa.

Infine, esiste una ragione ben precisa di ordine storico. La diffusione dell’opera di Dante divenne da subito inarrestabile, e allora la Chiesa, che pure aveva messo all’Indice alcuni testi danteschi, bruciandoli sul rogo, come il Convivio, e che nei primi tempi considerò eretica la Commedia, ad un certo punto se ne appropriò, considerando Dante un campione della fede cattolica. Non potendo combatterla, insomma, la inglobò nel corpus delle opere ufficiali, diffondendone una interpretazione, che è tutt’ora quella più diffusa, alla luce del cattolicesimo. Per questo il reale contenuto della Commedia non è stato mai comprensibile fino ad oggi, ma è stato tramandato solo in ambienti iniziatici ed esoterici.
La Divina Commedia divenne quindi l’opera fondamentale della Chiesa romana, ma anche di quella giovannita e di tutte le organizzazioni esoteriche fino ai nostri giorni, compresa la Massoneria; cioè dei due pilastri che hanno dominato il mondo ieri come oggi, anche se con alterne vicende.
E, come nei libri sacri di quasi tutte le religioni, ognuno ci vede quel che vuole vedere e fin dove riesce.

9. BIBLIOGRAFIA.


Oltre ai classici studi di Aroux, Rossetti, Valli, Pascoli, ormai quasi introvabili, segnaliamo alcune opere più recenti che si trovano ancora in commercio:


Alessandrini, Dante Fedele d’Amore, Atanor, 1960

Bartolozzi, Exoterismo e esoterismo nell’opera dantesca (Atheneum)

Contro Primo , Dante templare e alchimista

Cuccia Andrea , Il pensiero esoterico nella Divina Commedia di Dante, Rubbettino

Cusani Emma, Il grande viaggio nei mondi danteschi. Iniziazione ai Misteri Maggiori (Edizioni Mediterranee)

Dainelli Chiara , Il codice astronomico di Dante, Il sapere proibito della divina commedia, Eremon.

De Benedetti Stow Sandra , Dante e la mistica ebraica, Giuntina

Di Stefano René, L'altro Viaggio, Ecig.

Guenon René, L’esoterismo di Dante

Guenon Renè, L'esterismo Cristiano e San bernardo, Oggero editore.

Lancianese, I templari, Dante e i fedeli d'amore, Ed. Cenacolo Pitagorico Adytum.

Lanza Adriano, Dante e la gnosi, Mediterranee

John Robert, Dante templare.

Lanza Adriano, Dante eterodosso, una diversa lettura della divina commedia, Moretti e Vitali

Macaluso Giuseppe, Dante e Maometto

Malvani Angela e Giulio Malvani, Arbor Vitae, Il paraiso di dante e l'albero della vita nella cabala ebraica, Penne e Papiri

Malvani Angela e Giulio Malvani, L'inferno esoterico di Dante

Manetti Renzo, Beatrice e Monna Lisa, Polistampa.

Manfred Hardt, I numeri nella divina commedia, Salerno

Mazzarella Adriana, Alla ricerca di Beatrice, Dante e Jung; Edra.

Noureldeen Abdullah, Occhio diverso sulla divina commedia, Universitalia

Philaletes A., L'esoterismo Rosacroce nella Divina Commedia, Bastogi.

Palacios Miguel Asin, Dante e l’Islam

Poltronieri Morena, Ernesto Fazioli, E Dante scrisse di magia, Hermatena.

Ricolfi Alfonso , Studi sui fedeli d’amore

Riva G. Iacomini A., Cima M.  Opere e linguaggio segreto di Dante e dei fedeli d'amore, straordinari rischiaratori dell'universo, Il levante

Signore Carlo, Nei segreti di Dante, Archè.

Soresina Maria, Libertà va cercando, Il catarismo nella Commedia di Dante, Moretti e Vitali

Soresina Maria, Nelle segrete cose, Moretti e Vitali.

Trusso Antonio, Dante e la tradizione alchemica, Mimesis

Valli Luigi, Il segreto della Croce e dell'aquila nella Divina Commedia, Luni editrice.

Valli Luigi, Il linguaggio segreto di Dante e dei fedeli d'amore, Firenze libri editrice.

Vinassa De Regny, Dante e Pitagora, la rima segreta in Dante, Guaraldi.



Si consiglia inoltre la visione del film di Lois Nero, Il mistero di Dante.


La tesi secondo cui Dante sarebbe il Maestro segreto dei Templari dopo Jacques De Molay è accennata da Luca Monti nel libro “Firenze città santa dei templari”.

Per un precedente articolo su Dante pubblicato su questo blog v:

http://paolofranceschetti.blogspot.it/2010/01/dante-templare-massone-rosacrociano.html

Fonte tratta dal sito .

fonte: http://wwwblogdicristian.blogspot.it/


Scrive Solange Manfredi:

La Divina commedia non va studiata, va vissuta, amata, letta come se si guardasse negli occhi dell'amata perdendosi, non cercando di capire per quale strano gioco dei colori dell'iride il suo sguardo è così meraviglioso.
La divina commedia parla a tutti, verrà capita da ciascuno a seconda delle sue capacità e dall'incontro che nella vita faranno con qualcuno che li guidi, con dolcezza, a capirne la chiave di lettura. Gli studi sulla divina commedia sono fuorvianti o incompleti non perché fatti da non iniziati, anche, ma non è questo il punto. Sono incompleti perché sono stati fatti da persone non formate, da persone che hanno usato solo la ragione e non il cuore, da persone che, ebbre della loro ragione, non si sono accostate all'opera con umiltà, ma più attente a dare sfoggio alla loro erudizione ma, ancora di più, da persone che spaventate, hanno usato la ragione per leggere la divina commedia senza avere il coraggio di fare ciò che Dante chiede si dal primo canto, ovvero con umiltà fai il viaggio con me. Per evitare di fare quel viaggio dentro di loro si sono trincerati dietro la ragione e le parole. Non hanno fatto il viaggio, hanno solo guardato il viaggio di Dante, come si guarda un film, non lo hanno vissuto, ma lo hanno analizzato e giudicato. È per paura di fare il viaggio che non si capisce la Divina commedia.
La divina commedia, letta con coraggio, cioè facendo il viaggio e non semplicemente guardando chi fa il viaggio, svela il segreto della vita, non una dottrina. Certo, giovanniti, rosicruciani e templari erano i custodi di tale segreto, ma il segreto è universale ed oggi è per tutti.
Il percorso compiuto da Dante, poi, non è un percorso alla ricerca dell'amore, ma un percorso alla ricerca del segreto della vita, che è l'amore.