giovedì 27 dicembre 2018

il delitto di Giarre, gli ziti sotto l'albero


31 ottobre 1980. Un pastore cammina per le campagne di Giarre, un paese circondato da agrumeti, a metà strada fra Catania e Taormina. Il cielo è nuvoloso. Non piove. 
L’uomo è assorto nei suoi pensieri, fischietta. Ha una mano in tasca e nell’altra un bastone in legno. 
Una leggera brezza rinfresca l’aria. L’abitato non è lontano: case popolari, la caserma dei carabinieri, alcune giostrine per bambini. Tutto attorno quel giorno è silenzio. 
Ancora una folata di vento e l’uomo si ferma: aggrotta la fronte come se fosse stato colpito da qualcosa di inaspettato. Annusa l’aria. Fa ancora qualche passo. Un odore acre, denso, quasi oleoso riempie le sue narici. Riprende a camminare, portando la mano libera al volto. Si guarda intorno, per cercare di capire da dove arriva quel tanfo, che ad ogni passo si fa sempre più nauseabondo. 
All’improvviso li vede. 
Sotto ad un pino marittimo scorge due giovani distesi. Sono quasi abbracciati, si tengono per mano. Sono morti da qualche giorno, visto lo stato dei loro corpi, sentito il tanfo che emanano. Nessuno li ha visti prima, nessuno si è accorto di nulla. 
Chi sono? Chi li ha uccisi? E come mai sono uniti quasi in un abbraccio d’amore e morte? 
Uno è Giorgio Agatino Giammona. Ha 25 anni, è gay. In paese tutti lo chiamano “puppu cu’ bullu”, il puppo (gay) col bollo. Si è guadagnato questo nomignolo a 16 anni, quando è sorpreso con un altro ragazzo in auto in atteggiamenti intimi e viene denunciato dai carabinieri per atti osceni. È figlio di un commerciante di strumenti musicali, la famiglia è benestante. Nessuno in casa vede di buon occhio le sue inclinazioni sessuali, tanto che il padre arriva ad allontanarlo da Giarre. Ma serve a poco. 
L’altro è Antonino Galatola, di soli 15 anni. Viene da una famiglia modesta, di lavoratori, che a fatica comprendono il suo modo di essere. Suo padre ha un banco di giocattoli al mercato, gira per tutta la provincia. Tutti a Giarre sanno che è un bravo ragazzo. 
Tre colpi di pistola calibro 7,65 hanno messo fine alla loro vita. 


Mancano da casa da due settimane. Eppure nessuno ha setacciato la zona con i cani, neppure le loro famiglie, nessuno ha sentito il tanfo della carne in putrefazione. Insomma, nessuno li ha cercati. Quell’odore arriva fino alle prime case: come mai nessuno ha fatto nulla? 
I due giovani sono scomparsi dopo che il paese ha cominciato ad additarli come “i ziti”, i fidanzati. Del resto Giorgio e Antonino non hanno fatto nulla per nascondere la loro storia. Hanno iniziato a frequentarsi alla luce del sole, non facendo mistero dei loro sentimenti da qualche mese. La loro sfrontata libertà non passa inosservata per le vie del piccolo borgo della provincia siciliana degli anni ’80. Non passerebbe ora, figuriamoci allora. Iniziano le risatine, le gomitate al loro passaggio mano nella mano per le vie del paese. 
“Talìa i puppi” … “Arrivaru i ziti”. Ben presto le risatine sommesse diventano un coro di scherno. 
In un primo momento, forse anche per chiudere un caso che si prospettava “scomodo” per la reputazione di Giarre, i carabinieri propendono per il suicidio. Forse Antonino ha ucciso Giorgio e poi si è tolto la vita, sparandosi alla tempia. Ma l’arma del delitto dov’è? Davvero la vergogna aveva avuto la meglio sui sentimenti dei due giovani? All’inizio si pensa che sia l’unica ipotesi plausibile: accanto ai due una lettera di addio toglie ogni dubbio: “la nostra vita era legata alle dicerie della gente… non possiamo più vivere”. 
Si cerca l’arma del delitto/suicidio. In seguito ad una analisi più accurata del luogo del ritrovamento, poco lontano dai corpi, viene ritrovato il revolver. Qualcosa non quadra: è semisepolto dalla terra e ha la sicura abbassata. Com’è possibile? Come ha potuto un morto seppellire la pistola dopo aver messo la sicura? Il giorno dopo tutto cambia. Viene accusato del delitto un bambino di 12 anni, Francesco Messina, nipote di Antonino. 


Francesco è davvero un bambino, forse un po’ ritardato. È paffutello, con tante lentiggini, un gran lavoratore che da anni vive con i nonni che aiuta in campagna. È più affezionato a loro che ai genitori, secondo quanto dicono i parenti. Interrogato racconta una strana storia: sembra che i due ziti lo abbiano portato in campagna e gli abbiano chiesto di premere il grilletto. Francesco ha ubbidito, perché non avrebbe dovuto farlo? E poi lo hanno minacciato: “o ci uccidi o ti uccidiamo noi”. Ma qualcosa non torna. 
Anche i colpi sparati non combaciano con il racconto del bambino, che prima dice sette poi tre: due per Giorgio, in testa, uno per Antonino. È mistero anche in merito alla provenienza dell’arma: sarebbe stata consegnata nelle mani di Francesco direttamente dallo zio, ma secondo i testimoni il giovane non è tipo da portare o possedere una pistola. I carabinieri chiudono il caso, hanno un colpevole e questo basata per mettere a tacere le voci. Chiarezza è stata fatta, le indagini vengono chiuse, ma solo per 24 ore. Il giorno successivo un giornalista del quotidiano “L’Ora”, una testata di Palermo, avvicina Francesco e gli fa delle domande. Secondo il bambino non è vero che li ha uccisi. La confessione gli è stata estorta a suon di schiaffi e minacce di ritorsione verso i parenti, verso il nonno che lui ama tanto. Sembra addirittura che per la paura abbia urinato nei pantaloni, fra le risate divertite di tutti i presenti. 


Il paese si divide: innocentisti da una parte, colpevolisti dall’altra. L’Italia intera si divide. Tutti i quotidiani parlano del delitto di Giarre, di come le indagini siano state portate avanti male, con superficialità e troppa fretta di chiuderle. Il sindaco del paese si schiera fra chi non crede all’ipotesi del baby killer. Il quotidiano “La Sicilia” si spinge oltre, avanzando tre ipotesi, una delle quali considera proprio la possibilità che la confessione sia stata estorta in modo non ortodosso ad un ragazzino impaurito e inconsapevole di ciò che stava confermando. Questa tesi è suffragata dal fatto che la confessione sembra recitata a memoria, come frutto di un copione costruito puntualmente. 
Iniziano nuove indagini, non da parte delle forze dell’ordine, impantanate nelle loro argomentazioni, ma condotte dai giornalisti che seguono il caso. Interrogano la famiglia di Francesco, in particolare i nonni, che confermano che il bambino, il giorno del delitto, è sempre stato con loro a lavorare e che anche nei giorni successivi non ha mostrato segni di irrequietezza o di turbamento. 
Una volta aperto il vaso di Pandora, ecco che compaiono tutti i mali del mondo. Si ipotizza ora che i cadaveri in realtà siano stati portati solo in un secondo tempo sul luogo del ritrovamento, cosa plausibile in quanto nessuno prima di quel giorno ha sentito il fetore della decomposizione in zona, per altro molto vicina ad un gruppo di case. Un inviato de “Il Messaggero” insinua addirittura un collegamento fra i carabinieri di Giarre e Giorgio, probabilmente informato di alcuni comportamenti scomodi da parte di un rappresentante delle forze dell’ordine. Ma se fosse vero, di chi si tratta? 
Dalla realtà alle illazioni più fantasiose il passo è breve. Si comincia a parlare di feste e base di sesso e droga, a cui i due “ziti” avrebbero partecipato e portato anche Francesco. Perfino la magistratura comincia a notare irregolarità importanti nelle indagini compiute dall’Arma e la mancanza di comunicazione in merito ai fatti avvenuti a Giarre. 
Il magistrato si domanda come mai ristringere le indagini solo a Francesco, senza interrogare e verificare cosa abbiano fatto i familiari delle vittime il giorno della loro morte. Alla fine, nella Sicilia degli anni ’80, essere gay non era cosa da poco, soprattutto se si considera l’estrema libertà con cui vivevano la loro storia i due ragazzi. 
Poteva essere stata una vera e propria esecuzione, una morte necessaria per salvare il buon nome delle famiglie, per lavare il disonore causato da due figli gay. Il Procuratore che si occupa del caso, Giuseppe Foti, accusa apertamente i carabinieri di aver estorto la confessione. Ma nonostante tutte le irregolarità rilevate, si ritiene che le prove a carico dell’accusato siano inoppugnabili. Il fascicolo completo sul caso arriva a Catania e viene archiviato. Francesco è un baby killer di 12 anni, forse un po’ ritardato. La sola cosa che lo salva è la sua minore età: non è perseguibile. 


Il caso ben presto viene dimenticato e nessuno a Giarre fa nulla per tenere vivo il ricordo dei due giovani uccisi. Un mese dopo a Palermo viene fondata la prima sede dell’Arcigay, in risposta a quanto accaduto e all’indifferenza della gente. Promotori dell’iniziativa sono Marco Bisceglia, sacerdote dichinatosi omosessuale, e un giovane obiettore di coscienza, Nicola Vendola. Con loro Massimo Milani, Gino Campanella. L’Arcigay è la prima sezione dell’Arci dedicata alla cultura gay. Seguiranno poi le aperture di Bologna, Milano, Roma e via via in altre città italiane. 
La storia di Giorgio e Antonino sembra sepolta nella memoria di chi fatica ad accettare che due uomini, negli anni ’80 potessero amarsi liberamente, sopportando le risate e lo scherno di un intero paese. Nel 2005, Franco Grillini, oggi presidente onorario dell’Arcigay, chiede allo scrittore catanese Riccardo di Salvo, di raccontare la storia dei due giovani. Con un collega, Antonio Eredia, ripercorre la vicenda e scrive un libro “Per non dimenticare mai”. Camminare sui loro passi non è stato facile. Il luogo del delitto ha subito una prepotente cementificazione, il pino che li ha riparati è stato colpito da un fulmine. Il piccolo Francesco, divenuto uomo, vive nel degrado abbandonato a sé stesso, in preda ai propri problemi mentali. Forse davvero fu un’esecuzione quella di Giorgio e Antonino. La famiglia non era d’accordo con quella storia d’amore libera, ma schiava del pregiudizio e della cattiveria. Giarre non era d’accordo: le risate, gli sfottò, le parole di scherno, gli insulti. Giorgio e Antonino erano due ragazzi come tanti, che oggi possono rappresentare un esempio per molti giovani che vivono nell’ombra, in preda alla paura del dolore che il pregiudizio della gente può causare. Noi abbiamo il dovere di ricordare quei giorni di sofferenza, quei due innamorati ritrovati morti, quasi abbracciati, mano nella mano. Dobbiamo ricordare coloro che sono stati sepolti dall’ignoranza nella tomba dell’oblio, ricordare Giorgio e Antonino.

Rosella Reali

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia

I due ziti di Giarre - Luciano Mirone, da “Diario del mese – Il secolo Gay” - 6 gennaio 2006 

Il caso di Giarre – Andrea Pini, da “Omocidi” - Stampa Alternativa, 2002 

Toni e Giorgio, morti di pregiudizio - Jenner Meletti - "La Repubblica" - 10 luglio 2005 



ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

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