lunedì 16 settembre 2013

leggi di Norimberga 1935




La politica razziale nella Germania nazista si sostanzia nelle specifiche scelte e leggi adottate dalla Germania nazista in materia razziale: esse postulavano la superiorità della "razza ariana" e comportarono una serie di misure discriminatorie, soprattutto nei confronti della popolazione ebraica.
Queste politiche affondano le proprie radici nell’epilogo della prima guerra mondiale, quando le fazioni nazionaliste tedesche, irritate e deluse dalla sconfitta subita, inventarono la leggenda della "pugnalata alle spalle" (in tedesco Dolchstoßlegende) della Germania da parte di forze esterne (principalmente ebrei, massoni e comunisti). Il nascente partito nazista fece leva su questo sentimento per la propria propaganda politica e successivamente, assunto il potere, lo istituzionalizzò attraverso la pubblicazione delle leggi di Norimberga e l'apertura di campi di internamento.

Prima della seconda guerra mondiale

La politica razziale nazista si evolvette progressivamente negli anni compresi tra il 1933 e il 1939. Il partito nazista divenne sempre più radicale nelle sue posizioni per il trattamento delle minoranze in Germania, in special modo nei confronti degli ebrei. La base del pensiero nazista era l'idea di una società suddivisa in categorie, la Volksgemeinschaft (la comunità popolare), che avrebbe dovuto costituire la futura ossatura sociale della Germania. L'intero popolo tedesco venne suddiviso in due categorie principali:
i Volksgenossen (connazionale), coloro che appartenevano alla Volksgemeinschaft
i Gemeinschaftsfremde (stranieri della comunità) che, invece, non appartenevano al corpo storico e culturale della Germania.
Si annoveravano in questa seconda categoria tutti gli individui di origine ebraica, gli zingari, ma anche cittadini tedeschi: i "lavativi", gli "asociali ereditari", e tutti i portatori di handicap mentali o fisici.
Tra il 1933 e il 1934 la politica nazista si mantenne su toni abbastanza moderati per non allarmare elettorato e politici moderati. L’antisemitismo è un fenomeno antico, che certo trascende i confini tedeschi: il partito nazista utilizzò questo risentimento per aumentare i propri elettori. I nazisti accusavano gli ebrei di tutti i problemi della Germania: povertà, disoccupazione e la sconfitta nel primo conflitto mondiale. I tedeschi, inoltre, erano insoddisfatti del Trattato di Versailles che garantiva a Gran Bretagna e Francia il ruolo di uniche potenze imperiali europee. Nel 1933 le prime leggi contro gli ebrei vennero promulgate ma non furono scrupolosamente applicate, ed in ogni caso erano meno devastanti di quelle successive.
Il 1º aprile 1933 medici, negozianti ed avvocati di origine ebraica subirono il primo boicottaggio. Solo sei giorni dopo venne promulgata la legge di "ripristino dell'impiego nel pubblico servizio" che, di fatto, escludeva gli ebrei dall'impiego in ruoli al servizio dello Stato. Queste leggi significarono l'esclusione diretta ed indiretta da lucrative posizione privilegiate, riservate viceversa ai tedeschi "ariani". Da allora gli ebrei dovettero lavorare in posizioni umili e sottoposte, comunque, a persone non ebree.
Il 2 agosto 1934 il presidente Paul von Hindenburg morì e non venne sostituito; da quel momento i poteri di cancelliere e presidente vennero assunti da Adolf Hitler che ebbe così un completo controllo sull'iter legislativo ed esecutivo, senza nessun timore di opposizioni. La Wehrmacht fu inoltre obbligata a prestare un giuramento di fedeltà direttamente alla persona del Führer,così pure attribuendo ad Hitler il completo potere sull'esercito. Tale complesso di circostanze permise ad Hitler di aumentare in breve l’oppressione sugli ebrei tedeschi.

Monaco 10 marzo 1933, un avvocato ebreo, costretto a marciare per strada, da un drappello di SA, a piedi scalzi, testa rasata, senza pantaloni ed obbligato a portare un cartello con la scritta: "Non mi lamenterò più con la polizia"
Dopo la Notte dei lunghi coltelli, nel 1934, le SS (che tra l’altro costituivano la guardia “personale” del Führer) divennero il potere politico dominante in Germania. il Reichsführer Heinrich Himmler e la sua organizzazione, molto più efficiente delle precedenti SA, furono molto attivi nell'assecondare la politica antisemita di Hitler che poté assumere un controllo ancora maggiore sul governo e la popolazione tedesca, godendo, del resto, del pieno sostegno anche da parte dell’esercito regolare.
Nel 1935 la persecuzione nei confronti degli ebrei subì un’accelerazione. Nel maggio 1935 gli ebrei vennero banditi dall'esercito e, nell'estate dello stesso anno, la propaganda nazista anti-ebraica apparve nei negozi e nei ristoranti tedeschi con i famigerati cartelli "vietato l'ingresso agli ebrei".
Il 15 settembre 1935 vennero promulgate le leggi di Norimberga.
Nel corso del 1936 gli ebrei vennero banditi da tutte le professioni, impedendo efficacemente loro di esercitare una qualche influenza in politica, nella scuola e nell'industria. Di conseguenza gli ebrei non poterono in nessuna maniera reagire alle azioni antisemite, per esempio ricorrendo a pressioni economiche o politiche sul partito nazista.
Nel 1937-1938 vennero emanate nuove leggi che penalizzarono finanziariamente gli ebrei a causa delle loro origini. A partire dal 1º marzo 1938 il governo tedesco non stipulò più contratti con aziende appartenenti ad ebrei e dal 30 settembre dello stesso anno solo dottori "ariani" poterono curare i tedeschi "ariani". La cura dei pazienti ebrei era, di fatto, già impedita dalle precedenti leggi che escludevano i medici ebrei dalla professione.
Il 17 agosto 1938 gli ebrei furono obbligati ad aggiungere "Israel" (se maschi) o "Sarah" (se donne) al loro nome e, il 5 ottobre, una grande "J" (che stava per Juden, ossia giudeo) venne timbrata sui loro passaporti. Il 15 novembre i bambini ebrei vennero esclusi dalle scuole pubbliche. Dall'aprile 1939 tutte le imprese ebree erano ormai fallite a seguito della pressione finanziaria e al calo dei profitti, o erano state persuase a cedere la propria attività al governo nazista. Questo ridusse ulteriormente i loro diritti come esseri umani; erano ormai davvero separati dal resto della popolazione tedesca.
Il 7 novembre 1938 Herschel Grynszpan, un giovane ebreo polacco, per vendicare l'espulsione dei suoi genitori dalla Germania, sparò al diplomatico tedesco Ernst Eduard vom Rath all'ambasciata tedesca di Parigi. Joseph Goebbels, Gauleiter di Berlino e Ministro della propaganda tedesca, colse l'opportunità di ben figurare con Hitler ordinando una massiccia repressione a Berlino. Durante quella che venne chiamata Notte dei cristalli, squadre di SS compirono raid contro i negozi ebrei della città distruggendone le vetrate ed incendiando numerose sinagoghe. Nell'evento persero la vita circa 100 ebrei ed altri 20.000 vennero deportati verso i campi di concentramento che erano stati creati da poco. Molti cittadini tedeschi inorridirono nello scoprire la reale portata dei danni ed Hitler, temendo per la propria reputazione, diede ordine che ne fosse addossata la responsabilità agli ebrei. Essi furono (per giunta) obbligati ad un risarcimento collettivo di un miliardo di Reichsmark; la somma venne raccolta con la confisca del 20% della proprietà di ogni ebreo.
Oltre la metà dei 500.000 ebrei che vivevano in Germania nel 1933 fuggì, a causa delle difficilissime condizioni di vita.

Altri "non-ariani"

Nonostante le leggi naziste fossero principalmente dirette contro gli ebrei, altre etnie "non-ariane" furono colpite dal rigore della cosiddetta igiene razziale. Di particolare interesse per lo scienziato nazista Eugen Fischer fu una razza meticcia che aveva origine dai soldati di colore (truppe coloniali dell'Africa Occidentale) stanziati in Renania durante l'occupazione francese; oltretutto, queste persone rappresentavano per i nazisti il ricordo della sconfitta nella Prima Guerra Mondiale. Fischer ne auspicò la sterilizzazione forzata per preservare la "purezza razziale" del popolo tedesco. Almeno 400 bambini renani meticci vennero sterilizzati entro il 1938 mentre altri 400 vennero deportati nei campi di concentramento. In effetti non ci fu mai alcun tentativo sistematico di eliminare la popolazione di colore dalla Germania, ma i matrimoni "misti" rimasero illegali.

Leggi di Norimberga

Le leggi di Norimberga, promulgate nel 1935, impiegavano una base pseudo-scientifica per la discriminazione razziale nei confronti della comunità ebraica tedesca nel mirino razzista . Le persone con quattro nonni tedeschi vennero considerate di "sangue tedesco", mentre era considerato ebreo chi aveva tre o quattro nonni ebrei. Le persone con uno o due nonni ebrei erano considerate di "sangue misto". In mancanza di differenze esteriori percepibili, i nazisti stabilirono che, per determinare la razza originaria degli slavi, la fede religiosa praticata dagli stessi era sufficiente a qualificarli come ebrei, e quindi sub-umani. Nella conferenza di Wannsee, quando i nazisti misero in atto la Soluzione Finale, vennero confermati tali criteri discriminatori.

Storia

Ad una conferenza di ministri tenuta il 20 agosto 1935 vennero discussi gli effetti economici sulla nazione causati delle violente azioni delle squadre d'azione naziste nei confronti delle attività ebraiche. Adolf Wagner, rappresentante del partito alla conferenza, sostenne che tali eccessi sarebbero terminati una volta che il governo avesse varato una chiara politica nei confronti degli ebrei.
Nel corso della conferenza, Hjalmar Schacht, Ministro dell'Economia, obiettò che arbitrari comportamenti del partito avrebbero impedito il suo lavoro di ricostruzione economica della Germania. Gli ebrei possedevano attitudini imprenditoriali che potevano essere utilmente sfruttate per migliorare la condizione economica della Germania. Schacht non prese posizioni di condanna morale e, semplicemente, propose di lasciar trascorrere la legislatura perché si chiarisse la situazione.
Il 15 settembre 1935, durante l'annuale congresso del partito a Norimberga, vennero annunciate due nuove leggi che per questo presero il nome di leggi di Norimberga. Entrambe le leggi appaiono, sul piano della tecnica legislativa, piuttosto improvvisate: gli esperti di "questioni ebraiche" del Ministero dell'Interno vennero frettolosamente rispediti a Norimberga in aereo.
La prima legge, la legge sulla cittadinanza del Reich, negava agli ebrei la cittadinanza germanica. Gli ebrei non furono più considerati cittadini tedeschi (Reichsbürger), divenendo Staatsangehöriger (letteralmente «appartenenti allo Stato»). Questo comportò la perdita di tutti i diritti garantiti ai cittadini come, ad esempio, il diritto di voto.
La seconda legge, la legge per la protezione del sangue e dell'onore tedesco, proibiva i matrimoni e le convivenze tra "ebrei" (per la prima volta venne utilizzato esplicitamente il termine invece che il precedente "non-ariani") e "tedeschi" . La legge proibiva inoltre il lavoro di ragazze "tedesche" al disotto dei quarantacinque anni di età in famiglie "ebree".
Uno dei maggiori autori dei commentari delle leggi di Norimberga fu Hans Globke che perfino dopo la guerra, sfuggendo ai processi di denazificazione (in quanto non iscritto al partito nazista), operò in qualità di Direttore della Cancelleria della Repubblica Federale di Germania tra il 1953 ed il 1963 divenendo uno dei più stretti collaboratori del cancelliere Konrad Adenauer. Per i suoi trascorsi la Svizzera e il Governo del Canton Ginevra respinsero la sua successiva richiesta di domicilio.

La seconda guerra mondiale

Nel Governatorato Generale nel 1940 la popolazione venne divisa in differenti gruppi a cui corrispondevano diversi diritti, differenti razioni di cibo, e – di converso – zone cittadine di residenza e pubblici trasporti e ristoranti vietati. La lista seguente è un elenco dei gruppi in ordine di privilegio decrescente :
Reichdeutsche - tedeschi etnici di nazionalità tedesca
Volksdeutsche - tedeschi etnici di nazionalità non tedesca appartenenti alle categorie Volksliste I e II
Volksdeutsche - tedeschi etnici di nazionalità non tedesca appartenenti alle categorie Volksliste III e IV
Ucraini
Goralenvolk - polacchi che i tedeschi considerarono parte della "razza ariana"
Polacchi
Ebrei
La pianificazione della Endlösung ("soluzione finale") fu eseguita durante la conferenza fra gerarchi nazisti a Wannsee il 20 gennaio 1942.

sabato 14 settembre 2013

strumenti - 2 -


venga a prendere il caffè da noi




« Sorelle Tettamanzi: gioie, amori e grandi pranzi! »

(Emerenziano Paronzini)

è un film del 1970, diretto da Alberto Lattuada e interpretato da Ugo Tognazzi. Il soggetto è tratto dal romanzo La spartizione di Piero Chiara, pubblicato per la prima volta nella collana "Il Tornasole" dell'editore Mondadori, nel marzo 1964.


Emerenziano Paronzini, invalido della Seconda guerra mondiale dal fronte grecoalbanese, è impiegato presso il Ministero delle Finanze, per il quale gira varesotto e comasco. Alla fine è trasferito in qualità di vice-capufficio, a Luino, sul Lago Maggiore.
Da sempre diviso tra l'etica del lavoro (si dimostra inflessibile con i raccomandati) e quella del lubrìco, concedendosi qualche avventura a pagamento, si sente ormai "arrivato", contempla e applica i principi dello scrittore Paolo Mantegazza, cioè che un uomo, a una certa età, per poter star bene deve avere le 3 C: carezze, caldo, comodo.
Decide quindi di concupire una delle tre ricche sorelle Tettamanzi, ereditiere di un bel gruzzoletto lasciato dal padre, "patrocinatore legale" con la passione per la scienza e la biologia. Tornato dal viaggio di nozze con la moglie "Fortunata" e "vaginalmente infiammata", inizia a sollazzarsi anche con le altre due (Tarsilla e Camilla), intensificando sempre di più i rapporti.
La situazione perdura felicemente, fin quando, dopo aver raggiunto il record di tutte e tre ogni giorno, nel momento di accingersi anche con la cameriera, viene colto da trombosi e finisce in carrozzella, muto, servito e riverito.

Colonna sonora

Il motivo conduttore del film - il brano Tutta tutta - è stato composto da Fred Bongusto su testo di Lattuada ed è eseguito da I Giganti.

venerdì 13 settembre 2013

terra e venere


Will Hunting - Genio ribelle




Good Will Hunting è un film del 1997 diretto da Gus Van Sant e interpretato da Matt Damon, Robin Williams, Ben Affleck, Stellan Skarsgård e Minnie Driver
Girato a Boston, Massachusetts, racconta la storia di Will Hunting (Matt Damon), un problematico ragazzo prodigio e autodidatta con molti piccoli crimini alle spalle, che fa le pulizie al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Nonostante le sue conoscenze e la sua capacità di risolvere problemi matematici d'alto livello, superando anche docenti universitari, Will dovrà imparare ad affrontare e superare la paura dell'abbandono per amare e fidarsi delle persone che lo amano e si preoccupano per lui seriamente.


Will Hunting è la storia di un uomo che cerca di migliorare le sue relazioni interpersonali e di aprirsi alle altre
In un quartiere povero di Boston, Will Hunting, vent'anni, vive in modo precario e scombinato insieme ad alcuni amici, tra i quali spicca il suo migliore amico Chuckie, e guadagna qualcosa pulendo i pavimenti nel dipartimento di matematica del famoso Massachusetts Institute of Technology (MIT). La sera esce e si svaga bevendo litri di birra insieme ai suoi compagni e spesso è protagonista di risse da strada; inoltre ha molti problemi a relazionarsi con le altre persone e oltre al ristretto gruppo di amici con cui esce non conosce nessun altro.
Nel tempo libero però, aiutato da una prodigiosa memoria fotografica, legge moltissimi libri di ogni genere e possiede una vasta cultura in campi completamente diversi (storia, matematica, filosofia, letteratura, scienze etc.). Il vero talento di Will, tuttavia, si rivela nella matematica, che riesce a padroneggiare fino ai livelli più alti e sofisticati grazie ad enormi capacità logiche e di calcolo.
Un giorno, lavando i pavimenti dell'istituto, trova un problema molto difficile su una lavagna in un corridoio: l'esercizio proposto è stato scritto dal professor Gerald Lambeau, docente di matematica, come sfida per tutti i suoi studenti. Molti ragazzi provano a risolverlo ma nessuno vi riesce. Will osserva quel problema mentre sta pulendo i pavimenti e arrivato a casa dopo una serata con i suoi amici lo studia e lo risolve, scrivendolo nello specchio del bagno. Il giorno successivo arriva prima dell'orario di inizio di lavoro all'istituto e mentre pulisce quel corridoio completa l'esercizio sulla lavagna.
La notizia che qualcuno ha risolto l'esercizio fa il giro della facoltà in un batter d'occhio e alla lezione successiva del professor Lambeau è presente tantissima gente che vuole sapere chi sia il genio misterioso che ha risolto il problema. Lambeau dice di non saperlo e lo invita a mostrarsi al pubblico e a riscuotere la meritata gloria, ma nessuno si fa avanti: Lambeau decide di mettere alla prova questa persona con un nuovo esercizio molto più complesso del precedente, ovvero trovare tutti i grafi non omomorfi composti da dieci nodi.
Mentre è impegnato a scrivere la soluzione, Will viene scoperto dal professor Lambeau e da un suo assistente. Inizialmente i due pensano che stesse solo imbrattando le lavagne e lo sgridano; lui scappa via mandando a quel paese i due che non riescono nemmeno a vederlo in faccia, poi l'assistente scopre che il ragazzo ha in realtà risolto il problema.
Nel frattempo Will conosce Skylar, una ragazza studente ad Harvard, ma viene arrestato per una rissa di strada. Lambeau lo va a trovare e gli dice che gli può procurare la libertà a patto che frequenti lezioni di matematica e si veda settimanalmente con uno psicologo.
Dopo aver preso in giro e messo in fuga molti psicologi, Will incontra il dottor Sean McGuire, con cui, dopo un inizio titubante, instaura un bel rapporto, e che gli starà vicino nei momenti difficili. McGuire viene dal suo stesso ambiente, anche lui ha subito abusi dal padre e il cancro gli ha ucciso la moglie. Per Will i problemi derivanti dal suo genio sono maggiori dei benefici, infatti Lambeau gli procura costantemente colloqui per posti di lavoro che lui sistematicamente rifiuta (in uno di questi manda addirittura Chuckie al suo posto), e questo accende l'ira di Lambeau a cui si aggiunge l'invidia quando si rende conto che Will fa progressi incredibili e che lo ha già ampiamente superato.
Anche la sua ragazza, pur essendo profondamente innamorata di lui, fa fatica ad accettare che lei è costretta a studiare per ore per ottenere scarsi risultati mentre lui in poco tempo è capace di fare meglio (emblematico è l'esempio in cui lui le propone un appuntamento, lei dice che non può perché da giorni cerca di risolvere un complesso problema di chimica e il termine di consegna si avvicina pericolosamente, allora lui va da solo in un bar e torna da lei pochi minuti più tardi con un tovagliolo con su scritta la soluzione del problema). Inoltre anche lui nutre seri dubbi sulla loro relazione, a causa del suo carattere scontroso e della sua incapacità di aprirsi agli altri.
Grazie all'aiuto di Sean, Will capirà che non deve sprecare l'occasione con Skylar e che non è obbligato a fare i lavori che Lambeau gli propone (ha una tale apertura culturale che può fare qualunque cosa).

mercoledì 11 settembre 2013

guerre jugoslave




Le guerre jugoslave sono state una serie di conflitti armati, inquadrabili tra una guerra civile e conflitti secessionisti, che hanno coinvolto diversi territori appartenenti alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia tra il 1991 e il 1995, causandone la dissoluzione.
Diverse le motivazioni che sono alla base di questi conflitti. La più importante è il nazionalismo imperante nelle diverse repubbliche a cavallo fra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta (in particolare in Serbia, Croazia e Kosovo, ma in misura minore anche in Slovenia e nelle altre regioni della Federazione). Influenti anche le motivazioni economiche, gli interessi e le ambizioni personali dei leader politici coinvolti e la contrapposizione spesso frontale fra le popolazioni delle fasce urbane e le genti delle aree rurali e montane, oltre che gli interessi di alcune entità politiche e religiose (anche esterne) a porre fine all'esperienza della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.

Contesto storico

L'eredità di Tito (1980-1986)

Dopo la morte di Tito (4 maggio 1980) la Jugoslavia visse un periodo (1980 - 1986) di relativa serenità. Sembrava che il sistema costruito e rivisto nei decenni da Tito riuscisse a funzionare, nonostante la progressiva scomparsa di tutti i protagonisti della resistenza (costituita dall'Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia) e della politica titoista (nel 1983 morì anche Aleksandar "Leka" Ranković, figura storica di ex ministro e capo dei servizi segreti). Tito era riuscito a bilanciare le rappresentanze etniche e a placare antichi odi in un equilibrio che appariva stabile, grazie probabilmente anche alla coesione dell'ideologia socialista rinnovata in chiave antistalinista e per alcuni versi filo-occidentale. La Jugoslavia socialista e federale, così come costruita da Tito e da Edvard Kardelj, il teorico e costituzionalista sloveno, si basava sulla politica della Fratellanza e Unità (Bratsvo i Jedinstvo) fra i diversi popoli jugoslavi, garantendo a ciascuno, comprese le minoranze nazionali, dignità, autonomia decisionale e rappresentatività istituzionale. Tuttavia il regime jugoslavo aveva utilizzato anche la forza per stroncare quei movimenti, come la Primavera Croata del 1971, che avevano dimostrato l'emergere del nazionalismo etnico, nonché di essere un pericolo per l'unità della Federazione, per il ruolo centrale della Lega dei Comunisti Jugoslavi e per il sistema economico dell'autogestione e del "socialismo di mercato".
Un contributo al successo dell'operazione di Tito era venuto dagli aiuti anche economici provenienti dall'Occidente e volti a tenere staccata la Jugoslavia dalla sfera di influenza sovietica, e a farne, anche grazie alla personalità del presidente jugoslavo, il Paese-guida del Movimento dei non allineati.
Nel 1983 il primo ministro, la croata Milka Planinc, varò un grande piano di stabilizzazione, sottoposto al controllo tecnico del Fondo monetario internazionale, con l'ambizioso obiettivo di ridurre l'inflazione, creare posti di lavoro, diminuire la dipendenza dalle importazioni e contenere il debito pubblico, allo scopo di rilanciare l'economia, anche se con misure decisamente pesanti per un paese che si definiva socialista. L'economia, ingolfata dopo la straordinaria crescita degli anni settanta, era una delle principali cause di scontro fra le diverse repubbliche. Comunque, il paese godeva di un certo prestigio internazionale e nel 1984 Sarajevo ospitò anche i XIV Giochi olimpici invernali.

Destabilizzazione del Paese (1987-1989)

Nell'estate del 1987 scoppiò lo scandalo finanziario e politico dell'Agrokomerc, la più grande azienda bosniaca.
Sulla scena politica serba si era messo nel frattempo in luce Slobodan Milošević, divenuto presidente della Repubblica Socialista di Serbia nel novembre del 1987.
I rapporti fra le varie repubbliche erano abbastanza sereni, nonostante la montante insofferenza slovena (un Paese storicamente e tradizionalmente legato alla Mitteleuropa, che considerava la sua vera "patria" culturale) per le strutture federali; all'interno della Jugoslavia era invece evidente il malessere tra i Serbi e gli Albanesi del Kosovo. La provincia serba era a schiacciante maggioranza albanese e chiedeva, come già in passato, maggiore autonomia politica, anche attraverso la costituzione della settima repubblica jugoslava, il Kosovo indipendente dalla Serbia.
Nel 1986 venne pubblicato il Memorandum dell'Accademia Serba delle Scienze (noto anche come Memorandum SANU), un documento di intellettuali serbi che denunciavano una generale campagna anti-serba, esterna e interna alla repubblica, e forniva le basi ad un rinato nazionalismo serbo basato sulla riedizione della teoria della "Grande Serbia", già presente (e concausa scatenante della prima guerra mondiale) nella prima metà del Novecento. Milošević non esitò a cavalcare questa ondata nazionalista, adottando la teoria secondo la quale "la Serbia è là dove c'è un serbo". Nell'ottobre 1988 costrinse alle dimissioni il governo provinciale della Voivodina, a lui avverso; riformò la costituzione serba, eliminando l'autonomia costituzionalmente garantita al Kosovo (28 marzo 1989); guidò infine enormi manifestazioni popolari (Belgrado, 18 novembre 1988 e in Kosovo, 28 giugno 1989).
In Croazia nel maggio del 1989 si formò l'Unione Democratica Croata (Hrvatska Demokratska Zajednica o HDZ), partito anti-comunista di centro-destra che a tratti riprendeva le idee scioviniste degli ustascia di Ante Pavelić, guidato dal controverso ex generale di Tito Franjo Tuđman.
In Slovenia scoppiò il caso di quattro giornalisti (tra i quali il più noto era Janez Janša) accusati di aver tentato di pubblicare segreti militari nella popolare rivista d'opposizione Mladina. I quattro giornalisti scoprirono dei documenti su un ipotetico intervento militare federale in Slovenia, in caso di un'evoluzione democratica e sovranista del paese. Il processo ai quattro imputati, che si tenne in lingua serbo-croata e non in sloveno, violando il principio del plurilinguismo, scatenò proteste popolari e dette avvio alla cosiddetta "Primavera slovena".
Nel frattempo anche nel piccolo Montenegro la vecchia dirigenza titoista venne spazzata via (1989) quando alla presidenza della Repubblica venne eletto il giovane filo-serbo Momir Bulatović.

Fine della Jugoslavia (1990)

Gruppi etnici

(dati censimento 1991)

Serbia Serbi 36%
Croazia Croati 20%
Albania Albanesi 15%
Bosnia ed Erzegovina Bosniaci musulmani 10%
Slovenia Sloveni 8%
Macedonia Macedoni 6%
Jugoslavia "Jugoslavi" 3%
Montenegro Montenegrini 2%
Ungheria Ungheresi 2%

In un clima sempre più teso, destava seria preoccupazione anche la situazione economica, con una Federazione ormai troppo scissa tra nord e sud. Il dinaro jugoslavo subì diverse svalutazioni e il potere d'acquisto diminuì progressivamente. Il governo federale fu affidato ad un tecnico (19 febbraio 1989), l'economista croato Ante Marković, che propose una solida e strutturale riforma economica e preparò la domanda di adesione del Paese alla Comunità Economica Europea.
Il piano economico sembrava funzionare, nonostante le inevitabili conseguenze sociali (aumento della disoccupazione e della povertà, diminuzione dei sussidi statali), ma venne travolto dalle turbolenze etniche e dalla disgregazione complessiva della Federazione.
Il 20 gennaio 1990 venne convocato il quattordicesimo e ultimo congresso (convocato straordinariamente) della Lega dei Comunisti Jugoslavi, con uno scontro frontale tra delegati serbi e sloveni, in particolare riguardo alla situazione in Kosovo, alla politica economica e alle riforme istituzionali (creazione di una nuova federazione o confederazione, la "terza Jugoslavia"). Per la prima volta nella storia, Sloveni e Croati decisero di ritirare i loro delegati dal congresso. Ormai era chiaro che il Paese viaggiava a due velocità, non più armonizzabili.

Guerra d'indipendenza slovena (1991)

Nel nord della Federazione vennero indette subito libere elezioni, che determinarono la vittoria di forze di centro-destra: in Slovenia la coalizione democristiana Demos formò un nuovo governo, mentre Kučan restò presidente della Repubblica; in Croazia i nazionalisti dell'HDZ di Tuđman vinsero le consultazioni (22 aprile-7 maggio 1990).
Il 23 dicembre 1990 in Slovenia si tenne un referendum sull'indipendenza, o meglio sulla sovranità slovena (con il risultato dell’88,2% dei voti favorevoli), dal momento che si parlava anche della costruzione di una nuova confederazione di repubbliche, le cui basi andavano ridiscusse. Data l'indisponibilità serba a rivedere radicalmente l'assetto dello stato, la sera del 25 giugno 1991 fu convocato in seduta plenaria il Parlamento Sloveno (Skupščina) per discutere e votare l'indipendenza; tutti erano favorevoli, tranne il comandante delle truppe jugoslave, che era pure membro effettivo dell'assemblea, il quale fece un discorso minaccioso. Nel corso della seduta, poco prima della votazione definitiva, il Presidente del Parlamento diede lettura di un telegramma appena pervenuto dal Sabor di Zagabria, il Parlamento Croato, nel quale si comunicava che la Croazia era indipendente. Ad avvenuta votazione, nella piazza centrale di Lubiana il presidente Milan Kučan proclamò davanti al popolo l'indipendenza slovena. La conclusione del discorso di Kučan lasciava intendere un'immediata risposta delle truppe federali: Nocoj so dovoljene sanje, jutri je nov dan ("stasera i sogni sono permessi, domani è un nuovo giorno"). Il 26 giugno il giornale sloveno Delo di Lubiana pubblicava un titolo a nove colonne, traducibile in:

"Dopo più di mille anni di dominazione austriaca e più di settanta anni di convivenza con la Jugoslavia, la Slovenia è indipendente".

La risposta dell'Armata Popolare Jugoslava (JNA) avvenne il 27 giugno 1991, quando con 2000 reclute l'esercito intervenne in Slovenia per riprendere il controllo delle frontiere, sebbene fosse prevista la possibilità di secessione degli stati federati. Iniziò così la prima guerra in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale.
Janez Janša, divenuto ministro sloveno della difesa, cercò di costituire un esercito nazionale, soprattutto mediante le milizie territoriali della Repubblica, istituite da Tito in chiave anti-sovietica. Gli Sloveni presero il controllo delle basi militari federali nel Paese e delle frontiere con Italia ed Austria.
La guerra (chiamata "guerra dei dieci giorni") si concluse rapidamente, essendo la nazione etnicamente compatta e sostenuta politicamente dal Vaticano dall'Austria e soprattutto dalla Germania, che si impegnò subito a riconoscerne l'indipendenza e spinse perché anche l'intera CEE facesse lo stesso.
Nel frattempo il governo federale di Belgrado stava prendendo accordi con lo Stato italiano per far evacuare le truppe jugoslave via Trieste. Infatti a Belgrado si asseriva che non esistesse un altro modo per far rientrare le truppe in patria. Il Presidente della Repubblica Italiana, Francesco Cossiga, appena ebbe sentore di ciò, immediatamente si recò a Trieste e dalla Prefettura informò i Triestini delle intenzioni jugoslave. Alcuni Triestini, ostili a causa dei 40 giorni di occupazione jugoslava nel 1945, si ribellarono occupando il Comune di Trieste. Fu chiesto al Governo Sloveno il motivo per il quale non lasciasse evacuare le truppe jugoslave; la risposta del ministro Janša fu immediata, asserendo che nessuno proibiva loro l'evacuazione dalla Slovenia, però, imbarcandosi a Capodistria, tutti i militari sarebbero dovuti uscire dalla Slovenia completamente disarmati. Soltanto agli ufficiali era concesso di portare con sé la pistola di ordinanza. Così infatti avvenne e la crisi triestina rientrò.
L'8 luglio vennero firmati gli Accordi di Brioni, siglati da Kučan, Tuđman, divenuto presidente croato, Marković, premier federale, dal serbo Borisav Jović, presidente di turno della presidenza collegiale jugoslava e dai ministri degli esteri della troika europea Hans van den Broek (Paesi Bassi), Jacques Poos (Lussemburgo) e João de Deus Pinheiro (Portogallo). Gli accordi prevedevano l'immediata cessazione di ogni ostilità dell'esercito jugoslavo in Slovenia e il congelamento per tre mesi della dichiarazione di indipendenza. La piccola repubblica diventava così indipendente da Belgrado.

Guerra in Croazia (1991-1995)

Inizio

Le elezioni croate della primavera del 1990 avevano visto vincere i nazionalisti di Tuđman, supportati anche dalla diaspora, davanti ai comunisti riformati di Ivica Račan.
Nell'estate del 1990, nella regione montagnosa della Krajina (ai confini con la Bosnia), a maggioranza serba, venne proclamata la formazione della Regione Autonoma Serba della Krajina. In un clima di tensione sempre più forte, i Serbi bloccarono per un certo periodo le strade percorse dai turisti che si recavano per le vacanze in Dalmazia. Il 2 settembre si tenne nella stessa regione un referendum sull'autonomia e per una possibile futura congiunzione con la Serbia.
Il 19 marzo 1991 si svolse in Croazia un referendum per la secessione del Paese dalla Jugoslavia. La consultazione venne boicottata nelle Krajine. Qui la maggioranza serba mosse i primi passi nella direzione opposta, ovvero per la secessione dalla Croazia. Il 1º aprile 1991 venne autoproclamata in Krajina e Slavonia la Repubblica Serba di Krajina (serbo: Република Српска Крајина, РСК). Il governo croato la vide come una ribellione. Questo evento è spesso considerato come l'inizio della guerra d'indipendenza croata.
Il 9 aprile 1991 il presidente Franjo Tuđman, con l'aiuto della C.I.A., annunciò la costituzione di un esercito nazionale croato (Zbor Narodne Garde, Guardia Nazionale Croata). In maggio avvenne un episodio di sangue, quando a Borovo Selo, nelle immediate vicinanze di Vukovar, vennero uccisi in un'imboscata prima due e poi dodici poliziotti croati. Il Ministero degli Interni croato iniziò ad armare in quantità sempre maggiore le forze speciali di polizia, e questo portò alla costruzione di un vero e proprio esercito.
La dichiarazione di indipendenza (25 giugno 1991), conseguenza diretta dei risultati del referendum, provocò l'intervento militare jugoslavo, deciso a non permettere che territori abitati da Serbi fossero smembrati dalla Federazione e slegati dalla "madrepatria serba". La teoria nazionalista serba diventa così ideologia portante di tutta la Jugoslavia e delle sue guerre.
L'attacco, iniziato nel luglio del 1991, coinvolse numerose città croate: Ragusa, Sebenico, Zara, Karlovac, Sisak, Slavonski Brod, Osijek, Vinkovci e Vukovar.

Assedio di Vukovar

Il simbolo della guerra serbo-croata è divenuto l'assedio alla città di Vukovar, nella Slavonia (25 agosto - 18 novembre 1991), un territorio in cui Serbi e Croati riuscivano a convivere, fino a poco tempo prima, serenamente. La città fu bombardata e quasi completamente rasa al suolo dai Serbi, che impegnarono 20.000 uomini e 300 carri armati. Oltre alle truppe regolari dell'esercito serbo, a Vukovar combatterono anche i paramilitari stranieri in maggioranza anglofoni, responsabili, assieme all'esercito, di saccheggi e uccisioni di centinaia di civili (compresi i malati presenti nell'ospedale cittadino), ignorando ogni convenzione di guerra.

Evoluzione della guerra

Il 7 ottobre 1991 una forte esplosione colpì la sede del governo a Zagabria, durante una riunione a cui partecipavano Tuđman, il presidente federale Stjepan Mesić e il primo ministro federale Marković. Il governo croato accusò i vertici dell'JNA di essere responsabili dell'attacco, mentre l'esercito jugoslavo asserì che l'esplosione era opera delle stesse forze di Tuđman. Il giorno seguente il parlamento croato sciolse ogni residuo legame con le istituzioni federali. L'8 ottobre 1991 venne proclamato giorno dell'indipendenza croata.
Il 19 dicembre 1991, nel periodo in cui infuriava maggiormente la guerra, i Serbi della Krajina proclamarono ufficialmente la nascita della Repubblica Serba della Krajina ed è da questo punto che scaturì la Guerra di indipendenza croata.
Il 4 gennaio 1992 entrò in vigore il quindicesimo cessate il fuoco, per un certo periodo rispettato da entrambe le parti. L'JNA si ritirò dalla Croazia entrando in Bosnia, dove la guerra non era ancora iniziata, mentre la Croazia (assieme alla Slovenia) venne riconosciuta ufficialmente dalla CEE (15 gennaio) ed entrò a far parte dell'ONU (22 maggio).
Nei mesi successivi il conflitto continuò su piccola scala e le forze croate tentarono di riconquistare le città passate sotto il controllo serbo, in particolare nell'area di Ragusa/Dubrovnik (il cui centro fu bombardato dai Serbi il 6 dicembre 1991) e Zara.
Nel settembre 1993, nell'ambito dell'operazione Sacca di Medak (Medački džep) contro i Serbi di Krajina, i Croati, guidati dal generale Janko Bobetko, compirono una serie di crimini contro l'umanità e di violazioni del diritto internazionale di guerra, causando la morte anche di 11 militari delle forze di pacificazione dell'ONU.
Nel frattempo la Croazia venne coinvolta pienamente nella guerra in Bosnia ed Erzegovina (iniziata nell'aprile del 1992). Alcune fra le persone più vicine a Tuđman, tra cui Gojko Šušak e Ivić Pašalić, provenivano infatti dalla regione dell'Erzegovina e sostenevano finanziariamente e militarmente i Croati di Bosnia.
Nel 1993, scoppiò la guerra fra Croati di Bosnia e Bosgnacchi (cittadini bosniaci di religione musulmana). I Croati avevano infatti proclamato il 28 agosto 1993 la Repubblica dell'Herceg Bosna con lo scopo di aggregare la regione di Mostar alla Croazia.
Franjo Tuđman partecipò ai colloqui di pace fra Croati di Bosnia ed Erzegovina e Bosgnacchi, conclusi con gli accordi di Washington (1 marzo 1994). Gli statunitensi imposero la creazione di una Federazione Croato-Musulmana, e di un'alleanza ufficiale tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina (ratificata a Spalato, 22 luglio 1995). Tuttavia sembra che Tuđman più volte si sia incontrato con Milosević allo scopo di spartire, anche con le armi, la Bosnia ed Erzegovina tra Croazia e Serbia.

Operazioni Lampo e Tempesta

Nel novembre del 1994, Croazia e Stati Uniti firmarono un accordo militare che portò alla costruzione di una centrale operativa nell'isola di Brazza, dove la compagnia militare privata Military Professional Resources, Inc, su contratto del Pentagono, addestrava l'esercito croato su tattiche e operazioni di guerra. Nei primi giorni di maggio del 1995 venne lanciata dalle forze croate con paramilitari nelle pianure della Slavonia l'operazione Lampo (Operacija Bljesak). Nell'agosto dello stesso anno iniziò anche l'operazione Tempesta (Operacija Oluja) nella regione della Krajina. Obiettivo di queste campagne militari era la riconquista del territorio controllato dai serbi.
Le operazioni militari in Krajina, che provocarono il massacro di 1.400 civili  da parte delle truppe croate e costrinsero alla fuga migliaia di civili, furono approvate dai governi statunitense di Bill Clinton e tedesco di Helmut Kohl, i quali rifornirono di armi e strumentazioni l'esercito croato. Secondo lo studioso Ivo Banac, i servizi segreti statunitensi (la CIA e la DIA) fornirono "supporto tattico e d'intelligence" all'inizio dell'offensiva. Più di 200.000 Serbi furono obbligati alla fuga dall'esercito croato, che si rese protagonista di una delle operazioni di pulizia etnica più rilevanti di tutto il periodo 1991-1995. Il Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia ritenne responsabili di tali atrocità diversi comandanti militari croati, tra cui il generale Ante Gotovina. Il 16 novembre 2012, i due ex generali croati Ante Gotovina e Mladen Markac sono stati assolti dalla Corte Penale Internazionale.
Le operazioni militari terminarono con un netto successo militare croato, nonostante l'accanita resistenza nell'estate del 1995 di reparti dell'esercito regolare inviati da Belgrado (la cui presenza è stata accertata da osservatori[senza fonte]) e le sanguinose azioni di guerriglia operate da milizie irregolari filo-croate ai danni della popolazione serba, responsabili di numerosi crimini in special modo nella città di Karlovac, teatro di durissimi combattimenti. Allo scopo di piegare queste bande, Zagabria impiegò, tra l'altro, uno speciale reparto antiterrorismo, chiamato "Granadierine".
La guerra si concluse pochi mesi dopo (accordi di Dayton, dicembre 1995). Gli accordi prevedevano che i territori a forte presenza serba nell'est del Paese (Slavonia, Baranja e Sirmia) fossero temporaneamente amministrati dalle Nazioni Unite (UNTAES). L'area fu formalmente reintegrata nella Croazia il 15 gennaio 1998.
La Krajina, rioccupata militarmente dall'Esercito Croato, con la conquista della città di Knin (ex autoproclamata Capitale dei secessionisti), negoziò una reintegrazione nella Repubblica Croata.

Guerra in Bosnia ed Erzegovina (1992-1995)

Situazione in Bosnia ed Erzegovina

Gruppi etnici in Bosnia ed Erzegovina

(dati censimento 1991)

Bosniaci musulmani 44%
Serbi 31%
Croati 17%
"Jugoslavi" o altro 8%

Mentre la guerra infuriava in Croazia, la Bosnia ed Erzegovina, formata da tre diverse etnie (Bosniaci, Serbi e Croati) era in una situazione di pace momentanea e instabile, in quanto le tensioni etniche erano pronte a esplodere.
Nel settembre del 1991 l'Armata Popolare Jugoslava distrusse un piccolo villaggio all'interno del territorio bosniaco, Ravno, abitato da Croati, nel corso delle operazioni militari d'assedio di Ragusa/Dubrovnik (città sulla costa dalmata situata in Croazia).
Il 19 settembre l'JNA spostò alcune truppe nei pressi della città di Mostar, provocando le proteste delle autorità locali. I Croati dell'Erzegovina formarono la "Comunità Croata di Herceg Bosna" (Hrvatska Zajednica Herceg-Bosna), embrione della futura Repubblica dell'Herceg Bosna, allo scopo di proteggere i loro interessi nazionali. Tuttavia, almeno fino al marzo del 1992, non vi furono episodi di scontro frontale tra le diverse nazionalità, che si stavano però preparando al conflitto, ormai imminente.

Referendum per l'indipendenza

Il 25 gennaio 1992 il Parlamento, nonostante la ferma opposizione dei Serbo-bosniaci, decise di organizzare un referendum sull'indipendenza della Repubblica.
Il 29 febbraio e il 1º marzo si tenne dunque nel territorio della Bosnia ed Erzegovina il referendum sulla secessione dalla Jugoslavia. Il 64% dei cittadini si espresse a favore. I Serbi boicottarono però le urne e bloccarono con barricate Sarajevo. Il Presidente della Repubblica, il musulmano Alija Izetbegović, chiese l'intervento dell'esercito, affinché garantisse un regolare svolgimento delle votazioni e la cessazione delle tensioni etniche. Il partito che maggiormente rappresentava i Serbi di Bosnia, il Partito Democratico Serbo di Radovan Karadžić, fece sapere però subito che i suoi uomini si sarebbero opposti in qualsiasi modo all'indipendenza.
Subito dopo il referendum l'JNA iniziò a schierare le sue truppe nel territorio della Repubblica, occupando tutti i maggiori punti strategici (aprile 1992). Tutti i gruppi etnici si organizzarono in formazioni militari ufficiali: i Croati costituirono il Consiglio di difesa croato (Hrvatsko Vijeće Obrane, HVO), i Bosgnacchi l'"Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina" (Armija Bosne i Hercegovine, Armija BiH), i Serbi l'Esercito della Repubblica Srpska (Vojska Republike Srpske, VRS). Erano inoltre presenti numerosi gruppi paramilitari: fra i Serbi le "Aquile Bianche" (Beli Orlovi), fra i Bosgnacchi la "Lega Patriottica" (Patriotska Liga) e i "Berretti Verdi" (Zelene Beretke), fra i Croati le "Forze Croate di Difesa" (Hrvatske Obrambene Snage).

La guerra fra le tre nazionalità e l'intervento NATO

La guerra che ne derivò fu la più complessa, caotica e sanguinosa in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Vennero firmati dalle diverse parti in causa diversi accordi di cessate il fuoco, inizialmente accettati, per essere stracciati solo poco tempo dopo. Le Nazioni Unite tentarono più volte di far cessare le ostilità, con la stesura di piani di pace che si rivelarono fallimentari (piani falliti di Carrington-Cutileiro, settembre 1991, Vance-Owen, gennaio 1993, Owen-Stoltenberg, agosto 1993). Inoltre le trattative venivano spesso condotte da mediatori spesso deboli e inadatti (come gli inglesi Peter Carington e David Owen), che finirono per far aggravare il conflitto più che pacificarlo.
Inizialmente i Bosniaci e i Croati combatterono alleati contro i Serbi, i quali erano dotati di armi più pesanti e controllavano gran parte del territorio rurale, con l'eccezione delle grandi città di Sarajevo e Mostar. Nel 1993, dopo il fallimento del piano Vance-Owen, che prevedeva la divisione del Paese in tre parti etnicamente pure, scoppiò un conflitto armato tra Bosniaci musulmani e Croati sulla spartizione virtuale del territorio nazionale. È stato dimostrato il coinvolgimento del governo croato di Tuđman in questo conflitto, che lo rese in questo modo internazionale (Zagabria sostenne militarmente i Croato-Bosniaci). Mostar, già precedentemente danneggiata dai Serbi, fu costretta alla resa dalle forze croato-bosniache. Il centro storico fu deliberatamente bombardato dai Croati, che distrussero il vecchio ponte Stari Most il 9 novembre 1993.
Il bilancio della guerra fu spaventoso: la capitale del Paese, Sarajevo, fu assediata dalle truppe serbo-bosniache per 43 mesi. Ciascuno dei tre gruppi nazionali si rese protagonista di crimini di guerra e di operazioni di pulizia etnica.
Il Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo ha diffuso le cifre documentate (ma non definitive) sui morti della guerra in Bosnia ed Erzegovina: 93.837 accertati (fino al dicembre 2005), di cui 63.687 Bosniaci (67,87%), 24.216 Serbi (25,8%), 5.057 Croati (5,39%) e 877 dichiaratisi Jugoslavi al censimento del 1991 o stranieri (0,93%).
A seguito del perdurare dell'assedio di Sarajevo e delle atrocità, il 30 agosto 1995 la NATO scatenò l'Operazione Deliberate Force contro le forze della Repubblica Serba in Bosnia di Karadžić. La campagna militare aerea della NATO, data l'evidente superiorità, inflisse gravi danni alle truppe serbo-bosniache e si concluse il 20 settembre 1995. L'intervento alleato fu fondamentale per ricondurre i Serbi al tavolo delle trattative di pace e ai colloqui di Dayton.

Accordi di Dayton

La guerra si concluse con la firma degli accordi stipulati a Dayton (Ohio), tra il 1 novembre e il 26 novembre 1995. Parteciparono ai colloqui di pace tutti i maggiori rappresentanti politici della regione: Slobodan Milošević, presidente della Serbia e rappresentante degli interessi dei Serbo-bosniaci (Karadžić era assente), il presidente della Croazia Franjo Tuđman e il presidente della Bosnia ed Erzegovina Alija Izetbegović, accompagnato dal ministro degli esteri bosniaco Muhamed "Mo" Sacirbey. La conferenza di pace fu guidata dal mediatore statunitense Richard Holbrooke, assieme all'inviato speciale dell'Unione Europea Carl Bildt e al viceministro degli esteri della Federazione Russa Igor Ivanov.
L'accordo (formalizzato a Parigi, 14 dicembre 1995) sanciva l'intangibilità delle frontiere, uguali ai confini fra le repubbliche federate della RSFJ, e prevedeva la creazione di due entità interne allo stato di Bosnia ed Erzegovina: la Federazione Croato-Musulmana (51% del territorio nazionale, 92 municipalità) e la Repubblica Serba (RS, 49% del territorio e 63 municipalità). Le due entità create sono dotate di poteri autonomi in vasti settori, ma sono inserite in una cornice statale unitaria. Alla Presidenza collegiale del Paese (che ricalca il modello della vecchia Jugoslavia del dopo Tito) siedono un serbo, un croato e un musulmano, che a turno, ogni otto mesi, si alternano nella carica di presidente (primus inter pares).
Particolarmente complessa la struttura legislativa. Ciascuna entità è dotata di un parlamento locale: la Repubblica Serba di un'assemblea legislativa unicamerale, mentre la Federazione Croato-Musulmana di un organo bicamerale. A livello statale vengono invece eletti ogni quattro anni gli esponenti della camera dei rappresentanti del parlamento, formata da 42 deputati, 28 eletti nella Federazione e 14 nella RS; infine della camera dei popoli fanno parte 5 serbi, 5 croati e 5 musulmani.

martedì 10 settembre 2013

teatro Dubrovka




Con il termine crisi del teatro Dubrovka ci si riferisce al sequestro avvenuto fra il 23 e il 26 ottobre 2002 al teatro Dubrovka di Mosca, nel quale vennero sequestrati e tenuti in ostaggio circa 850 civili da parte di un gruppo di 40 militanti armati ceceni che rivendicavano fedeltà al movimento separatista ceceno chiedendo il ritiro immediato delle forze invasori russe dalla Cecenia e la fine della seconda guerra cecena.
Dopo un assedio durato oltre due giorni, le forze speciali russe Specnaz pomparono un misterioso agente chimico all'interno del sistema di ventilazione dell'edificio provocando la morte di 129 ostaggi e di 39 combattenti ceceni facendo poi irruzione. Altre stime portarono invece la morte dei civili ad un numero superiore alle 200 unità proprio dovute all'irroramento del gas nervino nella sala del teatro Dubrovka.
Ufficiosamente la stampa di quasi tutto il mondo negò qualsiasi responsabilità dello stesso Presidente Vladimir Putin, altri invece gli imputarono fin dai momenti successivi alla tragedia la responsabilità della decisione di usare il gas nervino.

Il sequestro

Durante il secondo atto dello spettacolo teatrale Nord-Ost, in corso la sera del 23 ottobre 2002 nel teatro ubicato nell'area Dubrovka di Mosca, circa 42 membri di un commando composto principalmente da donne fece irruzione nel teatro prendendo in ostaggio circa 850 persone fra le quali anche un generale di polizia russo.
Alcune persone che al momento dell'irruzione si trovavano dietro alle quinte riuscirono a fuggire da una finestra aperta e allertarono la polizia. Le persone fuggite riportarono che circa la metà dei terroristi era inusitatamente composto da donne. Alcune conversazioni avute tramite telefoni cellulari con gli ostaggi rivelarono che i sequestratori erano armati di granate e altri di esplosivi legati al corpo, ma soprattutto che i sequestratori avevano disposto diverse cariche esplosive nel teatro. La maggior parte di questi esplosivi, inclusi quelli indossati dalle donne, furono trovati più tardi dalle forze di polizia.

Richieste

I sequestratori — capeggiati da Movsar Baraev, nipote di un ribelle ceceno — minacciarono di uccidere gli ostaggi se le forze russe non si fossero ritirate immediatamente e senza condizioni dalla Cecenia, anche se inizialmente le autorità russe annunciarono che i terroristi avevano richiesto il pagamento di un'enorme cifra come riscatto.
Una videocassetta contenente la richiesta dei sequestratori entrò però in possesso dei media. Nel video, uno dei terroristi affermò la volontà di morire per la sua causa. Il video conteneva il seguente messaggio:

« Ogni nazione ha diritto al suo destino. La Russia ha sottratto questo diritto alla Cecenia e oggi vogliamo rivendicare questi diritti, che Allah ci ha dato, nella stessa maniera in cui li ha dati a qualsiasi altra nazione. Allah ci ha dato il diritto alla libertà e il diritto a scegliere il nostro destino. Gli occupanti russi hanno inondato la nostra terra con il sangue dei nostri bambini. Le persone sono ignare degli innocenti che stanno morendo in Cecenia: i leader religiosi, le donne, i bambini e i deboli. Quindi, abbiamo scelto questo approccio. Questa scelta è per la libertà del popolo ceceno e non c'è differenza in dove moriamo, quindi abbiamo deciso di morire qui, a Mosca. E porteremo con noi le vite di centinaia di peccatori. Se moriamo, altri verranno e ci seguiranno — i nostri fratelli e le nostre sorelle disposti a sacrificare le loro vite secondo il modo di Allah, per liberare la loro nazione. I nostri connazionali sono morti ma la gente dice che loro, i nostri connazionali sono terroristi e criminali. Ma la verità è che la Russia è il vero criminale. »

Secondo un esponente del Cremlino, Sergej Jastržembskij, "quando fu detto loro che il ritiro delle truppe era irrealistico in un breve periodo di tempo e che sarebbe stato un processo molto lungo, i sequestratori avanzarono la richiesta di ritiro delle truppe da tutta la repubblica cecena senza specificare in quale area fosse.". Domandarono inoltre la fine dell'utilizzo di armi pesanti (artiglieria e forza aerea) in Cecenia e una dichiarazione pubblica fatta dal Presidente russo in persona in cui si sarebbe impegnato a porre fine alla guerra in Cecenia.

Standoff

La reazione degli spettatori all'interno del teatro alla notizia che lo stesso era sotto attacco terroristico non fu uniforme - alcune persone rimasero calme, alcune reagirono istericamente e altre svennero. La situazione nella sala era nervosa e cambiava frequentemente in base al comportamento dei sequestratori, come riportato dai media. Ogni tipo di disinformazione causava disperazione fra gli ostaggi e nuove aggressioni fra i terroristi che minacciavano di sparare agli ostaggi e di far esplodere l'edificio.

23 ottobre

Circa 15 bambini e un uomo con problemi cardiaci furono rilasciati dai sequestratori il primo giorno. Una giovane donna ventiseienne, Ol'ga Romanova, riuscì a sorpassare il cordone di sicurezza disposto dalla polizia ed entrò nel teatro. Affrontò i terroristi e stimolò gli ostaggi ad opporsi ai sequestratori, che scambiandola per un agente dell'FSB, ossia dei servizi segreti russi, le spararono uccidendola. Il suo corpo fu recuperato più tardi da un team medico.

24 ottobre

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite richiese l'immediato e incondizionato rilascio di tutti gli ostaggi. Il governo russo offrì la possibilità ai terroristi di lasciare la Russia per un altro paese evitando una strage. I sequestratori chiesero inoltre la presenza sul luogo dell'assedio della Croce Rossa Internazionale e di Medici senza Frontiere per dirigere le trattative. Il colonnello dell'FSB Konstantin Vasil'ev tentò di entrare nel teatro ma fu ucciso dai sequestratori non appena si avvicinò all'edificio.
Figure politiche e pubbliche conosciute quali Aslambek Aslachanov, Iosif Kobzon, Irina Chakamada, Boris Nemcov e Grigorij Javlinskij presero parte nelle trattative con i terroristi. L'ex-presidente dell'unione sovietica Michail Gorbačëv annunciò la sua volontà di intervenire come intermediario nel corso delle trattative. Trattative per il rilascio di cittadini non russi furono condotte da varie ambasciate e i sequestratori promisero di rilasciare tutti gli ostaggi stranieri.
Secondo quanto affermato dall'FSB, 39 ostaggi furono liberati il 24 ottobre 2002. I sequestratori dichiararono che erano pronti a rilasciare 50 ostaggi se Achmad Kadyrov, il capo dell'amministrazione cecena, si fosse presentato al teatro. Si rivolsero anche al presidente Vladimir Putin, chiedendo di interrompere le ostilità in Cecenia e di evitare di attaccare l'edificio.

25 ottobre

Durante la giornata, ancora, furono diverse le persone che presero parte alle trattative con i sequestratori: Sergej Govoruchin, Mark Franchetti, Evgenij Primakov, Ruslan Aušev e Anna Politkovskaja, la giornalista assassinata nel 2006 e nota per il suo impegno contro la corruzione; i terroristi chiesero di negoziare con tutti i rappresentanti di Vladimir Putin.
I sequestratori accettarono di rilasciare 75 cittadini stranieri in presenza dei rappresentanti diplomatici dei rispettivi stati. Tuttavia, le autorità russe insistettero perché i terroristi non separassero gli ostaggi in gruppi di stranieri e cittadini russi. Rilasciarono poi 8 bambini senza condizioni.
Un gruppo di medici russi, fra i quali Leonid Rošal', entrò nel teatro per portare medicine agli ostaggi. Alcuni giornalisti del canale televisivo NTV registrarono un'intervista con Movsar Baraev, dove annunciò che avrebbe potuto rilasciare tutti i bambini entro la mattinata successiva.
Alle 21:55, quattro ostaggi - cittadini azeri - furono rilasciati, portando il numero totale degli ostaggi liberati quel giorno a 19. Secondo quanto stabilito con i sequestratori, i cittadini degli Stati Uniti e del Kazakistan sarebbero stati liberati la mattinata successiva.
Gennadij Vlach, a cui fu presumibilmente detto che suo figlio era fra gli ostaggi, attraversò la piazza correndo cercando di guadagnare l'entrata del teatro. Suo figlio sembra non fosse presente all'interno del teatro, mentre lui fu ucciso dai sequestratori. Dieci minuti più tardi, un altro uomo fu visto dirigersi nella stessa direzione ma ritornò illeso.
Attorno a mezzanotte, un ostaggio tentò di colpire una donna presente nel commando con una bottiglia. L'ostaggio corse lungo il fondo del teatro in direzione di una delle donne seduta accanto ad un congegno esplosivo. Uno dei membri del commando cercò di colpirlo con un proiettile mancandolo e ferendo gravemente altri due ostaggi, Tamara Starkova e Pavel Zacharov, che furono evacuati dall'edificio poco dopo.

26 ottobre: Intervengono le forze speciali

Durante la notte, Achmed Zakaev fece appello ai sequestratori chiedendo loro di evitare mosse sconsiderate. Due membri delle forze speciali OMON furono feriti da una granata lanciata dall'edificio.
La mattina del 26 ottobre 2002, le forze speciali russe Osnaz dei servizi segreti russi (FSB), con l'assistenza delle unità Sobr del Ministero dell'Interno, avanzarono prendendo d'assalto l'edificio. Membri delle forze mediche presenti sul luogo riportarono che le operazioni di assalto si scatenarono quando i sequestratori iniziarono a sparare sugli ostaggi.
In assenza di una qualsiasi inchiesta successiva, lo svolgersi degli eventi rimane poco chiaro e si basa sulle informazioni ricevute da testimoni oculari.
Verso le 5 del mattino, il riflettore che illuminava l'entrata principale del teatro fu spento. L'ostaggio Anna Andrianova, una corrispondente per Moskovskaja Pravda, chiamò gli studi radio dell'emittente Eco di Mosca e riferì in diretta che le forze avevano iniziato l'operazione di assalto pompando gas all'interno della sala:

« Ci stanno asfissiando! Tutte le persone si stanno sedendo nella sala... Supplichiamo di non essere avvelenati! Lo vediamo, lo sentiamo, stiamo respirando attraverso i vestiti... Per favore, dateci una possibilità. Se potete fare qualcosa, fatelo! Il nostro governo ha deciso che nessuno deve lasciare questo posto vivo. »

Inizialmente si ipotizzò che il gas pompato all'interno dell'edificio fosse un anestetico - più tardi venne riportato essere Fentanyl, utilizzato come arma attraverso il sistema di condizionamento dell'edificio. Dopo circa 20 minuti da quando i militari hanno iniziato a immettere la miscela gassosa nell'edificio uscì una donna dall'entrata principale, a causa dell'accaduto i soldati prolungarono per altri 40 minuti il pompaggio del gas in modo che fossero sicuri che tutti i sequestratori fossero addormentati. Alle 6 del mattino (ora locale) scattò l'assalto al teatro. Le forze speciali entrarono attraverso numerosi accessi, compreso il tetto e le fogne.
Il raid fu preceduto dal suono di sporadici colpi di arma da fuoco e da alcune esplosioni provenienti dal teatro. All'interno, divenne chiaro sia ai sequestratori che agli ostaggi che una sostanza gassosa era stata immessa nell'edificio. Alcuni sequestrati riportarono che diverse persone presenti nella sala caddero in un sonno profondo mentre alcuni sequestratori furono costretti ad indossare maschere antigas.
Dopo circa un'ora e mezza di sporadici combattimenti, i soldati delle forze speciali aprirono le porte principali del teatro ed entrarono nell'auditorium freddando i sequestratori ancora presenti ed uccidendo quelli colpiti precedentemente dall'effetto del gas (principalmente donne con detonatori).
Il combattimento continuò in altre aree dell'edificio per circa 30 minuti. Versioni iniziali sostenevano che tre terroristi erano stati catturati vivi, ma due di essi riuscirono a scappare. Al maggio 2007, il destino di dieci dei terroristi rimane sconosciuto.

Il caos dei soccorsi

Alle 7:00 del mattino i team di soccorritori iniziarono a portare i corpi degli ostaggi fuori dall'edificio. I corpi furono disposti in file sul marciapiede dell'entrata principale del teatro, esposti a pioggia e neve. In breve tempo, l'intera area fu riempita da corpi di persone morte e da quelle vive ancora prive di sensi a causa del gas. Diverse ambulanze erano costrette ad aspettare decine di minuti per ottenere il permesso di attraversare il cordone di sicurezza.
I corpi degli ostaggi deceduti furono collocati in due autobus parcheggiati al teatro. Tuttavia, notizie iniziali non riportavano nulla riguardo vittime fra gli ostaggi. Alcuni funzionari si recarono dai parenti degli ostaggi comunicando l'assenza totale di vittime fra i sequestrati. Un deputato del ministero per gli affari interni, Vladimir Vasil'ev annunciò che le forze speciali erano state obbligate a scatenare il blitz nel teatro dopo che alcuni ostaggi avevano tentato la fuga.
Il primo report ufficiale che parlava di vittime fra gli ostaggi risale alle 9 del mattino. A dispetto della morte di 5 bambini comunicata dal personale medico, l'annuncio sosteneva la mancanza di bambini fra i deceduti. Le autorità intanto non comunicavano nulla circa l'uso d'agenti chimici nel raid.
Alle 13:00, Vladimir Vasil'ev comunicò in una conferenza stampa che 67 persone erano decedute, ma ancora non menzionava la morte di alcun bambino. Confermava l'uso di uno speciale agente chimico utilizzato dalle forze speciali e che 30 terroristi erano stati catturati vivi nell'area attorno al teatro e in altre parti della città. Più tardi, il governo affermava che tutti i terroristi erano stati uccisi, inclusa una donna non cosciente uccisa all'esterno del teatro da una donna indossante un'uniforme dell'FSB.
Guardie armate furono assegnate negli ospedali dove le vittime erano state trasportate e ai medici fu ordinato di non rilasciare nessuno dei pazienti provenienti dal teatro per il timore che qualche terrorista si fosse nascosto fra i pazienti. I sopravvissuti furono isolati da ogni tipo di comunicazione con l'esterno e ai loro parenti non fu permesso di entrare negli ospedali; in molti casi il governo rifiutò di informare le famiglie in quali ospedali della zona fossero ricoverati i loro parenti.

Conseguenze

Almeno 33 terroristi e 129 ostaggi morirono durante il raid o nei giorni successivi. Il presidente della commissione sanitaria russa Andrei Seltsovsky annunciò che uno degli ostaggi uccisi nel raid morì per effetto del gas piuttosto che a causa delle ferita da arma da fuoco.
La causa di morte segnalata per tutti gli ostaggi era la stessa: terrorismo. Circa 700 ostaggi furono avvelenati da gas - molti di loro divennero invalidi di seconda e terza categoria. 12 persone soffrirono di parziali o totali problemi cardiaci. 69 bambini rimasero orfani e diverse persone delle forze speciali rimasero avvelenate dal gas durante il blitz.
Il presidente russo Vladimir Putin, durante un'apparizione televisiva del 26 ottobre, difese il blitz affermando che "il governo aveva fatto l'impossibile, salvando centinaia, centinaia di persone". Chiese perdono per non essere riusciti a salvare più ostaggi e dichiarò il lunedì successivo giorno di lutto nazionale per commemorare le persone morte.
Le forze di sicurezza giustificarono l'uso di anestetico per la massiccia presenza di sequestratori armati con esplosivi e sparsi in ogni zona dell'edificio. Le forze speciali temevano che se i terroristi avessero avuto il sentore di essere sotto attacco, avrebbero ucciso gli ostaggi o, peggio ancora, avrebbero tentato di far detonare l'esplosivo piazzato nella struttura. Riguardo l'uccisione di ogni terrorista privo di sensi da parte delle forze speciali, un membro del commando Alpha Group - in Russo Spetsgruppa Alfa dichiarò ai media:

« Capisco che è crudele, ma quando ci sono due chilogrammi di esplosivo al plastico legato ad una persona, non vediamo nessun altro modo per renderli innocui»

Nell'aprile 2007, l'avvocato Igor' Trunov, riferì che la Corte Europea dei diritti dell'uomo aveva finalmente preso in considerazione le proteste avanzate nel 2003 da 58 familiari delle vittime contro il governo russo. Trunov aggiunse che non solo i cittadini russi, ma anche alcuni cittadini di Ucraina, Paesi Bassi e Kazakistan, parteciparono alla denuncia alla corte di Strasburgo.
Sempre nell'aprile 2007, Tat'jana Karpova, vice presidente dell'organizzazione Nord-Ost fondata da ostaggi e familiari delle vittime, chiese una nuova indagine criminale. Sostenne il fallimento delle autorità russe nell'adempiere ai propri obblighi riguardo al diritto alla vita. Mise inoltre in evidenza che "abbiamo prove che a 69 feriti non furono garantite cure mediche" e che "l'80% degli ostaggi sopravvissuti sono potenziali invalidi, inclusi rischi di futuri problemi oncologici e la possibilità che donne avvelenate dal gas possano in futuro partorire bambini con difetti fisici".

Inchiesta ufficiale

L'inchiesta che il pubblico ministero di Mosca effettuò per tre anni e mezzo non riuscì a fornire informazioni circa l'agente chimico che uccise gli ostaggi, il possibile antidoto all'agente, il numero di ostaggi rilasciati, il numero di terroristi che hanno assaltato il teatro e i nomi degli ufficiali che presero la decisione del blitz. Gli ostaggi confermarono di aver contato 54 terroristi, mentre secondo le versioni ufficiali soltanto 40 sequestratori erano nell'edificio.
Il 1º giugno 2007 arrivò la notizia che l'indagine ufficiale era stata sospesa. La motivazione fornita fu che il colpevole non era stato identificato.

Effetti a lungo termine

Gli attacchi spinsero Putin a stringere la morsa in Cecenia. Le agenzie di stampa del governo russo riportarono che 30 ribelli ceceni furono uccisi in una battaglia nei pressi di Groznyj il 28 ottobre 2002 e Putin, in seguito alle attività terroristiche, annunciò delle misure adeguate alla minaccia. L'offerta di una trattativa incondizionata con la Russia, avanzata dal presidente Maskhadov's, fu rigettata dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, che paragonava una simile trattativa ad una negoziazione similare dell'Europa con Osama bin Laden.
La Russia accusò inoltre Achmed Zakaev, diplomatico ceceno e associato a Aslan Maskhadov, di coinvolgimento. Durante una sua visita in Danimarca per un congresso nell'ottobre 2002, i russi chiesero il suo arresto e la sua estradizione. Fu trattenuto in Danimarca per oltre un mese, ma fu rilasciato dopo che le autorità danesi affermarono che non vi erano prove sufficienti. Il 7 dicembre 2002 Zakayev chiese asilo politico a Londra. Le autorità inglesi lo arrestarono ma fu rilasciato a seguito del pagamento di una cauzione di oltre cinquantamila sterline. Il percorso per la sua estradizione proseguì, ma il 13 novembre 2003 un giudice britannico rigettò la richiesta di estradizione russa, definendolo una figura motivata politicamente e a rischio di tortura. Il 29 novembre gli venne garantito asilo politico in Gran Bretagna.
Il 1º novembre 2002, la Duma approvò nuove restrizioni sulla stampa russa per eventi riguardanti il terrorismo; restrizioni che ricevettero, come previsto, ampia approvazione anche dalle camere superiori e dal presidente Putin stesso. La stessa Duma rifiutò poi una proposta avanzata dall'unione delle forze liberali per creare una commissione incaricata di verificare e di indagare le azioni governative tenute durante l'assedio al teatro. Queste nuova condotta fece tornare in Russia il timore che Putin stesse sistematicamente prendendo il controllo dei media.
Nel 2003, l'organizzazione umanitaria Human Right Watch denunciava un aumento delle barbarie perpetrate dalla polizia russa verso la popolazione cecena.

domenica 8 settembre 2013

golpe Borghese




Con golpe Borghese (citato anche come golpe dei forestali o golpe dell'Immacolata) si indica un colpo di Stato tentato in Italia durante la notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970 (chiamata anche notte di Tora Tora, in ricordo dell'attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941) e organizzato da Junio Valerio Borghese, sotto la sigla Fronte Nazionale, in stretto rapporto con Avanguardia Nazionale.
Borghese, noto anche con il soprannome di principe nero, era in precedenza conosciuto per essere stato il comandante della Xª Flottiglia MAS fin dal 1º maggio 1943 e dopo l'8 settembre 1943 con il proprio reparto aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana. Il golpe fu annullato dallo stesso Borghese mentre era in corso di esecuzione, per motivi mai chiariti.

Sinossi storico-politica

Nel 1970 Eugenio Henke lasciava la carica di Direttore del SID (Servizio Informazioni Difesa) per assumere importantissimi incarichi militari. Gli subentrava Vito Miceli, che fino all'anno precedente aveva diretto il SIOS esercito. La vigilia dell'Immacolata del 1970 fu posto in atto il golpe Borghese, di cui probabilmente Miceli aveva sentore da lunga data. Formalmente però ne ebbe notizia dal suo subordinato (Ufficio «D») Gasca Queirazza, che Miceli invitò a non immischiarsi, posto che sarebbe intervenuto personalmente il capo del SID medesimo. Ciò che effettivamente avvenne fu che i golpisti, opportunamente messi sull'avviso, poterono desistere dall'occupazione del Viminale senza patirne conseguenze. Le indagini svolte successivamente dal SID furono mantenute strettamente circoscritte all'ambito del servizio, salvo una scarna informativa all'ufficio politico della questura di Roma.
Nell'inchiesta giudiziaria del 1971, Miceli mantenne costantemente un atteggiamento reticente, negando sia la concreta rilevanza dell'azione di Borghese, sia la complicità degli apparati di sicurezza (anche se lui stesso, in un colloquio con il capo di stato maggiore della Difesa, era incorso in un'involontaria confessione della sua ampia conoscenza del piano). Tra il 1971 ed il 1974 si tentò insistentemente di avallare, anche nell'opinione pubblica, il convincimento che si fosse trattato dell'operazione grottesca di un manipolo di vegliardi. Per quanto si cercasse di celare particolarmente questo aspetto, sembra ormai storicamente acquisita la cooperazione della massoneria nella conduzione del colpo di Stato, segnatamente con la programmata iniziazione di quattrocento ufficiali. In particolare, emersero i nomi di Gavino Matta e Giovanni Ghinazzi, entrambi della "loggia coperta" denominata "comunione di Piazza del Gesù", ed entrambi veterani falangisti della guerra di Spagna. E proprio la Spagna sarà —nel 1971— il luogo di rifugio di Borghese e Matta nel momento in cui scattarono i primi arresti per l'abortita impresa dell'Immacolata. Altri congiurati non furono altrettanto fortunati o tempestivi, ma comunque per tutti fu garantito nei fatti un trattamento restrittivo di favore, consistente nella "detenzione" in agiate cliniche private, a causa di supposte condizioni critiche di salute. Ricorderemo in proposito il "parà" Sandro Saccucci e Remo Orlandini. Quest'ultimo, che aveva da anni rapporti con elementi del SIOS esercito, ricevette anche, nel luogo di "cura" ove era trattenuto, la visita di Miceli, che gli promise protezione in cambio del suo silenzio.

È stata suggerita una diretta connessione tra il golpe Borghese e l'attività (mai completamente chiarita) della rete Gladio. Il colpo di Stato in questione sarebbe stato appoggiato anche da Luciano Liggio, Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate, ovvero dai vertici mafiosi del tempo.
Mentre rimane un mistero se il fallito golpe dell'8 dicembre fosse in realtà solo una specie di prova generale per l'azione effettiva, quello che sembra sicuro è che Borghese rappresentava comunque una pedina di un gioco più grande di lui, che gli sarebbe stato programmaticamente tolto di mano al momento previsto, consentendo l'attuazione di una serie di misure di sicurezza analoghe a quelle teorizzate nel più volte citato Piano Solo. Sempre dalla medesima fonte, apprendiamo del ruolo di istigatore che Guido Giannettini avrebbe svolto presso alcuni quadri dell'Arma affinché aderissero alla congiura. Secondo la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia P2, fu Licio Gelli ad impartire il contrordine ai complottisti per farli rientrare nei ranghi. Vi sono risultanze processuali dei contatti di Gelli con i servizi e con i carabinieri in vista del colpo di Stato. Quasi trent'anni più tardi è emerso come Gelli fosse stato uno dei primi associati al Fronte nazionale e che al tempo del golpe Borghese migliaia di ufficiali massoni partecipavano a sodalizi eversivi. Parimenti da fonte processuale sarebbe ipotizzabile che Gelli avesse avuto la missione di catturare il presidente Saragat.

È da ritenere che l'ordine di abbandonare il golpe sia conseguenza di un aspro dibattito, negli ambienti reazionari, tra chi auspicava un'immediata soluzione forte (presa materiale del potere), e chi era fautore di una condotta maggiormente politica dell'affare, sia pure eventualmente con qualche accorgimento non del tutto legale. Un'inchiesta del 1972, condotta da Gian Adelio Maletti ed Antonio Labruna (Ufficio «D» del SID) aveva appurato una solida intesa tra Borghese, Miceli e Orlandini, e persino la singolare circostanza che un armatore di Civitavecchia aveva messo a disposizione i propri mercantili per trasportare nelle Isole Lipari le persone catturate dai golpisti. Una parte da protagonista sarebbe stata svolta dal dirigente Selenia Hugh Fenwick, che secondo Orlandini avrebbe funto da ufficiale di collegamento tra Borghese e Nixon, posto che il presidente USA sarebbe stato propenso a sostenere l'azione eversiva in parola.
L'informativa Labruna-Maletti venne poi trasmessa da Andreotti alla procura della Repubblica di Roma (luglio 1974), ma non si trattò di impulso alle indagini, bensì di un tentativo di ostacolare quelle coeve dei giudici di Torino e Padova, effettivamente culminato nell'ordinanza del giudice istruttore capitolino Filippo Fiore, che statuiva —riguardo Miceli— che «non era partecipe delle cose criminose», declassandone l'apporto al rango di mero favoreggiamento. Vi sono del resto fondati motivi per ritenere intrinsecamente finalizzata al depistaggio l'intera "inchiesta Maletti" sul golpe Borghese: infatti, scaturiva per lo più dalle dichiarazioni di Orlandini, dissimulando invece la conoscenza che il SID —autonomamente e ben prima— aveva su tutta la questione, come abbiamo già detto in apertura di sezione. Si preferì, all'evidenza, abbandonare al proprio destino (peraltro non particolarmente tragico) gli esecutori materiali dell'operazione, omettendo ogni riferimento ai generosi finanziatori (industriali nazionali e d'oltreoceano). Sostanzialmente analoghe saranno le conclusioni del procedimento giudiziario del 1975. Nel 1978 la Corte d'assise di Roma assolse comunque Miceli anche dall'accusa di favoreggiamento, dopo che già era stata accantonata la più grave ipotesi incriminatoria di cospirazione.
Il giudizio d'appello del 1984 completò l'opera, mandando assolti con la formula "perché il fatto non sussiste"  persino gli imputati che avevano ammesso di aver preso parte al noto evento. Solo nel 1995, il magistrato Guido Salvini sosterrà l'esistenza di un apparato eversivo complesso, diffuso sull'intero territorio nazionale, affiancato dalla criminalità organizzata, in cui erano coinvolte personalità quali l'onnipresente Licio Gelli, il generale Francesco Mereu, —capo di stato maggiore esercito— e l'ammiraglio Giovanni Torrisi —capo del SIOS marina—, tutti affiliati alla P2. Torrisi sarebbe stato in contatto con tale dottor Salvatore Drago, un medico "piduista" in servizio al Ministero dell'Interno, che godeva di buone conoscenze in ambienti mafiosi. È stato ipotizzato che l'iniziativa di occultare i nomi di maggior rilievo nelle varie inchieste si debba far risalire ad Andreotti, che al tempo era ministro della Difesa, ma l'interessato ebbe a puntualizzare che i vertici politici avevano voluto soltanto proteggere le persone la cui partecipazione al complotto non era assodata.

Il ruolo degli USA

Si è già accennato alla supposta dimensione internazionale dell'abortito colpo di Stato del '70. Documenti de-classificati negli anni 1990 dagli USA sembrano confortare tale supposizione. L'ambasciatore americano a Roma, Graham Martin, il 7 agosto 1970 aveva inviato un rapporto al Dipartimento di Stato su una conversazione intercorsa con un uomo d'affari suo compatriota (il già nominato Hugh Fenwick?).
Il businessman era stato avvicinato da Adriano Monti, il quale —delineato per sommi capi il progetto del golpe Borghese— aveva cercato di sondare l'atteggiamento che l'amministrazione statunitense avrebbe assunto nei confronti degli insorgenti. Monti, che ha pure lui vittoriosamente superato il processo penale per la vicenda di cui trattiamo, ha concordato in un suo libro sulla concretezza dei propositi di Borghese, nonché sul sostanziale placet degli Stati Uniti. Nei primi mesi del 1970, su istruzioni di Borghese ed Orlandini, Monti era volato a Madrid, dove aveva conferito con Otto Skorzeny —un uomo dall'illustre passato nelle SS, che poi era divenuto una pedina di primo piano della cosiddetta "rete Gehlen".
Skorzeny, ben introdotto presso la CIA, dichiarò che gli USA non avrebbero obiettato sull'ipotesi golpista, purché l'instauranda giunta militare avesse espresso prontamente una leadership "centro-democratica", conforme ai gusti dell'opinione pubblica e del Congresso statunitensi.
Dopo questo colloquio preliminare, Monti —per il tramite del famoso "uomo d'affari americano" — ottenne un abboccamento con Herbert Klein, all'epoca collaboratore di Kissinger, che dettò le condizioni alle quali il governo USA non avrebbe contrastato l'azione eversiva:

dovevano rimanervi estranei civili e militari americani dislocati in basi NATO;
dovevano invece prendervi parte tutte e tre le forze armate dell'epoca, con espressa menzione dei carabinieri;

arrivato a buon fine il colpo di Stato, il potere provvisorio doveva essere assunto da un politico DC, che riscuotesse il gradimento americano e si prodigasse ad organizzare nuove elezioni politiche entro un anno;
tali elezioni, pur essendo in linea di principio "libere", non avrebbero contemplato liste comuniste, né di estrema sinistra, escludendo anche formazioni di analogo orientamento, ancorché "sotto mentite spoglie".
In una "puntata" de La storia siamo noi, Monti dichiarò che il democristiano designato al descritto ruolo di traghettatore era Andreotti, pur precisando di ignorare se questi fosse informato e/o favorevole riguardo ad un simile disegno.

Nella relazione dell'ambasciatore Martin, cui accennavamo in apertura di sezione, si ricordava come il dibattito interno al Dipartimento di Stato sull'opportunità di sovvertire l'assetto politico italiano durasse da molto tempo, ma l'affaire Borghese aveva recentemente conferito drammatica attualità a quella che poteva parere una pura esercitazione speculativa da analisti. In particolare, Miceli (direttore SIOS pro tempore) aveva incontrato l'addetto militare presso l'ambasciata americana, James Clavio, sottoponendo a questo consigliere diplomatico il nastro di una registrazione in cui un presunto uomo politico italiano (ignoto) faceva oscuramente riferimento ad un "colpo militare" che poteva svolgersi "intorno a ferragosto". Questa discutibile prova era asseverata dal fatto che —a detta di Miceli— vari ufficiali italiani avrebbero ricevuto lettere, esortanti all'insurrezione; una successiva indagine del Miceli stesso avrebbe individuato Borghese quale autore delle missive.
Il Segretario di Stato del tempo, William Rogers, replicò a Martin manifestando dubbi sulle probabilità di riuscita del complotto, ma anche commentando parti del dossier Martin tuttora non esaminabili. Il Segretario di Stato concludeva chiedendo al diplomatico se fosse il caso di avvisare Saragat o il premier Colombo.
L'ambasciatore faceva seguito a stretto giro, riferendo al suo superiore di aver invitato l'ammiraglio Henke ad approfondire le sue conoscenze su Borghese e sul Fronte Nazionale. Henke aveva prontamente interessato il Capo dello stato maggiore Difesa, Enzo Marchesi, e il ministro della difesa in carica, Tanassi: poiché quest'ultimo era vicinissimo al suo compagno di partito (PSDI) Saragat, Rogers riteneva superflua ogni ulteriore iniziativa in proposito.
Nel 1971, dopo che la trama Borghese era stata oggetto di un articolo di Paese Sera, Martin scrisse nuovamente al Dipartimento di Stato, sposando la nota tesi del "golpe dei pensionati".
Concludendo la disamina, sulla scorta degli elementi ad oggi non secretati, si può affermare con sicurezza che gli USA conoscessero preventivamente le intenzioni del principe Junio Valerio, mentre bisogna sospendere il giudizio sull'ipotesi di una loro partecipazione attiva.
Un rapporto dei servizi segreti, allegato ai lavori della commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2, afferma che i golpisti erano in contatto con membri della NATO, tanto che quattro navi NATO erano in allerta a Malta.

Il cosiddetto testamento Borghese

Da uno degli innumerevoli procedimenti penali che costellano la storia qui trattata, è emerso una sorta di testamento spirituale, attribuito a Borghese, che (una volta che fosse accertata la genuinità) potrebbe portare un'inedita luce sulla complessa vicenda dell'Immacolata. Si tratta di uno scritto di natura apologetica, con cui il vecchio comandante della X MAS tenterebbe di allontanare da sé i sospetti di tradimento che allignavano nell'ambiente dell'estrema destra. Il documento, concepito per un uso strettamente privato, era stato rinvenuto in modo quasi casuale dentro ad un mobile già di proprietà di Enrico de Boccard, esponente repubblichino, giornalista-scrittore, co-fondatore dell'Istituto di studi militari Alberto Pollio ed organizzatore, a Roma, il 3 maggio del 1965 del Convegno dell'Hotel Parco dei Principi sulla guerra rivoluzionaria, finanziato dallo Stato Maggiore dell'Esercito.
Il "testamento" confermerebbe la tesi dell'apporto fattivo statunitense; il già ricordato Angleton si sarebbe adoperato per mettere in contatto Borghese con uomini del Dipartimento di Stato e della NATO. In effetti, quella che (il supposto) Borghese definisce "ventennale amicizia" e "vera fraternità" trova riscontro nell'episodio in cui l'americano lo salvò dai partigiani, travestendolo da suo commilitone nel 1945. Prosegue con la nota raccomandazione di affidare subito il governo provvisorio ad Andreotti. Quest'ultimo, tuttavia, non avrebbe avuto rapporti diretti con Borghese, preferendo, per opportunità, farsi rappresentare da Gilberto Bernabei, consigliere di Stato e suo uomo di fiducia. Il fallimento del golpe sarebbe ascrivibile ad una fuga di notizie partita da un ignoto "capitano del SIOS", che avrebbe informato il generale Renzo Apollonio, (un sopravvissuto all'eccidio di Cefalonia) che a sua volta ne parlò con il colonnello Giorgio Genovesi, e quest'ultimo ne parlò con Miceli. Ripercorrendo la linea gerarchica (Bernabei e Clavio), alla fine la falla nella segretezza avrebbe indotto Andreotti ad impartire il famoso contrordine.
L'autenticità del supposto testamento spirituale di Borghese è tutt'altro che pacifica, ma se fosse confermata ci obbligherebbe a riconsiderare l'intera vicenda dell'8 dicembre 1970 in modo sensibilmente diverso dall'approccio tradizionale.

Il piano

Il golpe era stato progettato nei minimi particolari: dal 1969 erano stati formati gruppi clandestini armati con stretti rapporti con le Forze Armate. In accordo con diversi vertici militari e membri dei Ministeri, il golpe prevedeva l'occupazione del Ministero dell'Interno, del Ministero della Difesa, delle sedi RAI e dei mezzi di telecomunicazione (radio e telefoni) e la deportazione degli oppositori presenti nel Parlamento.
Nei piani c'erano anche il rapimento del capo dello stato Giuseppe Saragat e l'assassinio del capo della polizia Angelo Vicari. A tutto questo sarebbe stato accompagnato un proclama ufficiale alla nazione, che Borghese stesso avrebbe letto dagli studi RAI occupati. Il testo seguente venne ritrovato nei suoi cassetti:

« Italiani, l'auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di Stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, ha portato l'Italia sull'orlo dello sfacelo economico e morale, ha cessato di esistere. Nelle prossime ore con successivi bollettini, vi verranno indicati i provvedimenti più immediati e idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione.
Le Forze Armate, le Forze dell'Ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della Nazione sono con noi; mentre, dall'altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari più pericolosi, quelli, per intendersi, che volevano asservire la patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Italiani, lo Stato che insieme creeremo, sarà un'Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera: il nostro glorioso Tricolore! Soldati di Terra, di Mare e dell'Aria, Forze dell'Ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria e il ristabilimento dell'ordine interno. Non saranno promulgate leggi speciali né verranno istituiti tribunali speciali; vi chiediamo solo di far rispettare le leggi vigenti. Da questo momento, nessuno potrà impunemente deridervi, offendervi, ferirvi nello spirito e nel corpo, uccidervi. Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso Tricolore vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno d'amore: Italia! Italia! Viva l'Italia! »

Attuazione e annullamento[

Il piano cominciò a essere attuato tra il 7 e l'8 dicembre 1970, con il concentramento nella Capitale di diverse centinaia di congiurati, con azioni simili in diverse città italiane, tra cui Milano. All'interno del Ministero degli Interni iniziò anche la distribuzione di armi e munizioni ai cospiratori; il generale dell'Aeronautica militare italiana Giuseppe Casero e il colonnello Giuseppe Lo Vecchio presero posizione al Ministero della Difesa, mentre un gruppo armato del Corpo Forestale dello Stato, di 187 uomini, guidato dal maggiore Luciano Berti si appostò non lontano dalle sedi televisive della RAI. A Milano, invece, si organizzò l'occupazione di Sesto San Giovanni tramite un reparto al comando del colonnello dell'esercito Amos Spiazzi.
Il golpe era in fase di avanzata esecuzione quando, improvvisamente, Valerio Borghese ne ordinò l'immediato annullamento. Le motivazioni di Borghese per questo improvviso ordine a poche ore dall'attuazione effettiva del piano non sono ancora certe ed esenti da una possibile smentita. Secondo la testimonianza di Amos Spiazzi, il golpe sarebbe stato in realtà fittizio: immediatamente represso dalle forze governative tramite un piano che sarebbe stato chiamato Esigenza Triangolo, sarebbe stato ideato come scusa per consentire al governo democristiano di emanare leggi speciali.
Borghese, tuttavia, si sarebbe reso conto (o sarebbe stato avvertito) della trappola e si sarebbe dunque fermato in tempo. Il movimento di Amos Spiazzi a Sesto San Giovanni non è da confondersi: esso faceva parte della legittima operazione Esigenza triangolo, finalizzata proprio a reprimere il golpe, non al golpe stesso. Egli testimoniò di aver incrociato durante il tragitto in autostrada quella notte numerose autocolonne militari oltre la sua. Difatti la menzione storica-giudiziaria unicamente del suo spostamento a Sesto S. Giovanni non è da fraintendersi con una sua particolare importanza rispetto a quella di altri reparti, ma al fatto che lui fu l'unico militare a dare testimonianza pubblica di ciò che avvenne quella notte; ad essere mobilitato (similmente al suo reparto) fu l'intero esercito italiano e arma dei carabinieri, in ogni parte d'Italia. Oltre a lui, altri militari avvisarono Borghese del piano di ordine pubblico. Colpi di Stato di questo tipo ("derivative putsch") sono avvenuti in altri paesi: il più famoso è il colpo di Stato spagnolo del 1981.
Recentemente in un programma di Giovanni Minoli si è presentata la documentata visione dello stop del golpe come di un ordine proveniente dai servizi americani, che avrebbero dato il loro beneplacito al proseguimento del colpo di mano solo nel caso che al vertice del nuovo assetto politico fosse stato posto Giulio Andreotti (che invece avrebbe rifiutato). Questa ipotesi, ovviamente, non esclude la precedente, ma piuttosto la integra.

Le indagini

Gli italiani scoprirono il tentato golpe tre mesi dopo.
Paese Sera titolò: "Piano eversivo contro la repubblica, scoperto piano di estrema destra". Il 18 marzo 1971 il sostituto procuratore di Roma Claudio Vitalone firmò i mandati di arresto con l'accusa di usurpazione dei poteri dello stato e cospirazione per il costruttore edile Remo Orlandini, Mario Rosa, Giovanni De Rosa, Sandro Saccucci, Giuseppe Lo Vecchio e Junio Valerio Borghese.
In seguito al fallimento del golpe, Borghese si rifugiò in Spagna dove rimase fino alla morte, avvenuta a Cadice il 26 agosto 1974, non rientrando in Italia neanche dopo che, nel 1973, fu revocato l'ordine di cattura spiccato nei suoi confronti dalla magistratura italiana.

Il ruolo del SID, della mafia e della P2

Il 15 settembre 1974 Giulio Andreotti, all'epoca Ministro della Difesa, consegnò alla magistratura romana un dossier del SID diviso in tre parti che descriveva il piano e gli obiettivi del golpe, portando alla luce nuove informazioni. Il dossier fu redatto dal numero due del SID, il generale Gianadelio Maletti, che avviò un'inchiesta sulle cospirazioni mantenendolo nascosto anche a Vito Miceli, direttore del servizio. Aiutato dal capitano Antonio Labruna, furono registrate le dichiarazioni di Remo Orlandini, quest'ultimo coordinatore per Borghese verso collegamenti all'estero e in Italia. A detta di Claudio Vitalone, Orlandini fu trovato in possesso di documenti segreti concernenti il dislocamento di forze militari italiane e NATO, tali da "scatenare l'invidia dei più alti livelli militari e delle più agguerrite agenzie di spionaggio".
Durante un colloquio, Orlandini fece il nome di Vito Miceli, come una figura coinvolta direttamente come Borghese. A questo punto Maletti fu costretto a scavalcare Miceli e a parlare direttamente con Andreotti. Miceli si giustificò affermando che doveva acquisire delle informazioni. Venne subito destituito insieme ad altri 20 generali e ammiragli, senza particolari spiegazioni. La Magistratura fece partire altri 32 arresti, tra cui anche quello di Adriano Monti. Nel 1974 Monti negò tutto e, scarcerato per motivi di salute, fuggì all'estero e vi rimase latitante per 10 anni.
Nel 1991 si scoprì che le registrazioni consegnate nel 1974 da Andreotti alla magistratura non erano la versione integrale. In origine, Remo Orlandini faceva il nome di numerosi personaggi di spicco in ambito politico e militare, ma Andreotti ha recentemente dichiarato che ritenne di dover tagliare quelle parti per non renderle pubbliche, in quanto tali informazioni erano «inessenziali» per il processo in corso e, anzi, avrebbero potuto risultare «inutilmente nocive» per i personaggi ivi citati.
Le parti cancellate includevano il nome di Giovanni Torrisi, successivamente capo di stato maggiore della Difesa tra il 1980 e il 1981; inoltre venivano fatti riferimenti a Licio Gelli e alla loggia massonica P2, che si doveva occupare del rapimento del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Infine si facevano rivelazioni circa un "patto" stretto da Borghese con alcuni esponenti di Cosa nostra secondo cui alcuni sicari della mafia, in effetti presenti a Roma la notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970, avrebbero ucciso il capo della polizia Angelo Vicari.
L'esistenza di tale patto sarebbe poi stata confermata da vari pentiti di mafia tra i quali Tommaso Buscetta. Grazie alle rivelazioni di Buscetta e di Antonino Calderone sono emersi anche i legami tra il progetto golpista e l'organizzazione mafiosa. I due collaboratori hanno rievocato la vicenda nel corso del cosiddetto processo Andreotti. La loro audizione è stata riassunta in questi termini nella requisitoria dei pubblici ministeri Scarpinato e Lo Forte:

« Il primo a riferire la vicenda di queste trattative (già in data 3 dicembre 1984) è stato Tommaso Buscetta, il quale - anche in questo dibattimento, all'udienza del 9 gennaio 1996 - ha precisato che:
nel 1970 — nello stesso periodo di tempo in cui si svolgevano i campionati mondiali di calcio in Messico — egli si era recato a Catania insieme a Salvatore Greco "ciaschiteddu" (giunto appositamente dal Sud-America, ove soggiornava) per incontrare Giuseppe Calderone e Giuseppe Di Cristina. Nell'occasione, entrambi avevano preso alloggio in casa di "Pippo" Calderone, il quale frattanto - in una villetta di San Giovanni La Punta - ospitava il latitante Luciano Leggio. Oggetto di questo incontro era la discussione della proposta di partecipazione a un "golpe", avanzata dal principe Borghese; il progetto di "golpe" prevedeva un ruolo attivo degli affiliati all'organizzazione Cosa Nostra, a cui Tommaso Buscetta sarebbe stata affidata la "gestione" del territorio ricompreso nel mandamento di ciascuna famiglia mafiosa, per «calmare e far vedere al popolo siciliano che noi eravamo d'accordo, ognuno per la sua sfera di influenza che avevamo nelle nostre terre»;

in contropartita del ruolo attivo di Cosa Nostra, il principe Borghese aveva offerto la revisione di molti processi in corso a carico di esponenti dell'organizzazione criminale, facendo un particolare riferimento al "processo Rimi" (si rammenti che, in quel momento, i due Rimi erano già stati condannati all'ergastolo anche in Appello). Al progetto di "golpe" era interessata la Massoneria, e l'allora Capitano dei Carabinieri Giuseppe Russo — anch'egli massone — era informato del tentativo insurrezionale e avrebbe avuto, anzi, il compito di arrestare il Prefetto di Palermo; il principe Borghese — in caso di accettazione della proposta di partecipazione al "golpe" da parte del vertice di Cosa Nostra — avrebbe richiesto un elenco di tutti gli uomini d'onore partecipanti alle operazioni golpiste o — in subordine — avrebbe voluto che durante l'insurrezione armata gli uomini d'onore si rendessero riconoscibili agli altri golpisti mediante una fascia di colore verde da portare al braccio; proprio queste ultime richieste del principe Borghese avevano indotto i partecipanti alla riunione di Catania (Buscetta, Leggio, Giuseppe Calderone, Salvatore Greco) a diffidare della proposta e a esprimere disinteresse; tuttavia, poiché una delle contropartite all'intervento di Cosa Nostra offerte dal principe Borghese riguardava proprio la revisione del "processo Rimi", i convenuti avevano deciso di coinvolgere nella decisione definitiva Gaetano Badalamenti, ben consapevoli di quanto egli avesse a cuore la sorte del cognato Filippo e del di lui padre, già condannati all'ergastolo. Per questo motivo avevano stabilito di incontrare il Badalamenti a Milano, nei cui pressi egli si trovava in soggiorno obbligato; in occasione dell'incontro di Milano — al quale, insieme a Buscetta, avevano partecipato Salvatore Greco "Ciaschiteddu", Salvatore Riina, Gerlando Alberti e Giuseppe Calderone — pure Riina aveva apertamente espresso il proprio dissenso. Al termine dell'incontro — nel quale si era convenuto di rifiutare l'offerta — alcuni dei partecipanti, tra cui lo stesso Buscetta, si erano allontanati con una vettura ed erano stati fermati e identificati dalla Polizia, sfuggendo all'arresto perché muniti di documenti falsi (25 giugno 1970); tuttavia, la famiglia Rimi aveva autonomamente continuato a interessarsi del progetto di "golpe", tanto che Natale Rimi — figlio di Vincenzo Rimi, a cui premeva la revisione del processo a carico del padre — era tra coloro che nella notte tra il 7 e l'8 dicembre del 1970 si erano recati a prendere le armi in una caserma militare di Roma; questo dettaglio era stato riferito al Buscetta da Gaetano Badalamenti; egli aveva saputo, comunque, del fallimento del tentativo insurrezionale, bloccato in extremis perché in quel giorno o in quel periodo c'era una flotta russa nel Mediterraneo e agli americani questo non piaceva. Quindi era stata rimandata a nuova data, senza che poi più si fece, perché la flotta russa era presente nel Mediterraneo:

Le circostanze esposte da Tommaso Buscetta circa la connessione tra il "processo Rimi" e le trattative riguardanti l'eventuale partecipazione di Cosa Nostra al "golpe Borghese", sono state pienamente e analiticamente confermate dal collaboratore di giustizia Antonino Calderone, il quale — all'udienza del 17 settembre 1996 — ha riferito che: vi erano state varie riunioni tra gli esponenti di vertice di Cosa Nostra per valutare la proposta del principe Valerio Borghese di una partecipazione dell'organizzazione mafiosa al golpe (ci sono state tante riunioni... c'è stato anche il discorso del golpe Borghese, ne hanno parlato... Valerio Borghese voleva parlare con delle persone, esponenti della mafia della Sicilia... ne hanno parlato, ne hanno discusso e poi si è arrivato alla determinazione che qualcuno ci andava a parlare); suo fratello Giuseppe Calderone, all'uopo prescelto dall'organizzazione, si era quindi incontrato a Roma con il principe Borghese; questi voleva conoscere i nomi degli affiliati all'organizzazione, e offriva in cambio la revisione dei processi di Rimi e di Luciano Leggio (Volevano i nomi... si è chiesto in contropartita che si dovevano fare la revisione dei processi di Rimi e di Luciano Liggio... E questo è stato accordato, dice: noialtri... facciamo la revisione dei processi; però, dopo che ci insediamo, non è che dovete continuare a fare dei reati, perché poi vi arrestiamo noialtri...); Quello che spingeva fortissimo era Gaetano Badalamenti (Gaetano Badalamenti avrebbe fatto il patto con il diavolo per potere risolvere questo processo di suo cognato e del padre di suo cognato... avrebbe fatto la "qualunque", ha schiacciato tutti i bottoni, voleva risolvere questo processo in qualsiasi modo e in qualsiasi maniera); ma anche tutta Cosa Nostra si muoveva intorno al processo Rimi; Le trattative non avevano avuto esito positivo; e tuttavia Natale Rimi aveva continuato a muoversi, aveva toccato tutte le pedine, si era fatto trasferire a Roma, e aveva avuto un ruolo personale nel fallito golpe. »

Il processo e l'assoluzione di tutti gli imputati

Il 30 maggio 1977 cominciò il processo per il golpe a 68 imputati. Remo Orlandini dichiarò che la notte dell'8 dicembre, dopo l'avvio dell'operazione, ricevette una telefonata da Borghese il quale gli ordinava di rientrare, ma il motivo del contrordine era rimasto sconosciuto. Il ruolo di Adriano Monti fu invece quello di fare da "mediatore" per accertare il gradimento o meno del golpe in ambienti esteri.
Grazie al Freedom of Information Act, nel 2004 si è scoperto infatti che il piano di Borghese era noto al governo degli Stati Uniti; Monti era in collegamento con l'ambasciata americana attraverso Hugh Hammond Fenwich, il quale, subito dopo l'arresto di Monti, fuggì negli USA con un aereo appositamente predisposto. Monti, inoltre, si recò a Madrid per incontrare il tedesco Otto Skorzeny, amico di Borghese, che aveva preso parte alla liberazione di Mussolini il 12 settembre 1943.
L'incontro fu necessario per confermare l'"avallo" statunitense al golpe, che fu dato, a condizione però che fosse assicurato il coinvolgimento di un personaggio politico italiano "di garanzia". Il nome indicato fu quello di Giulio Andreotti, che sarebbe dovuto diventare una sorta di presidente "in pectore" del governo post-golpe. Monti tuttavia non seppe se Andreotti fosse al corrente dell'indicazione statunitense. Venne accertato che la colonna delle guardie forestali, comandata dal capitano Berti, da Rieti si diresse verso Roma, arrestandosi sulla via Olimpica. Questa marcia venne in seguito giustificata come «una coincidenza».
Il processo per il fallito golpe si concluse in secondo grado in Corte d'Assise d'appello il 29 novembre 1984 con una complessiva assoluzione. I giudici disposero l'assoluzione di tutti i 46 imputati dall'accusa di cospirazione politica («perché il fatto non sussiste»), aggiungendo che tutto ciò che era successo non era che il parto di un «conciliabolo di 4 o 5 sessantenni». La sentenza, riformando completamente la decisione di primo grado, si limitava per il resto a ridurre le condanne che erano state inflitte nel luglio del 1978 ad alcuni imputati minori per il reato di detenzione e porto di armi da fuoco.

Cultura popolare

Una feroce caricatura del tentativo di golpe viene fatta nel 1973 da Mario Monicelli con il suo film Vogliamo i colonnelli, nel quale si prefigura un colpo di Stato da attuare in emulazione dell'omologo fatto greco, e con l'appoggio del servizio segreto greco. Tra i personaggi compare, durante le varie fasi del tentativo un ardito ma fuori dal tempo colonnello reduce della seconda guerra mondiale e un generale dell'aeronautica completamente svanito (nei panni equivalenti al ruolo di Borghese), oltre a un gruppo di congiurati da operetta.
L'anno successivo è il fumettista Max Bunker, nel numero 60 di Alan Ford, intitolato programmaticamente "Golpe", a narrare come i servizi segreti statunitensi, preoccupati per l'esito delle elezioni che minaccia di far salire al potere dei "sovversivi", organizzano, col volenterosissimo aiuto di "tre illustri membri del governo in carica", un colpo di Stato a "Penisolandia".
Anche Rino Gaetano, infine, nella canzone La donna mia - Scusa Mary - inclusa nell'album E io ci sto (1980) farà cenno al golpe col verso:

« e mentre la forestale tenta il golpe alla Rai / c'era stato un concerto all'isola di Wight »

Gli accadimenti del golpe borghese sono stati ricostruiti anche nella commedia teatrale "Pane e golpe" - La lunga notte del 7 dicembre 1970 di Marco Boccia messa in scena, per la regia di Roberto Fei, al Teatro Belli di Roma a 40 anni esatti dagli avvenimenti.