venerdì 7 novembre 2014

i promessi sposi



da Wikipedia:

« Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; »

(I promessi sposi, incipit)

 è un celebre romanzo storico di Alessandro Manzoni, ritenuto il più famoso e il più letto tra quelli scritti in lingua italiana. Preceduto dal Fermo e Lucia, spesso considerato romanzo a sé, fu edito in una prima versione nel 1827 (detta edizione ventisettana); rivisto in seguito dallo stesso autore, soprattutto nel linguaggio, fu ripubblicato nella versione definitiva fra il 1840 e il 1841-42 (edizione quarantana).

Ambientato dal 1628 al 1630 in Lombardia durante il dominio spagnolo, fu il primo esempio di romanzo storico della letteratura italiana. Secondo un'interpretazione risorgimentista, il periodo storico era stato scelto da Manzoni con l'intento di alludere al dominio austriaco sul nord Italia. Quella che Manzoni vuole descrivere è la società italiana di ogni tempo, con tutti i suoi difetti che tuttora mantiene.

Il romanzo si basa su una rigorosa ricerca storica e gli episodi del XVII secolo, come ad esempio le vicende della Monaca di Monza e la grande peste del 1629-1631, si fondano tutti su documenti d'archivio e cronache dell'epoca. Manzoni per il suo romanzo prende come base la religione cattolica, infatti, uno dei "personaggi" principali che viene nominato raramente all'interno della vicenda (anche se importantissimo se si vuole capire l'aspetto religioso) è la Provvidenza, la mano di Dio che aiuta e che cerca di riportare l'umanità sulla via del bene. Si sbaglia quando si considerano Renzo e Lucia ( i personaggi principali del romanzo) unici protagonisti.

I protagonisti si possono dividere in tre gruppi:

Protagonista storico: Il secolo (1600). Manzoni tesse il suo racconto su una base di fatti realmente accaduti durante questo secolo.
Protagonista religioso: La Provvidenza, la mano di Dio.
Protagonisti materiali: Renzo Tramaglino e Lucia Mondella (i "promessi sposi" del titolo).
Il romanzo di Manzoni viene considerato non solo una pietra miliare della letteratura italiana, ma anche un passaggio fondamentale nella nascita stessa della lingua italiana. Nei dialoghi, riporta anche diversi esempi di parlato spontaneo non ammissibili nella lingua standard, tra cui il frequente uso dell'anacoluto.

L'opera

Quel ramo del lago di Como...
È considerata l'opera più rappresentativa del Risorgimento e del romanticismo italiano e una delle massime opere della letteratura italiana. Dal punto di vista strutturale è il primo romanzo moderno nella storia di tutta la letteratura italiana. L'opera ebbe anche un'enorme influenza nella definizione di una lingua nazionale italiana.

Considerato principalmente un romanzo storico, in realtà l'opera va ben oltre i ristretti limiti di tale genere letterario: Manzoni infatti, attraverso la ricostruzione dell'Italia del Seicento, non tratteggia soltanto un grande affresco storico, ma prefigura degli evidenti parallelismi con i processi storici di cui era testimone nel suo tempo, non limitandosi ad indagare il passato ma riflettendo su costanti 'umane' - culturali, psicologiche, spirituali, sociali, politiche - e tracciando anche un'idea ben precisa del senso della storia, e del rapporto che il singolo ha con gli eventi storici che lo coinvolgono.

È al tempo stesso romanzo di formazione (si veda in particolare il percorso umano di Renzo), ma per alcune ambientazioni e vicende presenti (la Monaca di Monza, il rapimento di Lucia segregata poi nel castello), ha anche caratteristiche che lo possono accomunare ai romanzi gotici sette-ottocenteschi. Il romanzo tuttavia è anche e soprattutto filosofico, profondamente cristiano, dominato dalla presenza della Provvidenza nella storia e nelle vicende umane. Il male è presente, il gioco dei contrapposti egoismi genera effetti a volte disastrosi nella storia, ma Dio non abbandona gli uomini, e la fede nella Provvidenza, nell'opera manzoniana, permette di dare un senso ai fatti e alla storia dell'uomo.

« Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. »

((I promessi sposi, cap. XXXVIII))

In particolare il romanzo ha un suo punto di forza nella scelta e nella raffigurazione dei personaggi, resi tutti con grande forza narrativa, scolpiti a tutto tondo dal punto di vista psicologico e umano, tanto che alcuni di essi sono diventati degli stereotipi umani, usati ancora oggi nel linguaggio comune (si pensi ad esempio a un "don Abbondio" o alla figura di "un Azzeccagarbugli" o di una "Perpetua": vedi a tale proposito la sezione Frasi e personaggi proverbiali). Una rappresentazione psicologica così accurata dei suoi personaggi fa sì che, salvo poche eccezioni, quasi nessuno di essi sia completamente "positivo" o "negativo".

Anche il malvagio trova un'occasione di umanità e redenzione, così come anche il personaggio positivo, quale ad esempio Renzo, non è immune da difetti, azioni violente e riprovevoli ed errori anche gravi. La stessa Lucia viene tacciata spesso come egoista e addirittura solipsista, e non sempre a torto: il discorso che padre Cristoforo fa alla giovane al Lazzaretto, benché paterno e benevolo, è durissimo.

Lo stesso Padre Cristoforo, il personaggio forse più positivo del romanzo assieme al cardinale Federigo Borromeo (e anch'egli non è esente da tragici errori, come si vede dal Romanzo stesso e dalla Colonna Infame), ha anche lui una grave macchia nel suo passato. È anche questa caratteristica quindi a consentire al romanzo di elevarsi ben al di sopra del livello medio dei romanzi storici e gotici dell'Ottocento. La maestria del Manzoni nel tratteggiare i suoi personaggi emerge soprattutto nei dialoghi, scritti con sottile cura, che spesso sono i veri rivelatori dei personaggi, della loro psicologia e delle loro motivazioni.

La stesura e le edizioni

Fermo e Lucia

La prima idea del romanzo risale al 24 aprile 1821, quando Manzoni cominciò la stesura del Fermo e Lucia, componendo in circa un mese e mezzo i primi due capitoli e la prima stesura dell'Introduzione. Interruppe però il lavoro per dedicarsi al compimento dell'Adelchi, al progetto poi accantonato della tragedia Spartaco, e alla scrittura dell'ode Il cinque maggio. Dall'aprile del 1822 il Fermo e Lucia fu ripreso con maggiore lena e portato a termine il 17 settembre 1823 (sarebbe stato pubblicato nel 1915 da Giuseppe Lesca col titolo "Gli sposi promessi"). In questa prima redazione è presente, in nuce, la trama del romanzo.

Tuttavia, il Fermo e Lucia non va considerato come laboratorio di scrittura utile a preparare il terreno al futuro romanzo, ma come opera autonoma, dotata di una struttura interna coesa e del tutto indipendente dalle successive elaborazioni dell'autore. Rimasto per molti anni inedito, il Fermo e Lucia viene oggi guardato con grande interesse. Anche se la tessitura dell'opera è meno elaborata di quella de I promessi sposi, nei quattro tomi del Fermo e Lucia si ravvisa un romanzo irrisolto a causa delle scelte linguistiche dell'autore che, ancora lontano dalle preoccupazioni che preludono alla terza ed ultima scrittura dell'opera, crea un tessuto verbale ricco, dove s'intrecciano e si alternano tracce di lingua letteraria, elementi dialettali, latinismi e prestiti di lingue straniere. Nella seconda Introduzione a Fermo e Lucia, l'autore definì la lingua usata

« un composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un po' anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall'una o dall'altra di esse. »

Anche i personaggi appaiono meno edulcorati e forse più pittoreschi di quella che sarà la versione definitiva. Sullo sfondo la Lombardia del XVII secolo è dipinta come scenario non pacificato, il cui potere politico coincide con l'arbitrio del più forte, la cui ragione (come insegna La Fontaine) è sempre la migliore. Romanzo dell'arbitrio e della violenza, mostra l'eterna oppressione dei potenti nei confronti degli "umili", riprendendo il tema già presente nell'Adelchi dei "due popoli", quello degli oppressi e quello degli oppressori, vicenda eterna di ogni tempo.

La Ventisettana

Una seconda stesura dell'opera (la cosiddetta Ventisettana, che è la prima edizione a stampa) fu pubblicata da Manzoni nel 1827, con il titolo I promessi sposi, storia milanese del sec. XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, e riscosse notevole successo. La struttura più equilibrata (quattro sezioni di estensione pressoché uguale), la decisa riduzione di quello che appariva un "romanzo nel romanzo", ovvero la storia della Monaca di Monza, la scelta di evitare il pittoresco e le tinte più fosche a favore di una rappresentazione più aderente al vero sono i caratteri di questo che è in realtà un romanzo diverso da Fermo e Lucia.

Manzoni non era, tuttavia, soddisfatto del risultato ottenuto, poiché il linguaggio dell'opera era ancora troppo legato alle sue origini lombarde. Nello stesso 1827 egli si recò, perciò, a Firenze, per risciacquare - come disse - i panni in Arno, e sottoporre il suo romanzo ad un'ulteriore e più accurata revisione linguistica, ispirata al dialetto fiorentino considerato lingua unificatrice.

La Quarantana

Tra il 1840 e il 1842, Manzoni pubblicò quindi la terza ed ultima redazione de I promessi sposi, la cosiddetta Quarantana, cui oggi si fa normalmente riferimento. Il proliferare di edizioni abusive, dovuto al grande successo dell'opera, spinse Manzoni a dotare l'edizione di alcune attrattive in più: un corredo di illustrazioni, l'utilizzo della carta e dell'inchiostro migliori e l'aggiunta, in allegato, di un romanzo del tutto nuovo, Storia della colonna infame. Per le illustrazioni, Manzoni pensò dapprima a Francesco Hayez, che ne inviò due a Parigi, «ove vennero incise nel bosso da Lacoste, e, per parere concorde, furono scartate.

In seguito l'Hayez declinò l'offerta adducendo come scusa che un simile lavoro gli avrebbe rovinata la vista». Lo scrittore chiese quindi aiuto in Francia all'amica Bianca Milesi Mojon, che si rivolse al pittore francese Louis Boulanger. Nemmeno questo tentativo, testimoniato da un solo disegno, si rivelò fruttuoso. Quando Francesco Gonin, giovane e promettente pittore piemontese, fu ospitato a Milano da Massimo d'Azeglio, il Manzoni riconobbe in lui la persona giusta. Concluso l'accordo, Gonin si mise all'opera.

Il suo lavoro convinse pienamente l'autore, che con il Gonin intrattenne nei primi mesi del 1840 una fitta corrispondenza. Il rapporto fra i due è di grande intesa, lo scrittore guida la mano del pittore nella composizione di questi quadretti. La forza espressiva delle litografie è notevole, al lettore si rivela un mondo vastissimo di volti e fisionomie sempre diverse; personaggi che passano dal solenne al grottesco, dall'ascetico al torbido, in una composizione che non trascura mai una certa accattivante ironia. Su quest'ultimo punto si consideri, ad esempio, la vignetta che chiude l'introduzione, dove è di scena lo stesso scrittore, in camicione da notte e pantofole, mentre sfoglia davanti ad un rassicurante camino un librone, che potrebbe essere tanto il resoconto secentesco della vicenda, quanto il romanzo che chi legge ha sotto gli occhi in quel momento.

La più recente critica manzoniana, si pensi solamente a Ezio Raimondi o a Salvatore Silvano Nigro, ha lungamente sottolineato il valore esegetico di questo apparato di immagini, vero e proprio paratesto alla narrazione delle vicende matrimoniali dei due protagonisti. Le moderne edizioni, che non si rifanno ai criteri della stampa anastatica, privano i lettori di uno strumento essenziale alla comprensione del testo. Oggi sfugge anche ai più colti fruitori dell'opera di Manzoni che uno dei nodi principali de I promessi sposi consiste proprio nel rapporto che intercorre fra lettera e immagine.

Aver trovato l'illustratore non era tuttavia sufficiente: era necessario anche un buon incisore. Per tramite del pittore e incisore Giuseppe Sacchi, Manzoni riuscì a far venire dalla Francia i transalpini Bernard e Pollet e l'inglese Sheeres. La direzione del lavoro fu affidata al Gonin, incaricato di valutare e approvare le incisioni. Siccome queste ultime andavano a rilento, l'autore fece pressione sul Sacchi perché venissero inviati d'oltralpe altri collaboratori, e fu accontentato con l'arrivo dei francesi Victor e Loyseau. A questo punto Manzoni poté pensare al contratto con gli stampatori Redaelli e Guglielmini, firmato il 13 giugno 1840.

Secondo un tipico cliché della narrativa europea fra Settecento e Ottocento che l'influenza de I promessi sposi avrebbe rilanciato, il narratore prende le mosse da un manoscritto anonimo del XVII secolo, che racconta la storia di Renzo e Lucia. Nulla sappiamo dell'autore di questo manoscritto, salvo che ha conosciuto da vicino i protagonisti della vicenda, e non si esclude che lo stesso Renzo possa aver reso edotto questo curioso secentista lombardo della sua storia. Il tòpos della trascrizione della vicenda narrata da un testo o trascritta dalla voce diretta di uno dei protagonisti permette all'autore di giocare sull'ambiguità stessa che sta alla base del moderno romanzo realistico-borghese, ovvero il suo essere un componimento di fantasia che, spesso, non disdegna di proporsi ai suoi lettori come documento storico reale ed affidabile.

Conclude il testo la Storia della colonna infame, in cui Manzoni ricostruisce il clima di intolleranza e ferocia in cui si svolgevano gli assurdi processi contro gli untori, al tempo della peste raccontata del romanzo. Secondo alcuni studiosi, non sarebbe un'appendice ma il vero finale del romanzo, come dimostrerebbe l'impaginazione stessa, stesa dallo stesso Manzoni. Interessante anche l'analisi narratologica dell'opera manzoniana, da cui si comprende la distanza esistente fra narratore ed autore.

La struttura del romanzo

Nella narrazione l'intreccio si discosta poco dalla fabula e solo quando la trama lo richiede. Ciò accade per esempio quando l'autore tratta parallelamente le vicende di Renzo e Lucia, le vicende storico-sociali (carestia, guerra, peste) o quando compie delle analessi per le biografie di fra Cristoforo (capitolo IV), della monaca di Monza (cap. IX-X), dell'Innominato (Cap. XIX) e del cardinale Federigo Borromeo (Cap. XXII). L'Autore poi, per narrare le vicende, si affida ad un narratore eterodiegetico (esterno) e onnisciente il quale conosce tutto della storia.

Il narratore partecipa ai fatti, li spiega, li commenta, inserendovi proprie considerazioni e riflessioni, usando spesso anche l'ironia. Alcune volte sono presenti altre voci narranti di secondario grado, in particolare quella dell'ipotetico autore del manoscritto seicentesco. Il ritmo narrativo è costituito da rallentamenti e accelerazioni con l'uso di diverse tipologie di sequenze (narrative, dialogiche, espositive, descrittive, riflessive).

Genesi interna e genesi esterna

La genesi interna del romanzo I promessi sposi è costituita dalle idee di partenza, dall'ideologia di base che la poetica di Manzoni doveva propagandare. È stata evinta soprattutto grazie alle lettere che lo stesso scrisse mentre stava preparando le diverse edizioni. Il romanzo era fondato, infatti, su tre perni principali:

Il vero per soggetto: l'autore mette al centro la ricostruzione storica degli eventi che caratterizzarono quei luoghi a quel tempo.
L'utile per scopo: l'opera deve mirare ad educare l'uomo ai valori che Manzoni vuole diffondere.
L'interessante per mezzo: l'argomento del romanzo deve essere moderno, popolare, e quindi avere forti legami con la realtà contadina ed operaia.
La genesi esterna, invece, comprende tutte le letture e gli autori che hanno ispirato Manzoni. Tra le principali abbiamo l'Ivanhoe di Walter Scott da cui l'autore prende l'ispirazione per la tipologia del romanzo che sarà a sfondo storico, la Storia Milanese (del 1600) di Giuseppe Ripamonti, da cui l'autore prende, appunto, la maggior parte degli avvenimenti storici che verranno intrecciati con le vicende dei personaggi. Altre fonti sono le opere dell'economista Melchiorre Gioia e del cardinale Federico Borromeo al cui scritto De Pestilentia Manzoni si ispirò per l'episodio della madre di Cecilia.

Secondo il critico Giovanni Getto una fonte per l'opera manzoniana potrebbe essere stata anche la Historia del Cavalier Perduto, romanzo erotico - cavalleresco del XVII secolo scritto dal vicentino Pace Pasini. Il prof. Claudio Povolo dell'Università di Venezia con recenti documentati studi ha dimostrato che una ulteriore fonte del romanzo potrebbe essere la storia di Paolo Orgiano, signorotto di Orgiano (Vicenza), violento, rapitore di donne, condannato al carcere a vita nel processo del 1607. Molte sono le analogie con la vicenda descritta nei Promessi sposi.

Molti personaggi e situazioni del romanzo manzoniano presentano analogie con precedenti opere della letteratura europea. L'argomento è trattato molto esaurientemente anche dal critico Giovanni Getto nel suo libro Manzoni europeo. Per limitarsi ad alcuni cenni, c'è da rilevare una evidente analogia fra il capolavoro manzoniano e i romanzi dello scozzese Walter Scott iniziatore del romanzo storico. Manzoni però elimina gli aspetti favolosi presenti nelle opere di Scott (per esempio, in Ivanhoe nel primo capitolo si parla del "favoloso dragone Wantley" e di "riti della superstizione druidica" ).

Esistono rapporti con il gusto inglese del “quotidiano”, tipico del romanzo borghese dell'Inghilterra sette-ottocentesca (Samuel Richardson, Jane Austen, Thomas Hardy, William Thackeray, per citare gli autori più noti), gusto trasferito dal Manzoni sul mondo popolare. Riguardo all'Innominato, sono state notate analogie col mito satanico del “grande ribelle”, personaggio titanico e individualista presente in certi poeti romantici inglesi e tedeschi come Schiller e Byron (ad esempio ne I Masnadieri di Schiller e ne Il Corsaro di Byron).

Egidio e, in minor misura, don Rodrigo richiamano gli eroi libertini del Settecento francese, moralmente anticonformisti, dissacratori della tradizione e rinnegatori della virtù nell'esaltazione del desiderio, degli istinti naturali, come i protagonisti dei romanzi del Marchese De Sade (Storia di Juliette, Justine o le disavventure della virtù). Lucia è la giovane innocente e virtuosa, perseguitata come Clarissa Harlowe dell'omonimo romanzo di Samuel Richardson, inoltre il suo rapimento si può avvicinare a quello di lady Rowena descritto da Walter Scott in Ivanhoe. Il rapimento di Lucia e la sua prigionia nel tetro castello dell'Innominato nonché la descrizione del castello e del suo ambiente (capitolo XX) richiamano analogie con il romanzo gotico, il genere “nero” inglese del Settecento: The monk di Matthew Gregory Lewis, The castle of Otranto di Horace Walpole, The Mysteriers of Udolpho di Ann Radcliffe.

Per la storia di Gertrude si è trovato un riferimento nel romanzo La monaca di Diderot: è la storia della monacazione forzata di una figlia della ricca borghesia. Nel romanzo di Diderot c'è però una avversione contro le istituzioni ecclesiastiche, risalente all'Illuminismo, che è assente in Manzoni. Inoltre si rileva una descrizione più positiva in Diderot in cui manca la cupezza tragica di Manzoni. Sono riscontrabili echi dal romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau: la descrizione del paesaggio del lago di Ginevra (v. il lago di Como nel romanzo manzoniano), la figura di Giulia (lettera XVIII, III parte) che richiama quella di Lucia. Le avventure di Renzo sono accostabili a quelle del picaro dei romanzi picareschi spagnoli del XVI e XVII secolo.

Gli umili e la Provvidenza

Il Cancelliere Ferrèr che acquieta la folla di Milano in tumulto, promettendo pane e giustizia
I Promessi Sposi sono una vicenda di umili. Si attua un capovolgimento della storia: gli umili sono i veri protagonisti. Lucia Mondella è una contadina umile, riservata e dotata di grande fede religiosa. Renzo Tramaglino ha le doti di un uomo di popolo: bontà, giustizia, religiosità, liberalità, ingenuità. Gli umili sono i protagonisti della storia, non come eserciti o gruppi sociali, ma ciascuno per sé, con il suo gruzzolo di sentimenti e di idee e le sue opere buone. Intorno ai due protagonisti, Renzo e Lucia, è presente un mondo di esseri semplici, contadini, artigiani, barcaioli, barrocciai, sempre pronti al bene nei pensieri e nelle opere.

C'è, nel romanzo, la vita del villaggio, con i suoi interni squallidi e le campagne, bruciate dalla siccità. Ogni vicenda storica è vista in quanto aderisce alla vita degli umili, li agita, procura loro sofferenza. È questa novità di un giudizio morale che esce da tutte le norme e le convenzioni ed attua il paradosso del Vangelo, che dà al romanzo la sua sostanza religiosa e rivoluzionaria. Il romanzo ha uno sfondo popolano dove gli umili sono solidali nella sventura. La stessa pietà per gli oppressi vi è contenuta, dissimulata dal sorriso con cui sono contemplate le loro debolezze ed errori. Non vi sono solenni quadri storici, ma è presente la fisionomia varia e minuta di un'epoca.

I grandi personaggi sono in funzione subordinata: protettori dei deboli (Federigo Borromeo, fra Cristoforo) o incarnano gli aspetti negativi di un secolo (don Rodrigo, Azzeccagarbugli, conte Attilio, conte Zio, padre provinciale). I reggitori del destino dei popoli sono macchiette insignificanti: capitani di ventura, sovrani, ministri, il conte duca d'Olivares, Ferrer, il vicario di provvisione. Il romanzo manzoniano è stato sempre considerato dalla critica tradizionale il romanzo della Provvidenza divina. L'intervento di Dio è vivo in tutto il romanzo, ma avvertito con la fede semplice degli umili: "quel che Dio vuole, Lui sa quel che fa; c'è anche per noi"; "lasciamo fare a Quel lassù"; "tiriamo avanti con fede, Dio ci aiuterà".

L'opera di Dio si sente soprattutto negli affanni e nelle tribolazioni; essa è una presenza paterna, amorosa e severa. "La provida sventura del coro di Ermengarda (Adelchi), il Dio che atterra e suscita che affanna e che consola dell'ode napoleonica, sono anche il filo conduttore la trama segreta del romanzo, ma espressi in termini più delicati, familiari, popolareschi." Nell'epilogo dell'Addio monti (cap. VIII) l'autore scrive: "Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto, e non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una certa e più grande". Il "sugo" di tutta la storia del romanzo (cap. XXXVI) sta nelle parole di fra Cristoforo a Renzo e Lucia: "Ringraziate il cielo che v'ha condotti a questo stato, non per mezzo dell'allegrezze turbolente e passeggere, ma co' travagli e tra le miserie, per disporvi ad un'allegrezza raccolta e tranquilla".

La provida sventura è il dolore che redime, che purifica ed eleva spiritualmente l'animo. La Provvidenza è intesa come una fiducia in Dio e nella sua Grazia, un invito ad affidarsi alla Fede e agli insegnamenti cristiani di fronte alle avversità della vita:" È una delle facoltà singolari ed incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa" (cap. X).

"Il pessimismo cristiano di Adelchi si è schiarito ed intenerito in questo dono di fiducia e di attesa in questa luce di allegrezza raccolta e tranquilla".Tuttavia a questa chiave di lettura tradizionale del romanzo, che vede appunto nella "Provvidenza" la vera protagonista della vicenda, si contrappone un'altra, invero molto stimolante, soprattutto perché foriera di riflessioni ancora di scottante attualità. Avanzata dallo scrittore Leonardo Sciascia (1920-1989), uno dei massimi autori italiani del secolo scorso, ma in effetti già fatta propria dal critico salernitano Angelandrea Zottoli, uno dei maggiori e nello stesso tempo misconosciuti studiosi manzoniani- nel suo Il sistema di don Abbondio, (Laterza, Bari 1933) - tale chiave di lettura, pur senza ovviamente voler negare il rilevante aspetto religioso dell'opera, vede nel romanzo soprattutto "un disperato ritratto dell'Italia", del Seicento, dei tempi del Manzoni e dei giorni nostri, di sempre (L. Sciascia, «Corriere della Sera», 3-8-1985).

Secondo questa ottica, dunque, il vero protagonista del romanzo sarebbe Don Abbondio, proprio il personaggio "perfettamente refrattario alla Grazia e che della Provvidenza si considera creditore" (L. Sciascia, Cruciverba, Einaudi 1983 - Adelphi 1998). In effetti, simbolo di grettezza ed egoismo portato a livelli sublimi, il curato manzoniano finisce proprio per identificare il prototipo dell'italiano peggiore, menefreghista, convinto che la regola principe alla base della civile convivenza sia quella di farsi gli affari propri anche di fronte alle più palesi iniquità, atteggiamento mentale e di vita che finisce con il favorire le prepotenze di chi calpesta leggi e persone emarginando altresì in maniera micidiale chi tale andazzo vuol combattere.

Insomma quel tipo di italiano ancora oggi lungi dall'essere stato messo all'angolo e che già nel finale dei Promessi sposi appare, secondo Sciascia, come il vero vincitore, perché Don Abbondio se la cava allegramente senza pagare dazio a nessuno, tetragono alle sofferenze di Renzo e Lucia, ma anche ai rimproveri del cardinale Borromeo che converte sì il terribile Innominato, ma non il curato con cui predica praticamente al vento! E proprio l'esigenza di non continuare a subire il "sistema di Don Abbondio", secondo Sciascia, costituisce il vero motivo per cui, alla fine del romanzo, a tempesta placata, Renzo e Lucia decidono di abbandonare, stavolta spontaneamente, il loro paese (L. Sciascia, Cruciverba, op. cit): perché quel sistema, a dispetto del lieto fine, "è uscito temprato dalla vicenda" (L. Sciascia op. cit.), quel sistema in cui accanto a Don Abbondio fanno spicco i "Ferrer dal doppio linguaggio", gli "Azzeccagarbugli", i Conti Zio,i Padri Provinciali" e più in generale "le coscienze che facilmente si acquietano"(ibidem).

In quanto romanzo storico e "sociale", i Promessi sposi delineano un quadro completo delle gerarchie tra le diverse classi sociali nella società lombarda del Seicento e delle attività che le caratterizzano. L'autore scrive (cap. I): " Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici una corporazione". Dato che il romanzo ha un carattere volutamente popolare, Manzoni è attento a figure della piccola borghesia (mercanti e artigiani) e degli strati più umili della società (contadini e operai).

Il paesaggio

Il Manzoni ha la facoltà sovrana del poeta di vedere e suggerire, senza guastarle esprimendole, le segrete affinità tra l'anima e il mondo e le misteriose influenze dell'uno sull'altra, è tra i nostri poeti uno di quelli che ebbero più profondo e religioso il sentimento della natura e che in questa sentirono meglio Dio. Domina nello sfondo del romanzo il paesaggio familiare di Lombardia, con i suoi cieli, i suoi monti, le sue acque, la sua mite luce autunnale :"Quel cielo di Lombardia così bello quand'è bello, così splendido, così in pace" (Cap. XVII). Il paesaggio è calato nella realtà storica ed umana del romanzo. La sobrietà delle descrizioni è il risultato di uno scarnimento ricco di possibilità liriche ed evocative; i passi descrittivi sono trascrizioni di un momento di vita interiore. Il paesaggio è sempre smorzato e triste, in armonia con il tono del racconto.

L'autore non si diffonde in descrizioni paesistiche, tuttavia l'aria del paese natìo circola in tutti i capitoli, evocata dalle azioni degli uomini. Nei riquadri paesistici spesso s'insinua una musica elegiaca, che nasce dalla riverenza con cui il poeta si accosta agli aspetti della natura. In effetti, l'intero incipit dell'opera è una dettagliata descrizione del paesaggio del Lecchese, fino poi a inquadrare la figura di Don Abbondio, e quindi dei due bravi, puntando finalmente sulle persone anziché sui luoghi.

Manzoni segue la concezione, propria del Romanticismo, di un paesaggio proiezione di emozioni, sensazioni, stati d'animo dei personaggi. Per esempio il paesaggio è oggettivo e realistico nel primo capitolo ("Quel ramo del lago di Como.."); descritto con affettuosa nostalgia e profonda, accorata intimità da Lucia nell'"Addio ai monti...." (cap.VIII); pauroso e minaccioso nel bosco sull'Adda (cap. XVII) allorché l'animo di Renzo è pieno di timori, ansie, tensione e stanchezza; aspro, arido, minaccioso e incutente paura nella valle del castello dell'Innominato del quale rispecchia la personalità e lo stile di vita; diventando poi, parallelamente alla conversione dello stesso, un luogo di sicurezza in cui i "buoni" si possano rifugiare.

Trama

La finzione del manoscritto seicentesco

Il romanzo si apre, come già accennato in un precedente paragrafo, con una finzione letteraria: la trascrizione dell'inizio di un manoscritto (una "Historia") di un romanzo del Seicento, nello stile altisonante e ampolloso proprio della lingua del tempo ("questo dilavato e graffiato autografo"). In esso è scritto che mentre la Storia ufficiale si occupa solo dei grandi avvenimenti e dei personaggi famosi, il nostro Autore vuole raccontare la storia di umili persone del popolo. Tale finzione o "falso" letterario serve a inquadrare le vicende narrate in uno sfondo storico. Si crea così una duplice prospettiva nella quale vengono visti gli avvenimenti: una secondo i fatti narrati, attribuiti all'autore del manoscritto; l'altra secondo i commenti e le riflessioni del romanziere sulle vicende trattate.

Si tratta di un espediente già usato da altri autori: per esempio Walter Scott in Ivanhoe (un manoscritto anglonormanno), Jan Potocki nel Manoscritto trovato a Saragozza, Nathaniel Hawthorne ne La lettera scarlatta, Cervantes nel Don Chisciotte (il manoscritto in aljamiado di Cide Hamete Benengeli), Matteo Maria Boiardo nell'Orlando Innamorato, Ludovico Ariosto nell'Orlando furioso, Giacomo Leopardi nel preambolo al Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco nelle Operette morali. L'espediente verrà ripreso nel Novecento, tra gli altri, da Umberto Eco nel romanzo Il nome della rosa e, con una variante, ne Il cimitero di Praga.

Nel corso del romanzo vengono usati dal Manzoni degli asterischi, come in occasione di due analessi all'inizio del IV capitolo (biografia di padre Cristoforo) e all'inizio della biografia di Gertrude (capitolo IX). L'espediente, come scritto nell'Introduzione, è motivato dall'ipotetico autore del manoscritto con l'opportunità di attribuire un certo anonimato e una certa indefinitezza alla vicenda, per rispetto e prudenza nei riguardi di casate e personaggi che al tempo di quello scritto (il Seicento) potessero essere ancora vivi: ("questi asterischi vengono tutti dalla circospezione del mio anonimo") scrive Manzoni nel IV capitolo. Con questa premessa, il Manzoni, usando maliziosamente il fiacco espediente, ne fa automaticamente una caricatura.

Quel ramo del lago di Como

L'intonazione del passo iniziale è sentimentale e nostalgica, pur nella sua concretezza descrittiva. L'atteggiamento psicologico ed artistico di Manzoni è di chi rivede i luoghi cari della sua infanzia e li ricostruisce amorosamente in tutti i loro particolari. L'aggettivo dimostrativo iniziale (Quel) esprime con efficace evidenza il senso del ricordo. Nella descrizione c'è una pittoricità a larghe tinte che si fa via via sempre più minuziosa; nella solitudine dei luoghi è come il vagheggiamento dell'anima. Lo scrittore passa, con tecnica che si può dire cinematografica, dall'ampiezza ed indeterminatezza delle prime immagini (il ramo del lago "che volge a mezzogiorno", le "due catene non interrotte di monti") ad un successivo articolarsi di particolari, resi con immediatezza e freschezza quasi fotografiche.

C'è freschezza di acquerello nel quadro del lago e domina sempre il gusto dello spettacolo panoramico, un'atmosfera idillica di silenzio e di solitudine alpestre ("Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell'acqua, di qua lago....di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora......."). Il gusto dello spettacolo panoramico è per esempio ben evidente quando Manzoni scrive: " Il luogo stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa spettacolo d'ogni parte....". Lo scenario della natura si restringe poi per mostrarci il mondo irrequieto e travagliato degli uomini ("Per una di queste stradicciole tornava bel bello......").

Umberto Eco ha scritto: " Una delle osservazioni che mi rendono più felice è scoprire che Manzoni in questa pagina sta facendo del cinema. Manzoni ha deciso che la sua descrizione dell'ambiente deve procedere anzitutto per un movimento che un tecnico cinematografico chiamerebbe di zoom, è come se la ripresa fosse fatta da un aereo: cioè la descrizione parte come fatta dagli occhi di Dio, non dagli occhi degli abitanti. [....] La visione geografica, a mano a mano che procede dall'alto verso il basso, diventa visione topografica e include potenzialmente gli osservatori umani. Non appena questo avviene, la pagina compie un altro movimento, questa volta non di discesa dall'alto geografico al basso topografico, ma dalla profondità alla lateralità: sino ad arrivare a dimensioni umane, dove la carta si annulla nel paesaggio concreto. A questo punto l'ottica si ribalta, i monti vengono visti di profilo, come se finalmente li guardasse un essere umano a piedi".

Don Abbondio e i bravi

La vicenda è ambientata in Lombardia tra il 1628 e il 1630, al tempo della dominazione spagnola. I protagonisti sono Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, due giovani operai tessili che vivono in una località del lecchese, nei pressi del lago di Como, allo sbocco del fiume Adda. Il romanzo ebbe un impatto tanto forte sull'immaginario collettivo italiano che si volle per forza identificare il "paesello" dei Promessi Sposi e così, dopo i più capziosi ragionamenti, si scelsero due quartieri di Lecco, Olate ed Acquate che, ancora oggi, si contendono questo ruolo. Di fatto Manzoni non si riferiva a luoghi precisi e nel romanzo gli unici indicati chiaramente sono il quartiere lecchese di Pescarenico, dove si trovava il convento di Padre Cristoforo, e il castello della guarnigione spagnola, posto in riva al lago.

Ogni cosa è pronta per il matrimonio di Renzo e Lucia quando un signore del luogo, Don Rodrigo, scommette con il cugino Attilio che riuscirà ad esercitare lo jus primae noctis su Lucia. Perciò il curato del paese, don Abbondio, incaricato di celebrare il matrimonio, viene minacciato durante la sua solita passeggiata serale da due bravi di don Rodrigo, affinché non sposi i giovani. In preda al panico, don Abbondio cede subito. Il giorno dopo imbastisce delle scuse a Renzo per prendere tempo e rinviare il matrimonio, non esitando ad approfittare della sua ignoranza per utilizzare come spiegazione frasi in latino.

L'incontro tra fra Cristoforo e don Rodrigo

Renzo però, parlando con Perpetua, la domestica di don Abbondio, capisce che qualcosa non quadra e la costringe a rivelare la verità. Si consulta così con Lucia e con sua madre, Agnese, e insieme decidono di chiedere consiglio a un avvocato, detto Azzecca-garbugli; questi, inizialmente crede che Renzo sia un bravo, e come tale è disposto ad aiutarlo, ma appena capisce la situazione scaccia precipitosamente il giovane. Così i tre si rivolgono a padre Cristoforo, loro "padre spirituale", cappuccino di un convento poco distante. Il frate decide di affrontare don Rodrigo, e si reca al suo palazzo; ma quegli accoglie con malumore il frate, intuendo il motivo della visita; Cristoforo tenta di farlo recedere dal suo proposito, ma viene cacciato via in malo modo.

La forza evangelica di fra Cristoforo, straordinariamente accresciuta dalla provocazione, la sua semplice e terribile minaccia determinano nella coscienza addormentata di don Rodrigo un segno visibile di un remoto risveglio. La sua violenza persuasiva ed ispirata spalanca per un istante all'atterrito antagonista le porte della vera, autentica vita.

La notte degl'imbrogli e dei sotterfugi

Intanto Agnese propone ai due promessi un matrimonio a sorpresa, pronunciando davanti al curato le frasi rituali alla presenza di due testimoni. Con molte riserve da parte di Lucia, il piano viene accettato, quando fra Cristoforo annuncia il fallimento del suo tentativo di convincere don Rodrigo. Intanto don Rodrigo medita il rapimento di Lucia, e una sera alcuni bravi irrompono nella casa delle donne, che però trovano deserta: Lucia, Agnese e Renzo sono infatti a casa di don Abbondio per tentare di ingannarlo, ma falliscono, e si devono riparare al convento di fra' Cristoforo, perché frattanto vengono a sapere del tentato rapimento. Contemporaneamente fallisce anche il rapimento di Lucia da parte dei bravi che sono messi in fuga dal trambusto scoppiato nel villaggio. Il Manzoni, maestro di psicologia collettiva, ha schizzato qui alcuni temi che svolgerà nel grande affresco della sommossa milanese.

Secondo il Critico Geno Pampaloni, la notte degli imbrogli è costruita come una perfetta sinfonia. "Possiamo distinguere quattro tempi, diversi per ritmo e colore. Il capitolo comincia con un allegro temperato, da opera buffa.... prevale il comico che fa centro sulla figura di don Abbondio.[...] Il secondo tempo (apparizione dei due promessi e reazione di don Abbondio) è un buffo tempestoso [....] Poi esplode un tempo drammatico, incubi e paure si affastellano e si incrociano in un clima da tregenda: le campane a martello, la fuga, l'urlo di Menico nella casetta occupata dai bravi. E infine l'adagio finale, dolcissimo e solenne, dell'addio, traversando il lago, nella luce lunare della notte tornata disperatamente silenziosa e serena".

La fuga

Renzo, Lucia e Agnese giungono al convento di Pescarenico dove padre Cristoforo espone loro i suoi progetti: Renzo si rifugerà presso il convento dei cappuccini a Milano dove cercherà padre Bonaventura, mentre Lucia troverà aiuto dal padre guardiano del convento nei pressi di Monza. Il religioso ha già scritto una lettera per ognuno dei confratelli e le consegna ai tre.

L'Addio ai monti

Secondo quanto padre Cristoforo ha preordinato, Renzo, Lucia e Agnese scendono alle rive dell'Adda e salgono su una piccola barca. Lucia medita sull'addio ai monti. È una pagina permeata di spiritualità ed elegia. Domina fin dalle prime note un movimento verticale, che va dal cielo alla terra, per risalire di nuovo al cielo, e che è come un preludio all'ascensione spirituale contenuta nella chiusa.

Il pianto segreto di Lucia sulle cose più care che deve abbandonare si compone di un gesto che è tra i più belli che la poesia italiana ha saputo attribuire alle creature femminili. È la grande notte di Lucia, il suo paesaggio trepido e segreto: senza l'"Addio" Lucia non avrebbe mai rivelato la parte più gelosamente custodita del proprio cuore. Il notturno vigilante del lago è uno dei più belli di malinconia e serenità della poesia italiana.

In convento a Monza

Giunta al convento "pochi passi distante da Monza", Lucia viene accompagnata dal padre guardiano al convento di Monza dove vive Gertrude, la "signora" (la cui storia è ispirata a quella di suor Maria Virginia de Leyva) che prende la giovane sotto la sua protezione. Dopo l'incontro con Lucia, Manzoni racconta la biografia della monaca di Monza. Gertrude è figlia di un principe feudatario di Monza di cui il narratore, seguendo l'"Anonimo", tralascia il nome. Per conservare intatto il patrimonio del primogenito si era deciso prima ancora che nascesse che sarebbe entrata in convento. L'educazione della bambina è continuamente orientata a convincerla che il suo destino di monaca sia il più desiderabile.

Divenuta adolescente però, Gertrude comincia a dubitare di tale scelta. Tuttavia, un po' per timore, un po' per riconquistare l'affetto dei genitori, compie i vari passi previsti per diventare monaca. In convento soggiace alle attenzioni di Egidio, uno "scellerato di professione", in una relazione che avviluppa la "sventurata", colpevole non meno che vittima, in un gorgo di menzogne, intimidazioni, ricatti - proferiti e subiti - e complicità, anche nell'omicidio di una conversa che minacciava di far scoppiare lo scandalo rivelando la tresca.

I tumulti di Milano

Renzo, a Milano, non potendo subito ricoverarsi nel convento indicatogli da Fra' Cristoforo, dato che padre Bonaventura è in quel momento assente, rimane coinvolto nei tumulti scoppiati in quel giorno per il rincaro del pane. Renzo si fa trascinare dalla folla e pronuncia un discorso in cui critica la giustizia, che sta sempre dalla parte dei potenti. È tra i suoi ascoltatori un "birro" in borghese, che cerca di condurlo in carcere ma Renzo, stanco, si ferma in un'osteria, dove il poliziotto viene a conoscenza, con uno stratagemma, del suo nome. Andato via costui, Renzo si ubriaca e rivolge nuovi appelli alla giustizia agli altri avventori.

L'oste lo mette a letto e corre a denunciarlo per proteggere i propri interessi. Il mattino dopo Renzo viene arrestato ma riesce a fuggire e si ripara nella zona di Bergamo, nella Repubblica di Venezia, da suo cugino Bortolo, che lo ospita e gli procura un lavoro sotto falso nome. Intanto la sua casa viene perquisita e viene fatto credere che sia uno dei capi della rivolta. Nel frattempo il conte Attilio, cugino di don Rodrigo, chiede a suo zio, membro del Consiglio Segreto, di far allontanare fra' Cristoforo, cosa che il conte ottiene dal padre provinciale dei cappuccini. In questo modo padre Cristoforo viene trasferito a Rimini.

È un grande quadro della follia umana, una visione di violenza e di stoltezza, ma sollevata da un'ironia senza punte e cordiale. All'irrazionale moto della folla i singoli personaggi si mescolano e si acconciano. La folla che ha perduto i lumi crede di aver ragione e se non gliela danno, se la fa con le sue mani. Renzo s'inserisce meccanicamente nella massa urlante e trova nel coro la sua voce segreta mille volte ripetuta. È un capitolo epico od eroicomico degli imbrogli e delle inversioni di questo mondo. I luoghi topici dell'episodio sono la "profondità metafisica" del capitano di giustizia, il chilo agro del Vicario di provisione, la frusta del cocchiere, il Ferrer.

Ogni gesto in questa prospettiva di umana follia è innalzato nel cielo della poesia per l'efficacia liberatrice del sorriso manzoniano. La folla appare come una massa grigia di automi, ognuno dei quali contagia e ossessiona l'altro. "Un ronzio crescente per la strada", "uno sbucar di persone, un accozzarsi, un andare a brigate, un far crocchi" (cap. XII): nel tumulto di Milano siamo di fronte ad una moltitudine anonima, ad un gregge senza capo accozzato da un comune sentimento che qualcosa bisogna pur fare.

L'Innominato

Don Rodrigo chiede aiuto all'Innominato, potentissimo e sanguinario signore, che però da qualche tempo riflette sulle proprie responsabilità, sulle vessazioni di cui si è reso autore o complice per attestare la propria autorità sui signorotti e al di là della legge, e sul senso della propria vita. Costui fa rapire Lucia dal Nibbio, con l'aiuto di Egidio e la complicità di Gertrude, e Lucia viene portata al castello dell'Innominato. Lucia, terrorizzata, supplica l'Innominato di lasciarla libera e lo esorta a redimersi dicendo che "Dio perdona molte cose per un atto di misericordia". La notte che segue è per Lucia e per l'Innominato molto intensa. La prima fa un voto di castità alla Madonna perché la salvi e quindi rinuncia al suo amore per Renzo. Il secondo trascorre una notte orribile, piena di rimorsi, e sta per uccidersi quando scopre, quasi per volere divino (le campane suonano a festa in tutta la vallata), che il cardinale Federigo Borromeo è in visita pastorale nel paese.

Spinto dall'inquietudine che lo tormenta, la mattina si presenta in canonica per parlare con il cardinale. Il colloquio, giungendo al culmine di una tormentata crisi di coscienza che egli maturava da tempo, sconvolge l'Innominato, che si converte impegnandosi a cambiare vita e per prima cosa libera Lucia, che viene ospitata presso la casa di don Ferrante e donna Prassede, coppia di signori milanesi amici del Borromeo. Intanto il cardinale rimprovera duramente don Abbondio per non aver celebrato il matrimonio. Poco dopo scendono in Italia i Lanzichenecchi, mercenari tedeschi che combattono nella guerra di successione al Ducato di Mantova, i quali mettono a sacco il paese di Renzo e Lucia e diffondono il morbo della peste. Molti, tra cui don Abbondio, Perpetua e Agnese, trovano rifugio nel castello dell'Innominato, che si è fatto fervido campione di carità.

La peste

Con i Lanzichenecchi entra nella penisola la peste: se ne ammalano Renzo, che guarisce, e don Rodrigo, che viene tradito e derubato dal Griso, il capo dei suoi bravi (che, contagiato anch'egli dalla peste, non godrà dei frutti del suo tradimento). Don Rodrigo viene portato dai monatti al Lazzaretto in mezzo agli altri appestati. Renzo, guarito, torna al paese per cercare Lucia, preoccupato dagli accenni fatti da lei per lettera a un suo voto di castità fatto quando era dall'Innominato, ma non la trova, e viene indirizzato a Milano, dove apprende che si trova nel Lazzaretto. Qui trova anche padre Cristoforo, indomito nel servizio sebbene segnato dalla malattia, che scioglie il voto di Lucia e invita Renzo a perdonare don Rodrigo, ormai morente.

La peste viene descritta in maniera scrupolosa e nei minimi particolari nelle sue prime manifestazioni, nelle reazioni suscitate, negli interventi positivi e negativi degli uomini chiamati a occuparsene (dai medici, ai politici, alla chiesa). Agli errori delle autorità, alla voluta disinformazione si somma l'ignoranza superstiziosa della popolazione. Ne deriva uno sconvolgimento drammatico della città intera, attraversata da Renzo, ormai guarito, come un luogo infernale pieno di pericoli e di insidie mortali.

La parte più drammatica di questa descrizione si trova nel capitolo 34, con una delle più celebri frasi della letteratura italiana: "Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato". In tale capitolo si parla anche di Cecilia, "di forse nov'anni", che, ormai morta, è posta sul carro dei monatti dalla madre, che li implora di non toccare il piccolo corpo composto con tanto amore, e chiede poi di tornare dopo a "prendere anche me e non me sola" (per questo episodio Manzoni trasse ispirazione dal De pestilentia di Federigo Borromeo).

La donna è presentata piena di dignità umana e di amore materno che riuscirà a impietosire anche il "turpe monatto" che le voleva strappare la bambina. Il personaggio è descritto accostando coppie di termini in antitesi collegati da forme oppostive e negative (cap. XXXIV): "una giovinezza avanzata ma non trascorsa"; una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale"; "la sua andatura era affaticata, ma non cascante". La descrizione della carestia, della fame, della calata dei Lanzichenecchi sono prove corali dell'immensa rappresentazione della peste.

La peste descritta nel romanzo ha il carattere della necessità: superflua perciò ogni nota storica. Il prologo del dramma è nella descrizione di don Rodrigo preso dal contagio. La peste appare nel suo vario orrore quando Renzo viene al suo paese e poi a Milano. Nella descrizione della città colpita dal morbo è una spaventevole verosimiglianza: non più la luce dell'alba cara al Manzoni ma la spietata intensità del sole a picco. La descrizione dei carri dei monatti è pagina potente e sinistra. Un'immagine di follia è nella corsa del cavallaccio spinto dal frenetico cavaliere. L'accordo dei vari temi dell'episodio si rivela però nelle note soavi della scena della madre di Cecilia, nell'umoristico contrasto tra l'angoscia dell'ambiente e il comico errore dei monatti su Renzo scambiato per untore, nell'idillica visione dell'ospedale degli innocenti, dove i bimbi allattati da donne e da capre suggeriscono il senso di una società favolosa come l'età dell'oro. Le principali fonti storiche utilizzate dal Manzoni furono: De peste quae fuit anno 1630 ("La peste del 1630") di Giuseppe Ripamonti; Ragguaglio dell'origine et giornali successi della gran peste di Alessandro Tadino.

Nella letteratura precedenti famose narrazioni sulla peste furono le seguenti:

la peste di Atene (430-425 a.C.) diffusasi durante la guerra del Peloponneso (tra le vittime ci fu anche lo statista Pericle). Ne parla lo storico greco Tucidide nella sua opera La Guerra del Peloponneso. La descrizione della peste di Atene è narrata poeticamente nel VI libro del De rerum natura di Lucrezio;
la peste nera del 1348-1350 descritta da Giovanni Boccaccio nel suo Decameron;
l'epidemia di peste a Londra descritta da Daniel Defoe nella sua opera La peste di Londra.
Posteriore all'opera manzoniana nel Novecento è il romanzo novecentesco La peste dello scrittore francese Albert Camus, romanzo che però ha un contenuto metaforico. Qui la peste è metafora del Male in generale e del nazismo nello specifico.

Conclusione

Infine i due promessi si incontrano nel Lazzaretto di Milano, dove Renzo era andato alla ricerca di Lucia. Con l'aiuto di padre Cristoforo superano lo scoglio rappresentato dal voto di Lucia e tornano al loro paese dove don Abbondio prima tentenna, poi acconsente a celebrare le nozze (avuta conferma della morte di Don Rodrigo). Si trasferiscono infine nella bergamasca; Renzo acquista con il cugino una piccola azienda tessile e Lucia, aiutata dalla madre, si occupa dei figli. Hanno una prima figlia che chiamano Maria, come segno di gratitudine alla Madonna, e poi ne arriveranno altri. Il significato dell'opera suggerito da Manzoni è che con la fede in Dio tutti i problemi e le disgrazie si possono superare.

Manzoni, traslando le problematiche del suo tempo in questo contesto romanzesco lascia inoltre una morale di grande importanza: è il popolo, nella sua condizione povera e umile, il vero protagonista della storia. Dio istituisce secondo Manzoni una Provvidenza che non decide al posto dell'uomo, ma determina un perpetuo equilibrio, pertanto il popolo deve giustamente cercare di riscattarsi e reclamare il proprio diritto di vivere e lasciare un proprio segno nella storia.

L'ambientazione geografica

Il romanzo è ambientato in Lombardia, più precisamente in una zona che comprende il ramo lecchese del Lago di Como, l'Adda, Monza, Milano e Bergamo. Questa scelta non è casuale dato che Manzoni scrive di luoghi a lui familiari.

Personaggi

Personaggio Tipo/ruolo Caratteristiche socio-economiche Psicologia Comportamento

Don Abbondio 

principale, per codardia si trasforma in aiutante dell'antagonista (simboleggia chi, pur investito di responsabilità istituzionali, si piega al più forte), personaggio meschino e reietto è un succube che tenta di avere il minor danno proprio a discapito dei più poveri. curato del paese, vocazione non spirituale ma di convenienza; non benestante; esercita una forma di banco di pegni. pavido, egoista, pauroso e codardo si ispira alla regola di "scansare tutti i contrasti e cedere quelli che non può scansare" don Abbondio è succube del suo tempo, della sua epoca e delle ingiustizie presenti in essa; non riuscendo ad affrontarle tenta di scansarle. Viene paragonato ad un vaso di terracotta che viaggia insieme ad altri vasi di ferro su un carro. Egli risulta vittima della società perché non possiede un carattere forte e determinato ("non era nato con un cuor di leone").

Perpetua

personaggio minore (simboleggia la sincerità, la genuinità) domestica di don Abbondio; " aveva passato l'età sinodale dei 40, rimanendo nubile, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche." pragmatica, dolce, determinata sa ubbidire e comandare, tollerare e imporre, non sa mantenere i segreti, poiché ha un animo abbastanza semplice, e "rozzo". Termine scurrile usato nel primo capitolo contro Don Abbondio: "Oh che birbone".

Renzo Tramaglino

protagonista (simboleggia gli ingenui volenterosi) operaio tessile e contadino, condizioni economiche medie, orfano, fidanzato di Lucia animo buono, dai valori morali semplici e onesti; ma anche ingenuo e impulsivo, e per questo capace di cacciarsi nei guai, come accade a Milano.

Lucia Mondella

protagonista, vittima (simboleggia l'innocenza, i valori puri del cattolicesimo) fidanzata di Renzo, tessitrice, orfana di padre vive con la madre Agnese. timorata di Dio, dotata di una morale solida, ma anche capace di sottili astuzie; come quando dà a fra Galdino una gran quantità di noci perché concluda prima la questua e torni presto al convento a chiamare Fra' Cristoforo; o come quando, vedendo che l'Innominato comincia a commuoversi, esplode in accenti ancora più accorati, che lo inducono a capitolare.Lucia appare più equilibrata e coerente di Renzo e di Agnese, anche se talvolta cede alle loro pressioni e si lascia convincere ad agire contro i propri principi, come quando accetta di partecipare al matrimonio a sorpresa.

Agnese

aiutante dei protagonisti (simboleggia i valori pragmatici e materni) tessitrice, madre di Lucia pragmatica, sicura di sé, dotata di furbizia "di paese" materno, protettivo, impulsivo

Azzecca-garbugli

aiutante dell'antagonista (simboleggia la manipolazione della legge a difesa dei privilegi) avvocato trasandato meschino al servizio dei potenti, comicità di gesti e smorfie

Padre Cristoforo (Lodovico)

aiutante dei protagonisti, personaggio storico (simboleggia un cristianesimo coraggioso, capace di prendere posizione in difesa dei più deboli) padre cappuccino, appartenente a una benestante famiglia di mercanti, in gioventù arrivista e arrogante irrequietezza interiore, disciplina d'umiltà, somma spiritualità religiosa, sebbene capace di atti d'ira e indignazione di cui fa subito atto di contrizione costante astinenza, autocontrollo, senso della giustizia, determinazione e coraggio.

Don Rodrigo

antagonista, incapricciato di Lucia (simboleggia i prepotenti e il malgoverno spagnolo dell' epoca) nobiluomo orgoglioso, maligno prepotente, capriccioso, offensivo, sarcastico, violento.

Griso

aiutante dell'antagonista (simboleggia la violenza gratuita) uno dei bravi opportunista prepotente, violento.

Monaca di Monza (Gertrude, "la Signora")

aiutante della protagonista, poi dell'antagonista; è ispirata ad un personaggio storico (suor Maria Virginia de Leyva, la Monaca di Monza; attraverso il racconto delle sue vicende, Manzoni denuncia la monacazione forzata) figlia di un potente signore di Monza, secondo Manzoni è sempre stata indirizzata alla vita in convento, anche se ciò andava contro la sua natura frustrata, rancorosa, debole, indecisa, ambigua autoritario, capriccioso, enigmatico.

Conte zio

aiutante dell'antagonista (simboleggia la classe dei potenti e corrotti) potente rappresentante della famiglia, membro del Consiglio Segreto, zio del conte Attilio (cugino aiutante dell'antagonista don Rodrigo, cinico e amorale) risoluto serio, paternalistico, consapevole del suo potere.

Innominato

aiutante dell'antagonista, poi dei protagonisti, personaggio storico (simboleggia il pentimento, la conversione, la redenzione, valori base del cristianesimo) nobile, potente fuorilegge crudele, risoluto, inquieto, introspettivo, sensibile dapprima violento, "aspro, dominante e ostile" (v. valle); poi, a seguito del pentimento, umile e desideroso di espiazione.

Nibbio

aiutante dell'antagonista capo dei bravi fedele, inquieto, anche lui come il suo signore dubbioso sulla propria condotta un uomo crudele che rimane toccato dai pianti di una fanciulla.

Oste

aiutante dell'antagonista (simboleggia mentalità cittadina) oste opportunista, prudente, egoista teso al proprio interesse e alla propria sicurezza.

Bortolo

aiutante del protagonista (simboleggia valori familiari) tessitore, cugino di Renzo altruista  disponibile, pragmatico.

Cardinale Federigo Borromeo aiutante

dei protagonisti, personaggio storico (simboleggia un cristianesimo puro e ispirato) da facoltosa famiglia lombarda, arcivescovo di Milano autentica e profonda spiritualità cristiana puro, umile, caritatevole, altruista, disponibile, pacato e santo.

Sarto

aiutante della protagonista (simboleggia l'uomo umile, il buon cristiano) sarto altruista, disponibile, goffo e imbarazzato.

Donna Prassede

aiutante ambigua della protagonista (simboleggia il bigottismo) nobildonna milanese, moglie di don Ferrante benefattrice bigotta, dalla carità e dalla morale malintesa, pregiudizi arroganti e autoritari disponibile ma intrigante, autoritario, malizioso.

Don Ferrante

aiutante della protagonista (simboleggia l'ottusa cultura erudita e accademica) uomo di cultura, marito di donna Prassede vuota erudizione non comanda né ubbidisce, studia tutto il giorno con rabbia e compiacenza della moglie, professore di cavalleria, quotato consigliere su questioni d'onore.

Conte Attilio

aiutante di Don Rodrigo, di cui è il cugino nobile proveniente da Milano, sembra più importante di don Rodrigo dal carattere molto semplice sa trasformare il suo comportamento, scherzoso con don Rodrigo, serioso e truffaldino con il conte Zio

Tonio

aiutante di Renzo. Compaesano di Renzo, lo aiuterà nel tentativo di matrimonio per sorpresa venendo a far da testimone (ovviamente sotto compenso) Furbo e acuto, si dimostra molto affettuoso nei confronti del fratello Gervaso, che definisce "un sempliciotto", mentre in realtà egli è un disabile mentale.

Padre provinciale

il superiore di padre Cristoforo.

Fonti manzoniane

Tra le fonti storiche del romanzo, esaminate da Tano Nunnari, «Il più di quello studio se n’è andato…». Le fonti storiche dei «Promessi sposi»,  Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 2013, si possono ricordare le seguenti.

Giuseppe Ripamonti, Historia Patria.

M. Gioia, Sul commercio de' commestibili e caro prezzo del vitto.

F. Borromeo, De pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edit.

C.G. Cavatio della Somaglia, Alleggiamento dello Stato di Milano per le imposte e loro ripartimenti.

L. Ghirardelli, Il memorando contagio seguito in Bergamo l'anno 1630.

P. La Croce, Memoria delle cose notabili successe in Milano intorno al mal contagioso l'anno 1630.

A. Lampugnano, La pestilenza seguita in Milano l'anno 1630

Ludovico Antonio Muratori, Del governo della peste e delle maniere di guardarsene

G. Ripamonti, De peste quae fuit anno 1630 libri V desumpti ex annalibus urbis

F. Rivola, Vita di Federigo Borromeo Cardinale del titolo di Santa Maria degli Angeli, ed Arcivescovo di Milano

F. Verri, Osservazioni sulla tortura

Frasi e personaggi proverbiali

I promessi sposi hanno dato origine a diverse frasi ed espressioni che in Italia sono entrate nell'uso comune. Alcuni esempi: Da "Questo matrimonio non s'ha da fare" a "Perpetua", che ora identifica per antonomasia le collaboratrici dei parroci; da "latinorum", un linguaggio o un gergo incomprensibile ai più, a "Carneade", per definire un illustre sconosciuto, e ancora da "Azzecca-garbugli" per definire un avvocato di scarsa etica professionale (o, in generale un arruffone che incanta il prossimo solo a parole), a "i capponi di Renzo" per indicare in senso figurato soggetti deboli e destinati a soccombere che si perdono nel litigare fra di loro, invece di far fronte comune contro la fine che li attende.

Sono spesso citati inoltre interi brani del romanzo che vengono tuttora imparati a memoria e recitati, come "Addio, monti sorgenti dall'acque..." e "Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno...", tutti riferimenti al paesaggio dei dintorni lecchesi.

Da notare che anche la definizione "Tizzone d'Inferno", pronunciata in un momento d'ira da Renzo nei confronti di Don Rodrigo, viene spesso usata nei fumetti da Tex Willer.

Opere derivate

Dino Buzzati, autore del Novecento, ha scritto, sulla base del capitolo manzoniano sulla malattia di don Rodrigo, il racconto La peste motoria, vivace trasposizione in cui la malattia aggredisce non più gli uomini ma le autovetture, e i monatti sono dipendenti degli sfasciacarrozze.

Adattamenti

Opera lirica

I promessi sposi di Amilcare Ponchielli (1856 - seconda versione 1872)

I promessi sposi di Errico Petrella (1869)

Musical

I promessi sposi Musical di Tato Russo (in scena dal 2000 al 2003) con Michel Altieri (Renzo) e Barbara Cola (Lucia) -Premio Massimini come miglior attore a Michel Altieri.

I promessi sposi - Opera moderna di Michele Guardì (in scena dal 18 giugno 2010) con Noemi Smorra nei panni di Lucia, Graziano Galatone nei panni di Renzo, Giò Di Tonno nei panni di Don Rodrigo, Lola Ponce nei panni della Monaca di Monza, Vittorio Matteucci nei panni dell'Innominato e Christian Gravina nei panni di Fra' Cristoforo e del cardinale Borromeo.

Teatro

I promessi sposi da Alessandro Manzoni regista e interprete Massimiliano Finazzer Flory (2011)

I promessi sposi, una storia lombarda da Alessandro Manzoni regia di Luisa Borsieri, Arteatro 3

Cinema

I promessi sposi Dina Sassoli, Luis Hurtado, Gino Cervi Gilda Marchiò in una scena de I promessi sposi del 1941 di Mario Camerini

I promessi sposi (1909)

I promessi sposi (1913)

I promessi sposi (1923)

I promessi sposi (1941)

I promessi sposi (1964)

Il monaco di Monza (1963), parodia interpretata da Totò, Nino Taranto ed Erminio Macario

Sceneggiati televisivi

Romina Power (Lucia) ed Al Bano (Renzo) con Felice Chiusano (don Abbondio) e Lucia Mannucci (Agnese) nella parodia dei Promessi Sposi realizzata nel 1985 dal Quartetto Cetra

I promessi sposi regia di Sandro Bolchi (1967) principali interpreti: Massimo Girotti, Paola Pitagora, Nino Castelnuovo, Tino Carraro, Luigi Vannucchi, Salvo Randone.

I promessi sposi regia di Salvatore Nocita (1989) principali interpreti: Alberto Sordi, Danny Quinn, Burt Lancaster, Franco Nero, Helmut Berger.

Renzo e Lucia regia di Francesca Archibugi (2004) principali interpreti: Stefano Scandaletti, Michela Macalli, Paolo Villaggio, Laura Morante, Carlo Cecchi, Stefano Dionisi, Gigio Alberti, Stefania Sandrelli

Parodie

I promessi sposi regia di Antonello Falqui, con il Quartetto Cetra (1985)

I promessi sposi regia di Massimo Lopez, Anna Marchesini e Tullio Solenghi (1990)

"I promessi sposi in dieci minuti", riduzione-parodia degli Oblivion, regia di Lorenzo Scuda e Davide Calabrese (2009)

Parodie a fumetti

I promessi paperi (1976)

I promessi topi (1989)

Nessun commento:

Posta un commento