I film italiani che hanno vinto l’Oscar
Non scrivo quasi mai di cinematografia benché io sia fin dall’infanzia un’appassionata divoratrice di film e per hobby mi diletti come sceneggiatrice e regista teatrale. Però qualcosa su “La grande bellezza” la voglio dire, anche se si è già scritto di tutto e ogni rivista, sito, blogger o facebookiano ne ha parlato, come è giusto che sia.
Il film l’ho visto lo scorso autunno e il mio giudizio è rimasto inalterato da allora. Mi colpì perché centrava appieno il mondo dell’arte e della cultura in generale finalmente smascherandola e riducendola alla brutale inconsistenza che essa si merita nella realtà dei nostri giorni.
“La grande bellezza” è per me uno splendido e allo stesso tempo angosciante spaccato di una generazione fallita, la mia, che reduce da presunti gloriosi intellettuali passati si rimescola in sfarzose vasche di inutilità. Ecco perché disturba, ecco perché non piace; perché tocca sul vivo proprio chi ruota attorno al mondo delle recensioni e d’arte varia. I presunti artisti e i critici. Quest’ultimi poi autorizzati ad innalzare sul trono della celebrità, del successo, anche il più stolto cretino e acclamarlo come un dio, relegando spesso nell’oblio i più meritevoli. Ma si sa, è così che funziona in tutti i campi, soprattutto in Italia, ma non solo.
L’arte è il riflesso di quello che siamo diventati, il riflesso della nostra società, ma è anche molto di più. E’ quello che vogliono farci essere. In parte questo film cerca di spiegarlo.
Gambardella era un uomo di talento, quando ancora viveva di sentimenti veri, di amore, di voglia di crescere e anche di cambiare il mondo. Poi però finisce con lo svendere il proprio lavoro per inseguire facili guadagni e frivoli piaceri. Si lascia comprare e la sua arte scade nella banalità trasformando il potere creativo della sua fragilità in arroganza e presunzione. Quanti intellettuali possiamo dire si trascinano in tale squallido sistema? Moltissimi, ma peggio ancora gran parte di loro il talento non l’hanno mai avuto.
Ma ovviamente il film non è solo questo; abbraccia derive che spaziano anche nel campo della medicina e persino della religione. Il grande baraccone del jet set capitolino nel quale puoi leggere, dietro ogni finto sorriso, l’horror vacui interiore che lacera le carni ancor più dei tanti combattuti segni inevitabili dell’età che avanza. E non è una prerogativa solo italiana, anche se è verissimo che proprio qui, dopo vent’anni di imbarbarimento berlusconiano, abbiamo raggiunto livelli di volgarità e bassezza mai visti prima. Raccontarlo nella nostra capitale lo rende magnificamente eccessivo per sua stessa natura.
Dopo la vincita dell’Oscar e il moltiplicarsi delle critiche negative mi è venuta la curiosità di andare a vedere se anche gli altri film italiani, che hanno in passato vinto come miglior pellicola straniera, avevano ricevuto in patria lo stesso trattamento. Così ne ho fatto un breve sunto con quello che ho trovato in rete.
P.S.: Sorrentino a sentirlo non sembra particolarmente colto, anche se si rivolge soprattutto ad un pubblico colto. Credo comunque che risieda proprio in questo particolare la sua grande bellezza/grandezza. Ricordiamoci poi che il nostro paese è una fucina di veri artisti in ogni campo. Purtroppo ognuno di loro, di questi tempi, è costretto a ricavarsi uno spazio d’aria fresca scavando tra il letame prodotto dal porcilaio dell’élite imperante. Mi piace pensare che il film di Sorrentino, soprattutto dopo aver vinto l’Oscar, perché prima non se lo filava nessuno, possa dare inizio a un risveglio morale. Così come fa Gambardella che lascia tutto per ritrovare le proprie radici, alla ricerca di quell’uomo che era stato quale antidoto alle piaghe che il successo immeritato gli aveva lasciato.
Un altro grande film di cui però si è parlato pochissimo e che racconta uno spaccato della nostra società che io nemmeno immaginavo potesse esistere, o per lo meno non ad un tale livello di bassezza, è Reality di Matteo Garrone.
1947 Premio Oscar
“Sciuscià”, Vittorio De Sica (1946)
In Italia fu un flop sia commerciale che critico. Gli spettatori dell’epoca preferivano film hollywoodiani con il finale sempre positivo “ e vissero tutti felici e contenti”. La critica italiana accusò De Sica di aver usato, mettendola troppo in evidenza, la sfortuna dei poveri.
1949 Premio Oscar
“Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica (1948)
Giulio Andretti scriverà qualche anno dopo (e precisamente dopo l’uscita di “Umberto D.” del 1952) un articolo sul numero 7 di Libertas, il settimanale della Dc, rimproverando il regista: “De Sica ha voluto dipingere una piaga sociale e l’ha fatto con valente maestria, ma nulla ci mostra nel film che dia quel minimo di insegnamento… E se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di De Sica è l’Italia del ventesimo secolo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione”.
1950 Premio Oscar
“Le Mura di Malapaga”,(“Au delà des grilles”) di René Clément (1949)
Inizialmente osannato dalla critica del tempo il film troverà la sua giusta collocazione storica nel corso degli anni.
1956 Premio Oscar
“La Strada” di Federico Fellini (1954)
Fellini 4 e mezzo. È questo il voto che, fatta la media, i critici italiani assegnavano via via ai film del nostro grande regista. Guardato con sospetto, condannato, vilipeso e, se talora lodato, sempre con un «però». «Però poteva far meglio, però non è maturo…»
1958 Premio Oscar
“Le notti di Cabiria” di Federico Fellini (1957)
“La censura aveva proibito il film e io non volevo che bruciassero i negativi. Così, seguendo il consiglio di un amico gesuita intelligente e forse un po’ spregiudicato, padre Arpa, andai a Genova da un cardinale famoso, considerato uno dei papabili e forse anche per questo assai potente, per chiedergli di vedere il film. In una minuscola saletta di proiezione situata proprio dietro il porto, aveva fatto mettere, al centro, una poltrona comprata il giorno prima da un antiquario, una specie di trono con un gran cuscino rosso e le frange dorate. Il cardinale arrivò a mezzanotte e mezza sulla sua Mercedes nera. A me non fu concesso di restare nella sala e non so se l’alto prelato vide davvero tutto il film o se dormì; probabilmente padre Arpa lo svegliava nei momenti giusti, quando c’erano processioni o immagini sacre. Fatto sta che alla fine disse: ‘Povera Cabiria, dobbiamo fare qualcosa per lei!’. E penso che gli sia bastata una semplice telefonata. Qualcuno mi accusò pubblicamente di essere una specie di Richelieu, che invece di combattere alla luce del sole, tramavo dietro le quinte; per fortuna allora c’era la possibilità di perdere tempo in polemiche di questo genere. Ma insomma, il film fu salvato. A una stranissima condizione, però, posta dal cardinale: che fosse tagliata la sequenza dell’uomo col sacco. [...] L’episodio mi era stato ispirato da uno straordinario personaggio col quale avevo passato due o tre notti in giro per Roma: una specie di filantropo, un po’ mago, che in seguito a una visione s’era dedicato a una particolare missione: raggiungeva i diseredati nei punti più strani della città e distribuiva a tutti cibi e indumenti che teneva in un sacco. Questo ogni giorno. Con lui ho visto cose da fiaba. Sollevando la grata di certi tombini dove immaginavi ci fossero solo fango e topi, trovavi una vecchina che dormiva. Nei corridoi di un sontuoso palazzo di via del Corso, dove adesso c’è il Partito socialista, c’erano dei vagabondi che dormivano fino alle cinque della mattina, fatti entrare di nascosto dal guardiano di notte. L’uomo del sacco conosceva tutti questi posti: a uno faceva una iniezione, all’altro dava da mangiare. Nel film immaginai che Cabiria lo incontrasse sull’Appia Antica, mentre tornava a casa alle prime luci dell’alba brontolando perché un cliente mascalzone non l’aveva pagata. Vedeva l’uomo del sacco scendere da una macchinetta e avviarsi verso le cave di tufo, fermarsi sul ciglio di una specie di grande voragine e chiamare per nome una donna; da un lurido anfratto usciva allora una vecchia puttana che Cabiria conosceva come la Bomba Atomica, ridotta ormai a condurre una vita da topa. Poi Cabiria accettava di tornare a casa sulla macchinetta dell’uomo del sacco e restava molto colpita dai suoi racconti. Era una sequenzina molto commovente, ma che fui costretto a togliere; evidentemente in certi ambienti cattolici dava fastidio che nel film ci fosse quell’omaggio a una filantropa del tutto anomala, affrancata da mediazioni ecclesiastiche. E non è ridicolo che il sindaco di Roma, quando uscì Cabiria, protestasse perché avevo messo le puttane in un luogo – la Passeggiata Archeologica – che lui s’era tanto adoperato a render degno della capitale?”
Federico Fellini, Intervista sul cinema, a cura di Giovanni Grazzini, Laterza, Roma-Bari, 1983, pp. 102-103
1964 Premio Oscar
“8½” di Federico Fellini (1963)
Da una parte asserivano: è un cristiano vero, un uomo che vive la situazione esistenziale in maniera sofferta, ha una vocazione mistica; ma no, insorgevano gli altri, si tratta di un ignorante, un figlio di mignotta, uno sporcaccione, un istrione, un cinico: vende fumo e non crede a niente[...]; nei suoi film mancano la trama, i fatti, la storia. ( Pio Baldelli, Fellini: da “La dolce vita” a “8½” in «Mondo operaio», n. 2-3, febbraio-marzo 1963, p. 56)
1965 Premio Oscar
“Ieri, oggi, domani” di Vittorio De Sica (1963)
La critica dell’epoca non amò affatto Ieri, oggi e domani, e certo lo sguardo dolente di Eduardo De Filippo, la visione amara sull’aridità borghese di Alberto Moravia, e il pedinamento antropologico di Cesare Zavattini, sceneggiatori dei tre episodi, risultano mitigati dal bozzettismo e dalla tendenza oleografica del “nuovo” De Sica. (Giulio Ragni)
1971 Premio Oscar
“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri (1970)
Come ricorda lo sceneggiatore Ugo Pirro, all’epoca della sua uscita in Italia nel gennaio 1970 il film provocò uno shock: “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto ha rappresentato un fenomeno incredibile nel nostro paese, qualcosa di difficile da dimenticare. L’affluenza del pubblico nelle sale era enorme e in alcuni casi fu necessario interrompere la circolazione dei veicoli data la lunghezza delle file alle biglietterie. La gente si accalcava perché non credeva ai propri occhi. Credo si debba apprezzare il coraggio civile di un’opera che ha aperto la strada a tutti nel cinema politico. Ci avevano detto che saremmo finiti in carcere: era una tale bomba… Ma il film non fu bloccato dalla censura perché tutti si resero conto che la cosa avrebbe provocato uno scandalo enorme. Il particolare contesto politico del momento ‒ una crisi di governo e la volontà della Democrazia Cristiana di trovare un accordo con i socialisti dopo le bombe di Milano ‒ rese possibile l’uscita del film”. (Jean A. Gili – treccani.it)
Petri riuscì, suo malgrado, nell’impresa di risultare inviso all’intero arco costituzionale; non solo alla componente governativa e all’estrema destra, arroccate nell’aprioristica difesa dell’istituzione polizia tramite la medievale accusa di vilipendio (quando negli Stati Uniti ad esempio film su poliziotti, politici e presidenti corrotti erano e sono tuttora all’ordine del giorno, indice di una democrazia sana e di una reale libertà d’espressione), ma anche alla sinistra extraparlamentare e dei movimenti studenteschi, indignata per la rappresentazione data di movimento informe, caotico e piuttosto disorganizzato quale effettivamente era.
Oltretutto la notevole somiglianza, mai confermata dagli autori, del protagonista con il commissario Calabresi, proprio nel momento dell’istruttoria sulla morte dell’anarchico Pinelli, portarono ad una richiesta di sequestro della pellicola da parte della questura di Milano, fortunatamente invalidata dal giudice. (http://www.filmscoop.it)
Oltretutto la notevole somiglianza, mai confermata dagli autori, del protagonista con il commissario Calabresi, proprio nel momento dell’istruttoria sulla morte dell’anarchico Pinelli, portarono ad una richiesta di sequestro della pellicola da parte della questura di Milano, fortunatamente invalidata dal giudice. (http://www.filmscoop.it)
1972 Premio Oscar
“Il giardino dei Finzi-Contini” di Vittorio De Sica (1970)
All’uscita nelle sale il film ricevette molto successo di pubblico ma altrettante critiche negative. Il ritratto del padre di Giorgio non risultò abbastanza spietato a detta di alcuni esponenti delle comunità ebraiche italiane e dello stesso Bassani che fece causa agli autori del film, pretendendo addirittura di togliere il trattino di congiunzione tra i due cognomi dell’aristocratica famiglia. (GIARDINI D’AUTUNNO di Manuel De Sica)
1975 Premio Oscar
“Amarcord” di Federico Fellini (1973)
“Al gran maestro Federico Fellini basta mettere in libera uscita la consueta, pur se strepitosa, galleria di balordi già incontrata in tutti i suoi film da trent’anni in qua per lasciare i critici a bocca aperta e incastonare in bacheca un altro Oscar. Fu vera gloria? Ai posteri, sempre che non si addormentino davanti alla tv, l’ardua sentenza”. (Massimo Bertarelli, ‘Il Giornale’, 29 agosto 2000)”La sorpresa di Amarcord consiste nel fatto che tra le righe non si riesce a leggere quasi nulla. Fellini fruga qua e là nel passato, ma sembra non voler trinciare giudizi. Probabilmente il film va letto in una chiave rovesciata rispetto a quella che viene spontaneo usare. Forse Fellini, mentre mostra di annegare nei ricordi, vuol farci capire che il passato in realtà non esiste se non nella nostra fantasia. Forse la frustata è diretta non tanto sul mondo di ieri, quanto sull’abitudine che abbiamo di dargli una credibilità che va oltre i limiti della nostra povera memoria. Ma se i ricordi sono amari e confusi, se perdono sapore e colore, se non hanno senso, se sono indecifrabili, il discorso diventa attuale. L’attenzione si sposta sulla coscienza dell’uomo contemporaneo, sull’oggi. Ma qui Fellini si ferma rigorosamente”. (Sergio Trasatti, “L’Osservatore Romano”, 20 dicembre 1973)”Fellini gioca in economia. Adopera i residui di stoffe già esibite al pubblico, frammenti di un discorso che, in fondo, è già stato fatto. Qualche scampolo ha colori vivi e guizzanti (il nonno nella nebbia, per esempio, e la mucca che diventa, agli occhi del bambino che va scuola, un mostro mitologico); qualche altro è sbiadito a causa del tempo e della polvere; qualche altro ancora, infine, poteva essere mandato al macero”. (Franco Bolzoni, “Avvenire”, 19 dicembre 1973)”E quindi, certo, è possibile all’artista quando è tale, e quando è Fellini, crearsi dei finti ricordi per cacciare quelli veri: e, per rafforzare la finzione, costruirsi un luogo immaginario, nella prediletta Cinecittà, e una lingua che è una specie di miscuglio fra l’emiliano e il romagnolo, anche con qualche pizzico di accenti limitrofi. E però il sospetto che quei ricordi siano veri, tutti o quasi, riemerge nel vedere come Federico li rievoca. Perché li rievoca con pudore, sempre attento a non gonfiarli troppo, a non strizzarli fino a farne uscire l’ultima, spettacolare goccia, limitando al massimo il surreale, un paio di sequenze e nemmeno le più riuscite, contrariamente al solito, e su tutto il resto ammorbidisce, sfuma, attenua. Non rinunciando al popolaresco, a qualche paesana grossolanità, ma senza mai spingere a fondo nemmeno in questa direzione”. (Paolo Valmarana, “Il Popolo”, 19 dicembre 1973)”Molte delle inquadrature di Amarcord sembrano l’edizione per così dire critica del ‘kitsch’ fascista, della sua iconografia rurale, della sua propaganda industriale, colta nel momento piccolo-borghese, con la cultura delle nostre zone depresse. Forse solo Il conformista, prima di Amarcord, ci aveva restituito un fascismo visto così dall’interno, al di fuori delle solite, oziose decalcomanie. E’ utile aggiungere che il film funziona anche sul piano del puro e semplice spettacolo e che tutto vi è al proprio posto: a cominciare dal numeroso stuolo degli attori, noti e sconosciuti, professionisti e occasionali (con particolare riguardo al folgorante intermezzo di Ciccio Ingrassia, nel ruolo dello zio pazzo). Rispettiamolo, dunque questo “Amarcord”: questo film intenzionalmente modesto, ma molto più realizzato, concluso di tante altre opere felliniane, partite con maggiori ambizioni”. (Callisto Cosulich, “Paese sera”, 19 dicembre 1973)
1990 Premio Oscar
“Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore (1988)
Il film viene distribuito nel novembre 1988 senza grande sostegno promozionale, tipico esempio di sfiducia che accompagna l’uscita di film italiani di esordienti.
Il regista Giuseppe Tornatore nel giugno 2010 ha ricordato: “Quando il film uscì nel 1988, nelle sale italiane non andò a vederlo nessuno. Gli incassi furono disastrosi, tranne a Messina, dove il film andò benissimo e non capivamo il perché. Il gestore del cinema “Aurora” si ostinò a tenerlo in cartellone, invitò la gente a entrare gratis e se il film fosse piaciuto alla fine avrebbero pagato (nel frattempo il cinema “Aurora” ha seguito quasi profeticamente le sorti del “Nuovo Cinema Paradiso”, ha chiuso). Fu un trionfo che poi si espanse in tutta Italia.”
La cosa scandalosa è che non esistono trailer in italiano sul web. L’unico è questo che vi ho segnalato. Ma è sottotitolato in inglese, quindi sempre una produzione estera.
1992 Premio Oscar
“Mediterraneo” di Gabriele Salvatores (1991)
….L’ultimo film di Salvatores, premiato dal pubblico, è stato soltanto punito – a quanto sembra – con il rifiuto di finanziare altri progetti della stessa società che l’ha prodotto, ma ha infastidito quanto basta chi, erroneamente, l’ha letto come un invito alla diserzione o come una critica al “valore” delle nostre forze armate. Niente di voluto, naturalmente. Ideato ben prima della “Guerra del Golfo”, ultimato nelle riprese solo una settimana dopo l’invasione irachena del Kuwait, è capitato sugli schermi, per una sorta di ironia del destino, quando quello scacchiere ha fatto tremare e inorridire il mondo. Certo, ha così sollevato una maggior attenzione, ma certamente non ha modificato la sua sostanziale debolezza ideologica: quello che anzi si potrebbe definire un attacco alle ideologie. In Mediterraneo quasi non si parla di fascismo, l’antifascismo è del tutto assente, non basta una battuta di Mao posta in bocca ad Abatantuono a connotarlo, il generico riferimento a un’Italia da ricostruire in modo più giusto e da cambiare in modo magari radicale resta sullo sfondo o si trasforma in un’aspettativa ben presto delusa. V’è di più: non esistono nemmeno contrasti o fanatismi nel drappello di soldati posto in scena; sotto le divise alberga un pacifismo più credibile negli odierni obiettori di coscienza che in reclute o richiamati degli anni ’40. O ancora: si avverte persino un certo senso di incredulità nello scoprire che nemmeno il gallismo o un po’ di sufficienza da “popolo dominatore” sfiorano i pensieri e le azioni dei nostri baldi giovanotti proiettati di colpo in una sperduta isoletta greca. In effetti, ciò che Salvatores ha posto in scena è soltanto un’esperienza di gruppo, dove la realtà del set (lavorare per settimane in località lontane e sconosciute, vivere tensioni interpersonali, affrontare qualche disagio ambientale) non può che favorire, se non la “realtà”, almeno una certa verosimiglianza della fiction……(Lorenzo Pellizzari, Cineforum n. 303, aprile 1991)
1999 Premio Oscar
“La vita è bella” di Roberto Benigni (1997)
Il film aveva fatto molto discutere già alla fine degli Anni Novanta, quando uscì nelle sale e poi vinse l’Oscar. Le polemiche tra gli entusiasti — «è un nuovo Chaplin» — e i critici — «è un film mafioso perché nessuno potrà criticarlo» — andarono avanti per molto tempo. Giuliano Ferrara, sul Foglio, fece una campagna contro la beatificazione artistica e ideologica di Benigni e propose forme di boicottaggio. L’artista-scrittore Moni Ovadia elesse Benigni «yiddish onorario». Il regista Steven Spielberg in pubblico ne parlò bene ma, pare, che vedendo il film volesse uscire prima della fine. Tullia Zevi disse che era un’opera piena di buona fede e buone intenzioni ma sperava che non avesse imitatori che edulcorassero la massima tragedia del Novecento.
Simone Veil, figura politica e morale europea di primo piano, ha detto che l’opera è «assolutamente scadente», non meritava il Premio. (Danilo Taino - 09 aprile 2009 – Corriere.it)
La stampa estera non si mostrò meno negativa nei confronti del film di Benigni: “le Monde” accusò il film di essere incapace di produrre il benché minimo effetto comico, mentre il “Times” definì il film di Benigni, con intenzione peggiorativa, “un artificio”. Un punto molto interessante rispetto al film fu poi sollevato da Jean-Luc Godard, con l’acutezza ironica che gli è propria. In un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” l’8 luglio del 1998, Godard dichiarò di non aver visto il film, e che lo avrebbe fatto solo se questo avesse avuto il suo titolo corretto: La vita è bella ad Auschwitz. (Massimo Leone – 1 maggio 2002 – golemindispensabile.it)
2014 Premio Oscar
“La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino (2013)
Alcuni link di critica
eccetera……eccetera….. ce ne sono moltissimi in rete.
Paola Mangano
fonte: fattidarte.wordpress.com
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