venerdì 27 febbraio 2015
l'odio razziale di casa nostra - dal 1963 ad oggi di K
In cinquant’anni gli Stati Uniti, grazie al cielo hanno fatto passi da gigante riguardo la questione razzista, tanto da eleggere infine anche un presidente nero.
Noi invece in questi anni abbiamo alimentato uno strano odio, sfociato addirittura nel fenomeno della Lega. Una strada decisamente inversa che prese forma proprio in quei primi anni sessanta.
Negli anni del miracolo economico tra il ’55 e il ’63 un flusso notevole di persone iniziò a scorrere verso le città del centro-nord Italia, in particolare verso le metropoli di Milano, Torino e Genova, ai vertici del cosiddetto “triangolo industriale”. Dalle regioni del Mezzogiorno si mossero oltre un milione e trecentomila persone. Dalle 69.000 nuove iscrizioni anagrafiche del 1958 nei comuni del triangolo industriale, si passò nel 1963 ad un numero quasi triplicato (183.000), già superato l’anno precedente fino a raggiungere le 200.000 unità. Il peso delle regioni meridionali nell’originare questi flussi migratori aumentò progressivamente fino a costituire nel 1963 quasi i ¾ degli espatri e il 100% del saldo migratorio. Fra le regioni meridionali, Puglia e Campania si attestarono tra le più “ricche di emigranti”.
A Torino e provincia l’elemento scatenante furono le assunzioni alla FIAT: “si trattò di un afflusso improvviso di 15.000 operai giovani, meridionali, nella loro stragrande maggioranza di origine non contadina”. Una massa enorme che si trovò a fare i conti con il problema dell’abitazione. Si cercarono le più disparate soluzioni, quelle che offriva una società stravolta e impreparata a questi arrivi e quelle che suggerì l’arte di arrangiarsi. Nacquero case “fai da te” e piccoli, disordinati, nuclei urbani lontani dal centro, le “coree degli immigrati”, un nome assunto dalla contemporanea guerra in Corea e dall’impressione che ne avevano avuto i residenti nel milanese, ai quali gli immigrati si presentavano come degli esuli, dei profughi, come “gente che aveva perduto una guerra”. Nei paesi della “cintura” milanese, dove i terreni costavano di meno, si formarono dei nuclei urbani (coree), che significano “disordine di accostamento, assurdità urbanistica, cumulo di errori tecnici, promiscuità di ogni tipo, speculazione incontrollabile”. Altrove, come a Torino e a Genova, si verificò l’abbandono del centro degradato da parte dei proprietari che cercarono altrove abitazioni più confortevoli e più moderne. Nella città marittima si svuotarono i quartieri del porto e in generale della città vecchia per riempirsi dei diseredati, lo stesso avvenne a Torino con i Murazzi e San Salvario. Gli emigranti occuparono tutti gli spazi disponibili: soffitte, cantine, sottoscale, vecchie cascine e persino case destinate alla demolizione, e quando non ci riuscivano vivevano in alloggi sovraffollati. L’esito fu il moltiplicarsi delle bidonville: “ruderi delle case bombardate nel vecchio centro storico erano stati riadattati ad abitazioni primitive… sulle rive e sui greti dei due corsi d’acqua si stendevano lunghe file quasi ininterrotte di baracche e capanne”.
Da un lato quindi lavoro precario e mansioni dequalificate, dall’altro pessime condizioni di vita fuori dalla fabbrica, a cominciare dal problema della casa. Di fronte a questo scenario, ai meridionali non restò che reagire intensificando il lavoro, nella speranza e nella prospettiva di conquistare una condizione di vita più dignitosa e poter richiamare la famiglia. L’esperienza sui luoghi di lavoro e la condivisione delle sofferte condizioni materiali spinse ad un processo di omogeneizzazione fra emigranti e classe operaia locale, favorito dalla pratica di forme di solidarietà e dalla partecipazione alle lotte sindacali che si andavano organizzando per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro e per l’affermazione di un maggior potere contrattuale in fabbrica. Nel corso dei rinnovi contrattuali si organizzarono scioperi e manifestazioni pubbliche – una novità per gli operai meridionali! -, che culminarono a volte in veri e propri scontri con le forze di polizia, come avvenne nel 1962 in Piazza Statuto a Torino.
Il Nord Italia manifestò subito nei confronti dei “nuovi ospiti” incomprensioni, intolleranza, diffidenza anche tra la stessa classe operaia. Li chiamavano “terroni”, un termine finalizzato a offendere e discriminare. Un termine che io stessa uso tutt’oggi, non tanto per offendere in verità, ma per evidenziare la diversità di personalità, di modi di fare, di abitudini.
Un termine comunque che mi è stato insegnato nell’infanzia, usatissimo in tutta la mia famiglia, soprattutto dai miei nonni materni, operai immigrati dal Veneto. Quel substrato sociale lì, di miseria, sfruttamento e ignoranza, invece di creare empatia e quindi complicità, ha sortito l’effetto opposto dando origine, a lungo andare, al fenomeno della Lega. Non credo sentissero minacciata la loro posizione sociale; o per lo meno non era solo questo. Odiare i meridionali immigrati rappresentava il proprio riscatto personale, pubblico e persino morale. Da ultimi diventavano penultimi, i rinnegati che rinnegano, solo puntando il dito sulle diversità razziali. Insomma la solita guerra tra poveri. Eppure è proprio da quella stupida e ignorante forma di appartenenza che prese forma l’ideologia leghista. Pian piano col tempo si passò dall’astio verso il terrone immigrato alle rivendicazioni di massa nei confronti dei nostri connazionali meridionali. Tutti i mali che ci affliggevano erano focalizzati in quella “Roma ladrona” individuata nella cultura e appartenenza meridionalista. Io ho assistito a questo passaggio e ne ho memoria. Anch’io individuavo un problema di gestione della nazione negli apparati statali. Anch’io pensavo si dovesse fare qualcosa per cambiare. Ma ci fu un preciso momento, nei primi anni novanta, che mi resi perfettamente conto dell’enorme differenza che c’era tra le mie rivendicazioni e quelle dell’emergente sentire della Lega Nord. C’era qualcosa di più, c’era un sapore di vendetta, di razzismo bello e buono. Non mi sono mai minimamente avvicinata alle ideologie leghiste, lontanissime dalla mia tradizione culturale e morale. Eppure anch’io provenivo da quelle frange che poi divennero e sono tutt’ora appartenenti alla Lega. Pensate che ho rotto persino i rapporti con parenti per questioni politiche.
Quest’odio, questo razzismo non si è fermato, non ha avuto nemmeno un calo nonostante le disfatte, gli inciuci leghisti con la mafia e la ‘ndrangheta in particolar modo. Anzi è aumentato, indirizzato adesso ancor di più verso gli stranieri. Sapete cosa dice il leghista tipo? “Ci portano via anche i posti in ospedale” riferito agli extracomunitari. Una situazione disperata, una situazione che io non sopporto più.
Ecco dove ci hanno anche condotto quegli anni lì del boom economico.
Kamala
martedì 24 febbraio 2015
il selvaggio
The Wild One è un film drammatico del 1953 diretto da László Benedek con protagonista Marlon Brando.
Marlon Brando è il protagonista assoluto della pellicola. Tuttavia figurano anche altri attori noti del tempo come Lee Marvin.
Trama
Una banda di motociclisti, chiamata Banda dei Ribelli Motociclisti ("Black Rebel Motorcycle Club" nell'originale, abbreviato in BRMC), disturba una gara motociclistica entrando nel circuito e importunando gli spettatori. La banda viene allontanata, ma uno dei suoi membri riesce a rubare il secondo premio, un trofeo, e lo dà al loro capo, Johnny.
Quindi la banda si dirige verso la cittadina di Wrightsville, dove i motocicilisti si fermano schiamazzando e gareggiando tra loro, con grande disappunto e fastidio dei cittadini. L'unico ad accoglierli calorosamente è il padrone del bar locale, che, pregustando un guadagno tanto più lauto quanto più i motociclisti si tratterranno, vanifica i già fiacchi sforzi dello sceriffo di accompagnarli fuori dalla città e disinnescare così la situazione.
La banda, ormai in procinto di andarsene verso nuove avventure, sarà però costretta a restare in città a causa di un incidente accaduto ad uno di loro. Inoltre, Johnny si innamora di una barista, peraltro figlia dello sceriffo, e tenta in ogni modo di sedurla e di farsi bello di fronte a lei.
L'arrivo in città di una banda rivale, i Beetles, capitanata da Chino, non fa che peggiorare la situazione. Per una lite tra i due capibanda, un tempo compagni, nasce una violenta discussione che culmina con l'arresto di Chino. Presi dalla collera, i compagni semineranno il disordine nella città a bordo delle loro motociclette, innescando così la reazione dei cittadini che, offesi e irati, chiedono vendetta.
I cittadini identificheranno come capo dei nemici e capro espiatorio Johnny, totalmente perso nell'amore per la bella barista, e completamente innocente per tutta la baraonda nata nel paese. Nel tentativo di scappare dai suoi persecutori, Johnny viene colpito da un attrezzo scagliato dalla folla inferocita e la moto, ormai senza controllo, finisce per investire un cittadino, uccidendolo.
All'arrivo delle forze di polizia, una sorta di muro d'omertà da parte dei cittadini nasconde l'accaduto e attribuisce la causa della morte al volere di Johnny. Solo la testimonianza della barista lo scagiona anche se lui, reso coriaceo dalla sfiducia per le persone e per le istituzioni, faticherà a ringraziarla debitamente.
Il film segnerà profondamente lo stile biker dell'epoca, ed in particolare gli Onepercenters, motociclisti ribelli, emarginati dall'Associazione Motociclistica Americana (AMA), a cui tra l'altro, appartengono gli Hells Angels.
Origine
La storia de Il selvaggio è basata sul racconto The Cyclists' Raid di Frank Rooney, pubblicato nel numero di gennaio del 1951 dell'Harper's Magazine. Il racconto venne successivamente pubblicato a sé nella raccolta The Best American Short Stories 1952. A sua volta il racconto era stato scritto dall'autore prendendo spunto da un fatto di cronaca riguardante una festa in strada fatta da un gruppo di motociclisti il 4 luglio del 1947 nella cittadina di Hollister, in California, che era degenerata in rissa, e il cui resoconto era stato pubblicato sul numero del 21 luglio 1947 della rivista Life.
Polemiche
In Gran Bretagna, il film venne vietato dal British Board of Film Censors ai minori di 14 anni. Si liberò del divieto solamente nel novembre 1967.
Secondo il libro Triumph Motorcycle In America, all'epoca dell'uscita della pellicola, la Triumph protestò per l'uso prominente delle loro motociclette nel film, raffigurate come mezzo di locomozione di un branco di delinquenti e perdigiorno.
Influenza nella cultura di massa
L'immagine di Brando
L'interpretazione data da Brando per il personaggio di Johnny e il look di questi, sono diventati con il passare degli anni delle vere icone. Il personaggio porta lunghe (per l'epoca) basette, occhiali neri, una giacca di pelle nera (Schott Perfecto 613 One Star) da motociclista e un cappello con la visiera; guida una Triumph Thunderbird 6T del 1950 ed è un tipo di poche parole, il classico "bel tenebroso". L'atteggiamento da duro dal cuore d'oro e l'abbigliamento ribelle, influenzeranno la nascente cultura giovanile occidentale che sfocerà nell'insofferenza verso le regole e i vecchi dettami, e all'iconografia rock and roll di lì a pochi anni.
L'immagine di Brando nel film, anche se ormai abbastanza datata, resta affascinante a tutt'oggi. Nel 2008, nel film Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, il personaggio interpretato da Shia LaBeouf, "Mutt Williams", appare per la prima volta in scena vestito di tutto punto come Johnny Strabler/Marlon Brando ne Il selvaggio. Inoltre, la particolarità dell'aspetto del personaggio di Brando, unita al "machismo" del suo personaggio nel film, è inconsapevolmente diventata anch'essa un'icona della cultura gay.
Curiosità
Il gruppo rock dei Black Rebel Motorcycle Club si chiama così in onore al nome della banda di motociclisti di Brando nel film.
Nel documentario The Beatles Anthology si prospetta la possibilità che i Beatles abbiano preso il loro nome dalla banda di motociclisti rivale a quella di Brando nel film, capeggiata da Lee Marvin, in originale chiamata "The Beetles".
fonte: Wikipedia
DISCORSO
la valigia dei sogni
è un film del 1953, diretto dal regista Luigi Comencini. Alcune immagini sono riprese da un vecchio cortometraggio dello stesso artista (così come la voce dello speaker che apre e chiude il film), ovvero “Il museo dei sogni” (1949).
Trama
L'ex attore del cinema muto Ettore Omeri ha salvato dal macero vecchie pellicole dei suoi tempi. Con la proiezione di questi film Omeri allestisce degli spettacoli ricreativi negli istituti d'educazione. Dopo alcune vicende, per sbaglio le pellicole prendono fuoco, e Omeri viene imprigionato per "detenzione di materiale infiammabile". Per fortuna l'intervento di un ricco produttore riuscirà a farlo liberare. Non solo: egli otterrà del lavoro dal suo protettore e potrà costruire un vero museo del cinema.
Critica
Ettore Omeri (dal nome del personaggio dell’iliade e dall’autore “narrastorie” della stessa, che simbolicamente vengono messi in contatto), è un signore che colleziona film muti che proietta nelle piazze italiane. Il film si articola come una fiaba, che deve far dimenticare agli spettatori le difficoltà quotidiane donandogli momenti di felicità (come una fiaba, appunto). I sogni sono dunque i film. Sotto queste metafore e simbolismi si celano due storia reali: la prima riguarda un certo Mario Ferrari, realmente esistito (che fino al 1938-anno della morte-raccoglieva film per la sua personale cineteca), la seconda lo stesso Comencini che, con il fratello minore e Lattauda, fu fondatore della cineteca di Milano (uno dei primi musei dedicati al cinema del mondo). Nel film si sceglie il registro della finzione, senza tuttavia rinunciare a quella vena di pubblicizzazione, indottrinamento e sostegno al cinema contemporaneo ma non solo.
Il film venne realizzato per la Cineteca Italiana, in crisi economica, e con un budget bassissimo (sia Comencini che gli attori rinunciarono al loro compenso), non riscuotendo tuttavia alcun successo. Il cinema si inserisce in un filone metalinguista ben preciso (fra il 1951 e il 1953 uscirono “Siamo Donne” di Zavattini, la “Signora delle Camelie” di Antognoni e “Bellissima” di Visconti), fenomeno che non si riscontra solo in Italia bensì a livello internazionale. In tutti questi film dell’epoca si avverte una visione del cinema come strumento di indagine conoscitiva (e riflessiva). Anche “il viale della speranza” di Risi, pur rimanendo nell’ambito della commedia senza mai sforare nel tragico, verte verso quella direzione (metalinguismo del cinema anche qui molto evidente). Il film di Comencini ha la particolarità, come “Cinema d’altri tempi” di Steno e “Viva il cinema” di Trapani, di rivolgersi anche ad un tempo andato, passato… e dunque ad un cinema d’altri tempi. Comencini insiste sul concetto di “cinema come arte”, in un periodo in cui le istituzioni faticavano ancora a riconoscerlo come tale (elargendo quindi pochi fondi in sostegno di un prodotto non ancora considerato come “bene culturale”). Le pellicole di Omeri vengono rifiutate in musei e biblioteche: le pellicole vengono riciclate (in fabbriche che sembrano lager) in palline da tennis o altri beni di consumo; Comencini in questo modo ci indica la materia dei sogni e la loro deperibilità (mostrando immagini realmente girate in una fabbrica milanese).
La vicenda di Omeri sviluppa attraverso un percorso dimostrativo, con poco intreccio (come un autentico film “di montaggio”), in modo da dare spazio alla successione di brani antologici della storia del cinema italiano (attraverso il rito della “memoria collettiva”). I film vengono proiettati da Omeri in 4 posti (convento di suore, salotto borghese, cinema privato e stazione di polizia), che comportano 4 funzioni diverse del cinema, 4 pubblichi diversi e persino 4 reazioni diverse alle pellicole (alcuni scandalizzati, alcuni divertiti ecc.). Il cinema viene presentato prima di tutto come elemento istruttivo e poi come elemento ricreativo e di svago. Scrive Comencini: “le macchinose, tormentate pellicole d’epoca, sono più che altro dei sensazionali documenti per la mentalità collettiva di un'epoca” (anche se fanno ridere per ingenuità, vanno contestualizzate e comprese dunque, perché si riferiscono ad un Italia con usi e costumi diversi…”il tempo è precario”). Nel terzo episodio omeri incontra un'altra ex stella del cinema muto, e gli mostra un film sperimentale che racconta la storia d’amore di una donna con un uomo inquadrando soltanto i piedi. Comencini, inserendo questa sequenza, vuol dire che il cinema è immortale. I piedi, rispetto ai volti, non sono così soggetti all’invecchiamento, ma solo alle mode (basti pensare alle scarpe). Sembrano anzi non invecchiare mai. “Questo film andrà bene sempre, non passerà mai di moda” (traduzione: il cinema è per sempre, i costumi descritti e le consuetudini di un popolo, invece, no). Il cinema è immortale dunque, e fissa la presenza dell’uomo.
Tutti i quattro episodi sono raccontati dal narratore-Omeri, che è qui “traghettatore di racconti”, evocatore di magie e riti del passato (come l’Omero originale), alle figure defunte. Nel finale Comencini ricorre ad un espediente tipico del meta-cinema: mostra Omeri in prigione (come da risvolto logico del film), ma al contempo si capisce che siamo su un set cinatografico, in un film in un film. Con questa sorpresa di mostra “il cinema al lavoro, dopo aver visto il lavoro del cinema” (Omeri viene così “restituito” al suo lavoro di attore). L’alto scopo è quello di conservazione dell’arte cinematogradica,e della divulgazione della propria idea dell’arte del film.
fonte: Wikipedia
domenica 22 febbraio 2015
Wall Street Journal: le armi della Cia ai tagliagole dell’Isis
Già nel 2012 osservatori indipendenti come Thierry Meyssan l’avevano annunciato: centinaia di jihadisti provenienti dalla Libia erano stati segretamente trasferiti in Siria, attraverso la Turchia, per dare il via all’operazione degli Usa contro il governo Assad, travestita da “rivoluzione democratica”. Ora la partita è persa, ammesso che la Russia – assediata al confine con l’Ucraina – riesca a mantenere la sua assistenza alla Siria. Punto di svolta, la strage di civili del 2013 sterminati dai “ribelli” col gas nervino per tentare di incolpare il governo di Damasco. Il casus belli perfetto per inennescare i bombardamenti della Nato, fermati in extremis nel settembre del 2013 da un’inedita alleanza: i milziani libanesi di Hezbollah e le truppe speciali inviate dall’Iran in Siria, il “no” di Papa Francesco e quello del Parlamento britannico, le navi da guerra dislocate dalla Cina nel Mediterraneo in appoggio alla flotta del Mar Nero schierata da Putin a protezione dei siriani. Adesso che l’operazione è fallita, lo ammette anche il “Wall Street Journal”: sono stati gli Usa ad armare i “ribelli” che, vista la mala parata in Siria, ora combattono in Iraq sotto il nome di Isis.
Il “Wall Street Journal”, scrive il newsmagazine “Controinformazione”, ha svelato i dettagli sul programma della Cia per armare i gruppi dei “ribelli” in Siria, documentando anche il fallimento del piano eversivo. Il giornale ammette che i miliziani Usa, denominati “ribelli moderati”, hanno abbandonato il campo per unirsi all’Isis, come peraltro già intuibile dalle foto fatte circolare nei mesi scorsi, che mostrano il senatore John McCain in Siria, in un covo dei “ribelli”, a colloquio con il futuro “califfo” dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi. Secondo il “Wall Street Journal”, a metà del 2013 la Cia aveva monitorato alcuni capi dei “ribelli”, controllando anche le loro e-mail e le comunicazioni telefoniche per assicurarsi che si trovassero realmente al comando degli uomini che affermavano di comandare. Il giornale sostiene che i “ribelli” furono sostenuti solo a partire dal 2013, ma aggiunge che molti di essi rimasero delusi dal trattamento economico della Cia, uno “stipendio” mensile di appena 200-400 dollari. In ogni caso, continua “Controinformazione” citando sempre il “Wall Street Journal”, gli Usa e i loro alleati crearono nel nord della Siria «una centrale unitaria di comando delle operazioni».
Lo stato maggiore del golpe contro Assad «includeva sia elementi della Cia sia di altri servizi segreti, come quelli dell’Arabia Saudita, del Qatar e della Turchia». Inoltre, i capi dei “ribelli” «ebbero colloqui anche con ufficiali dell’agenzia statunitense negli hotel del sud della Turchia». Tutte le fonti del giornale riferiscono adesso che l’aiuto della Cia ai “terroristi moderati” della Siria finì in un fallimento totale, e gli ultimi nuclei sarebbero tuttora asserragliati nel sud del paese e nei dintorni di Aleppo. «Il resto del territorio occupato dai gruppi jihadisti si trova sotto il controllo dei gruppi estremisti come l’Isis ed il “Fronte al Nusra”». Altro problema, quello delle centinaia di mercenari reclutati dalla Cia ma «passati armi e bagagli all’Isis ed “al Nusra”». Di recente, vista la resistenza dell’esercito nazionale siriano, composto da oltre 300.000 soldati di leva, la Cia ha smesso di offrire aiuto ai miliziani, «ad eccezione di un gruppo di comandanti di sua fiducia». Secondo la visione ottimistica del “Wall Street Journal”, «la Cia non aveva previsto la crescita del gruppo dello “Stato islamico in Siria ed in Iraq”». Affermazione azzardata: fu proprio la Cia a reclutare in Afghanistan l’allora sconosciuto Osama Bin Laden.
Sempre secondo il giornale statunitense, ora Washington avrebbe «paura» che le armi inviate ai “ribelli” possano «cadere nelle mani dell’Isis», cioè la struttura fondamentalista arabo-sunnita che in realtà sarebbe stata direttamente progettata dalla Cia per dividere il mondo islamico e colpire gli sciiti, a cominciare dall’Iran: è a tutti noto che Obama abbia lasciato crescere l’Isis per mesi, consentendo che seminasse il terrore in Iraq, senza muovere un dito. Nel suo libro “Massoni”, lo storico italiano Gioele Magaldi rivela inoltre – sulla base di documentazione riservata di origine massonica – che il futuro “califfo” al-Baghdadi fu misteriosamente scarcerato nel 2009 dal campo di detenzione Usa di Camp Bucca, in Iraq, su ordine di personalità dell’intelligence riconducibili alla superloggia segreta “Harthor Pentalpha”, creata da George Bush padre. Il piano: trasformare il “califfo” nel nuovo Bin Laden, il nemico pubblico dell’America, giusto in tempo per la candidatura di Jeb Bush alle presidenziali 2016. Della “Ur-Lodge” complottista farebbero parte George W. Bush e Dick Cheney, ma anche Tony Blair e Nicolas Sarkozy. “Hathor” è anche il secondo nome di “Isis”, la dea egizia Iside vedova di Osiride, venerata da alcuni circoli massonici che si definiscono “figli della vedova”. Culture maniacalmente attente ai simboli: per questo, dice Magaldi, l’adozione del nome Isis non è casuale, ma rivela l’identità delle “menti” che hanno organizzato l’esercito jihadista dell’orrore. Sia pure nella sua analisi limitata a un ristretto orizzonte temporale, anche il “Wall Street Journal” conferma la clamorosa manipolazione svolta dalla Cia in Siria, nel tentativo di utilizzare per i propri scopi i peggiori terroristi del Medio Oriente.
fonte: www.libreidee.org
sabato 21 febbraio 2015
voi pensate alla guerra, noi intanto ci mangiamo l’Ucraina
Nello stesso momento in cui gli Stati Uniti, il Canada e l’Unione Europea annunciavano una nuova serie di sanzioni contro la Russia nella metà del dicembre dello scorso anno, l’Ucraina riceveva 350 milioni di dollari in aiuti militari da parte degli Usa, arrivati subito dopo un pacchetto di aiuti da un miliardo di dollari approvato nel marzo 2014 dal Congresso degli Stati Uniti. Il maggior coinvolgimento dei governi occidentali nel conflitto in Ucraina è un chiaro segnale della fiducia nel consiglio stabilito dal nuovo governo durante i primi giorni di dicembre. Questo nuovo governo è più unico che raro nella sua specie, dato che tre dei suoi più importanti ministri sono stranieri a cui è stata accordata la cittadinanza Ucraina solo qualche ora prima di incontrarsi per questo loro appuntamento. Il titolo di ministro delle finanze è andato a Natalie Jaresko, una donna d’affari nata ed educata in America, che lavora in Ucraina dalla metà degli anni ’90, sovraintendente di un fondo privato stabilito dal governo Usa come investimento nel paese. La Jaresko è anche amministratore delegato dell’Horizon Capital, un’azienda che amministra e gestisce svariati investimenti nel paese.
Per strano che possa sembrare, questo appuntamento è in linea con ciò che ha tutta l’aria di essere una acquisizione dell’economia ucraina da parte dell’Occidente. In due inchieste – “La presa di potere delle aziende sull’agricoltura ucraina” e “Camminando dalla parte dell’Ovest: la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale nel conflitto ucraino” – l’Oakland Institute ha documentato questa presa di potere, in particolarmente evidente nel settore agricolo. Un altro fattore importante nella crisi che ha portato alle proteste mortali ed infine all’allontanamento dagli uffici del presidente Viktor Yanukovich nel febbraio 2014, è stato il suo rifiuto di un patto dell’Associazione Ue, volto all’espansione del commercio e ad integrare l’Ucraina alla Ue, un patto legato a un prestito di 17 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale. Dopo la dipartita del presidente e l’installazione di un governo pro-occidente, il Fondo Monetario Internazionale ha messo in atto un programma di riforme come condizione a questo prestito, allo scopo di incrementare gli investimenti privati nel paese.
Il pacchetto delle misure adottate include la fornitura pubblica di acqua ed energia e, ancor più importante, si rivolge a ciò che la Banca Mondiale identifica col nome di “radici strutturali” dell’attuale crisi economica esistente in Ucraina, con un occhio in particolare all’alto costo del generare affari nel paese. Il settore agricolo ucraino è stato un obiettivo primario per gli investitori stranieri ed è quindi logicamente visto dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Centrale come un settore prioritario da riformare. Entrambe le istituzioni lodano la prontezza del nuovo governo nel seguire i loro suggerimenti. Ad esempio, il piano d’azione della riforma agraria guidata dall’Occidente nei confronti dell’Ucraina include la facilitazione nell’acquisizione di terreni agricoli, norme e controlli sulle fabbriche e sulla terra, e la riduzione delle tasse per le aziende e degli oneri doganali. Gli interessi che gravitano intorno al vasto settore agricolo dell’Ucraina, che è il terzo maggior esportatore di mais ed il quinto di grano, non potrebbero essere più alti. L’Ucraina è nota per i suoi ampi appezzamenti di suolo scuro e ricco, e vanta più di 32 milioni di ettari di terra fertile ed arabile, l’equivalente di un terzo dell’intera terra arabile di tutta l’Unione Europea.
La manovra per il controllo sul sistema agricolo del paese è un fattore decisivo nella lotta che sta avendo luogo negli ultimi anni tra Occidente e Oriente, fin dalla Guerra Fredda. La presenza di aziende straniere nell’agricoltura ucraina sta crescendo rapidamente, con più di 1.6 milioni di ettari acquistati da compagnie straniere per scopi agricoli negli ultimi anni. Sebbene Monsanto, Cargill e DuPont siano in Ucraina da parecchio tempo, i loro investimenti nel paese sono cresciuti in modo significativo in questi ultimi anni. Cargill, gigante agroalimentare statunitense, è impegnato nella vendita di pesticidi, sementi e fertilizzanti, e ha recentemente espanso i suoi investimenti per acquistare un deposito di stoccaggio del grano, nonché una partecipazione nella UkrLandFarming, il maggiore agrobusiness dell’Ucraina. Similarmente, la Monsanto, altra multinazionale americana, era già da un po’ in Ucraina, ma ha praticamente duplicato il suo team negli ultimi tre anni. Nel marzo 2014, appena qualche settimana dopo la destituzione di Yanukovych, l’azienda investì 140 milioni nella costruzione di un nuovo stabilimento di sementi in Ucraina. Anche la DuPont ha allargato i suoi investimenti annunciando, nel giugno 2013, la volontà di investire anch’essa in uno stabilimento di sementi nel paese.
Le aziende occidentali non hanno soltanto preso il controllo su una porzione redditizia di agribusiness e altre attività agricole, hanno iniziato una vera e propria integrazione verticale nel settore agricolo, estendendo la presa sulle infrastrutture e sui trasporti. Per dire, la Cargill al momento possiede almeno quattro ascensori per silos e due stabilimenti per la lavorazione dei semi di girasole e la produzione di olio di girasole. Nel dicembre 2013 l’azienda ha acquistato il “25% + 1% condiviso” in un terminal del grano nel porto di Novorossiysk, nel Mar Nero, terminal con una capacità di 3.5 milioni di tonnellate di grano all’anno. Tutti gli aspetti della catena di fornitura dell’Ucraina Agricola – dalla produzione di sementi ed altro, all’attuale possibilità di spedizione di merci fuori dal paese – stanno quindi incrementando sotto il controllo dei colossi occidentali. Le istituzioni europee e il governo degli Usa hanno attivamente promosso questa espansione.
Tutto è iniziato con la spinta per un cambiamento di governo quando il fu presidente Yanukovych era visto come un filorusso, manovra ulteriormente incrementata, a cominciare dal febbraio 2014, attraverso la promozione di un’agenda delle riforme “pro-business”, come descritto dal segretario statunitense del commercio, Penny Pritzker, durante il suo incontro con il primo ministro Arsenly Yatsenyuk nell’ottobre 2014. L’Unione Europea e gli Stati Uniti stanno lavorando duramente, mano nella mano, per prendere possesso dell’agricoltura ucraina. Sebbene l’Ucraina non permetta la produzione di coltivazioni geneticamente modificate (Ogm), l’Accordo Associato tra Ue e l’Ucraina, che accese il conflitto che poi espulse Yanukovych, include una clausula (articolo 404) che impegna entrambe le parti a cooperare per “estendere l’uso delle biotecnologie” all’interno del paese. Questa clausula è sorprendente, dato che la maggior parte dei consumatori europei rifiuta l’idea delle coltivazioni Ogm. Ad ogni modo, essa crea un’apertura in grado di portare i prodotti Ogm in Europa, un’opportunità tanto desiderata dai grandi colossi agroalimentari, come ad esempio Monsanto.
Aprendo l’Ucraina alle coltivazioni Ogm si andrebbe contro la volontà dei cittadini europei, e non è chiaro come questo cambiamento potrebbe portare migliorie alla popolazione ucraina. Allo stesso modo non è chiaro come gli ucraini beneficeranno di questa ondata di investimenti stranieri nella loro agricoltura, e quale sarà l’impatto che questi ultimi avranno su sette milioni di agricoltori locali. Alla fine, una volta che si distoglierà lo sguardo dal conflitto nella parte est “filorussa” del paese, i cittadini ucraini potrebbero domandarsi cosa è rimasto della capacità del paese di controllare e gestire l’economia e le risorse a loro proprio beneficio. Quanto ai cittadini statunitensi ed europei, alla fine si sveglieranno dalle retoriche sulle aggressioni russe e sugli abusi dei diritti umani, e contesteranno il coinvolgimento dei loro governi nel conflitto ucraino?
(Frederic Mousseau, “I giganti agricoli occidentali si accaparrano l’Ucraina”, da “Atimes” del 28 gennaio 2015, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Mousseau è direttore delle politiche all’Oakland Institute).
fonte: www.libreidee.org
mercoledì 18 febbraio 2015
delocalizzazioni e bugie: e gli americani han perso il lavoro
In America il saccheggio non si basa sull’indebitamento perché il dollaro è la valuta di riserva e gli Stati Uniti possono stampare tutto il denaro necessario per pagare i conti e riscattare il debito: in America il depredamento è stato fatto attraverso l’offshoring, cioè la delocalizzazione del lavoro. Grandi aziende americane hanno scoperto − e se non l’avessero fatto sarebbero state invitate da Wall Street a trasferire fuori i conti o a essere rilevate − che avrebbero potuto aumentare i profitti spostando all’estero le loro attività di produzione. Il minor costo del lavoro ha determinato maggiori profitti, valori delle azioni più elevati, enormi bonus manageriali basati su “prestazioni”, guadagni in conto capitale per gli azionisti. Negli Stati Uniti l’offshoring ha notevolmente aumentato la disparità nel reddito e nella ricchezza: il capitale è riuscito a depredare il lavoro. Laddove fossero in grado di trovare lavori sostitutivi, i ben pagati operai manifatturieri che hanno perso il posto lavorerebbero part-time a salario minimo da Walmart e Home Depot.
Economisti − ammesso che siano degni di essere chiamati così − come Michael Porter e Matthew Slaughter hanno promesso agli americani che l’immaginaria “new economy” avrebbe prodotto posti di lavoro migliori, con stipendi più alti e più puliti dei lavori dalle “unghie sporche” che fortunatamente le nostre aziende stavano delocalizzando. Come ho definitivamente dimostrato, dopo anni non vi è alcuna traccia di questi posti di lavoro “new economy”. Ciò che abbiamo è invece un forte calo del tasso di partecipazione della forza lavoro, come i disoccupati che non riescono a ricollocarsi. Gli impieghi sostitutivi dei posti in fabbrica sono principalmente lavori part-time per servizi domestici, e la gente deve mantenere due o tre di questi lavori per sbarcare il lunario. Ora che questo fatto − che i polemici ci credano o no − si è dimostrato del tutto vero, gli stessi prezzolati portavoce di chi ha rubato il lavoro e di chi ha distrutto i sindacati sostengono, senza uno straccio di prova, che i posti di lavoro delocalizzati stanno tornando a casa.
Secondo questi propagandisti, ora abbiamo quello che viene chiamato “reshoring”, rimpatrio della produzione. Un propagandista del rimpatrio della produzione dichiara che la crescita di “reshoring” nel corso degli ultimi quattro anni è del 1.775%, un aumento pari a 18 volte. Non vi è alcuna traccia di questi presunti posti di lavoro rimpatriati nelle statistiche mensili Bls (“Bank Lending Survey”, indagine sul credito bancario) sugli impieghi regolarmente retribuiti. Il “reshoring” è solo propaganda per compensare la constatazione tardiva che gli accordi di “libero scambio” e delocalizzazione del lavoro non erano vantaggiosi per l’economia americana né per la sua forza lavoro, ma lo erano solo per i super-ricchi. Come è capitato alle persone nel corso della storia, gli americani sono diventati servi e schiavi perché gli sciocchi credono alle bugie che gli si dà in pasto. Si siedono davanti a “Fox News”, “Cnn” e roba del genere, leggono il “New York Times”. Se volete imparare come gli americani sono serviti male dai cosiddetti mezzi d’informazione, leggete “Storia del popolo americano dal 1492 ad oggi” (1980, 2003) dello storico Howard Zinn e guardate la serie di documentari “The Untold History of the United States” (2012) di Oliver Stone e Peter Kuznick.
I media aiutano il governo, e gli interessi privati che traggono profitto controllando il governo controllano il lavaggio pubblico del cervello. Dobbiamo invadere l’Afghanistan perché una fazione che lotta per il controllo politico del paese protegge Osama bin Laden, che gli Stati Uniti accusano senza alcuna prova di infastidire i potenti Stati Uniti con l’attacco dell’11 Settembre. Dobbiamo invadere l’Iraq perché Saddam ha “armi di distruzione di massa”, che ha sicuramente nonostante le relazioni contrarie da parte degli ispettori dell’Onu. Dobbiamo rovesciare Gheddafi a causa di una lista di menzogne che è meglio dimenticare. Dobbiamo rovesciare Assad perché ha usato armi chimiche, anche se tutte le prove dicono il contrario. È la Russia la responsabile dei problemi in Ucraina: non perché gli Stati Uniti hanno rovesciato il governo democraticamente eletto ma perché la Russia ha accettato il 97,6% dei voti del referendum per il ricongiungimento della Crimea alla Russia, della quale era stata provincia per centinaia d’anni prima che un leader sovietico ucraino Krusciov unisse la Crimea all’Ucraina, allora partedell’Urss insieme alla Russia.
Guerra, guerra, guerra: questo è tutto ciò che Washington vuole. Arricchisce il connubio esercito/sicurezza, la voce più importante del Pil americano e il maggior contribuente, insieme con Wall Street e la lobby israeliana, delle campagne politiche Usa. Chiunque o qualsiasi organizzazione che opponga la verità alle menzogne è demonizzato. La settimana scorsa il nuovo capo della “Broadcasting Board of Governors” (Bbg, l’agenzia governativa indipendente responsabile per tutti i mezzi di comunicazione non militari), Andrew Lack, ha indicato il servizio Internet-Tv russo “Russia Today” come l’equivalente di Boko Haram e dei gruppi terroristici dell’Isis. Quest’accusa assurda è un preludio alla chiusura di “Rt” negli Stati Uniti proprio mentre il governo britannico, fantoccio di Washington, ha chiuso la rete televisiva iraniana “Press Tv”. In altre parole, gli anglo-americani non consentono notizie diverse da quelle che sono state loro servite dai “loro” governi. Questo è lo stato della “libertà” oggi in Occidente.
(Paul Craig Roberts, estratto da “Libertà dove sei? Non in America né in Europa”, pubblicato da “Global Research” e ripreso da “Megachip” il 30 gennaio 2015).
fonte: www.libreidee.org
sabato 14 febbraio 2015
the hurt locker
« La guerra è come una droga, crea dipendenza. »
(Tagline del film)
è un film del 2008 diretto da Kathryn Bigelow e scritto dal giornalista Mark Boal. Il film è incentrato su un gruppo di artificieri e sminatori dell'esercito statunitense in missione in Iraq.
Il film è stato presentato in anteprima alla 65ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia nel settembre 2008 ed è stato distribuito nelle sale italiane il 10 ottobre dello stesso anno con scarsi risultati al botteghino.
L' "hurt locker" (armadietto del dolore) è la cassetta in cui vengono messi gli oggetti dei militari morti in guerra.
Il titolo del film è una locuzione presente nello slang militare americano usata per descrivere un luogo particolarmente rischioso in cui i risvolti sono imprevedibili. Il termine può anche indicare "l'essere feriti in un'esplosione".
Il film ha vinto 6 Premi Oscar nel 2010: miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro, miglior regista e miglior film.
Trama
In Iraq, una squadra di artificieri dell'esercito americano, specializzata nel neutralizzare ogni tipo di ordigno esplosivo, si avventura in una delle tante città irachene colpite dalla guerra. Ognuno dei soldati è preparato per ogni tipo di situazione di pericolo ed affronta a proprio modo il possibile pericolo, lo stress e la paura di un attacco a sorpresa, in un luogo dove ogni oggetto o veicolo potrebbe rivelarsi una minaccia per i soldati americani.
Il sergente Will James è il caposquadra di un'unità di artificieri, formata dal sergente Sanborn e dal soldato Eldridge, che prima era comandata dal collega Thompson, morto in seguito all'esplosione di un ordigno iracheno. I tre affrontano numerose missioni e fronteggiano molti pericoli insieme, uniti dal profondo legame proprio dei soldati in battaglia, talvolta arrivando anche a scontrarsi tra loro per via del carattere di James, coraggioso ma spavaldo e incurante dei pericoli, contrapposto a quello dei due compagni, molto più cauti e razionali.
A pochi giorni dal congedo, Sanborn e James salvano Eldridge da due guerriglieri iracheni che lo avevano stordito e rapito, ma nel salvataggio James lo ferisce per errore ad una gamba. Il giovane soldato tornerà negli Stati Uniti per ricevere le cure prima della fine del turno di servizio nutrendo grande rabbia verso il suo caposquadra, reo secondo lui di non aver pensato all'incolumità della sua squadra e di aver voluto assecondare la sua sete di adrenalina, ormai degenerata in follia.
A due giorni dalla fine del turno, Sanborn e James si salvano per miracolo dall'esplosione di un ordigno attaccato ad un uomo iracheno, e riflettono sulle loro vite e sul fatto che quello che separa la vita dalla morte è un filo invisibile, e che ogni volta che escono in missione "lanciano un dado e vedono come va a finire". Una volta tornato a casa il sergente James ritrova la moglie e il figlio di pochi mesi, ma la vita quotidiana non fa più per lui: si rende conto di essere inadatto alla vita civile.
Il film si chiude con l'immagine di James che, con uno sguardo apparentemente appagato, si appresta a disinnescare una bomba, in completa tenuta da artificiere, durante il primo dei 365 giorni del suo nuovo turno in Iraq.
Curiosità
Nel film i ruoli principali sono svolti da attori poco noti, come comparse partecipano numerosi rifugiati iracheni e, curiosamente, i tre attori più noti (Ralph Fiennes, David Morse e Guy Pearce) non totalizzano più di dieci minuti di presenza ciascuno, due interpretando personaggi uccisi nella storia.
fonte: Wikipedia
SCENA FINALE
venerdì 13 febbraio 2015
Locke
il traffico è scorrevole.
se non sa cosa dire alla donna che sta partorendo suo figlio, per lui una sconosciuta, se non ha parole per garantire una sua presenza affettiva, il traffico è scorrevole.
ovvero sono in macchina, guido con prudenza, conosco la strada e controllo il traffico. anzi tutto è sotto controllo e quindi tutto funzionerà al meglio, anche senza amore.
predilige e sceglie un senso pratico, una razionalità che tutto risolve, un senso di giustizia cosmico e universale, una programmazione ferrea, una pignoleria ossessiva, un controllo assoluto, per Ivan Locke il mondo gira così.
precede nella sua claustrofobica scatola, smista il mondo al telefono, crede di dirigere persone e cose con la forza di volontà, con la ragione, il senso di giustizia.
al contrario di suo padre, questo fantasma che lo perseguita, lui farà la cosa giusta.
si occuperà di questo figlio che nasce per colpa sua.
un figlio nato per colpa, ovvero fuori dal controllo. la mancanza di controllo è colpa, vivere nel caos è colpa. la sua vita senza padre è stata caos, ora tutto risponde alla ferrea legge del controllo e, secondo Locke, il controllo è giustizia.
ma i conti li ha fatti male, Ivan Locke. al controllo non risponde nulla, solo la costruzione dei suoi grattacieli. non la vita.
non basta consultare la cartellina, chiamare il vigile per il blocco della strada, trovare operai di fortuna per rimettere in tensione i cavi, garantire il C6 per la colata di cemento. mentre costruisce il palazzo, demolisce la sua vita.
convinto che basterà fare la cosa giusta per sistemare tutto, per contrapporsi a suo padre, in realtà guida verso il suo destino, dritto e inesorabile. non c'è cosa giusta, rispondere alla colpa di questa nascita significa fare del male a sua moglie e ai suoi figli. anche lui farà del male come lo ha fatto suo padre. non potrà sistemare il nascituro extraconiugale, sostenere la madre sola e alla deriva e al contempo tenere lavoro e figli.
e lo capisce Locke, guidando nella notte, lo capisce. pur nella cosa giusta, nella sua decisione, nella sua responsabilizzazione, qualcuno pagherà comunque, lui, i suoi figli, sua moglie. non scapperà, è vero, eroe di un tempo malato che tutto lascia alle spalle noncurante e immaturo, terrà fede alla sua parola senza mentire sull'amore che non prova, ma il dolore, che teme più della morte, lo coglierà.
e piange alla voce del suoi figli, il loro rancore per l'abbandono lo colpirà duramente. ora sono confusi, non capiscono, ancora non sanno. impareranno che anche il padre sbaglia, come il suo prima di lui, che l'imprevedibile è dietro l'angolo, che la vita non è misurabile e non è una colata di calcestruzzo, ma che sfugge al controllo, che è dolore e mancanza, anche nelle migliori intenzioni.
Locke, Un film di Steven Knight. Con Tom Hardy.
fonte: nuovateoria.blogspot.it
mercoledì 11 febbraio 2015
dopo mezzanotte
è un film del 2004 scritto e diretto da Davide Ferrario, girato interamente in digitale.
Trama
Martino, custode del Museo nazionale del Cinema di Torino, è segretamente innamorato di Amanda, inserviente del fast food che frequenta. Esasperata dal padrone del locale, una sera Amanda ha una reazione violenta e lo ferisce versandogli dell'olio bollente sulle gambe. A seguito di ciò fugge spaventata trovando riparo proprio nella Mole Antonelliana, dove Martino le offre protezione nell'appartamento ricavato all'interno di un magazzino dismesso del museo che custodisce.
L'angelo, ladro di automobili e fidanzato di Amanda, nel frattempo tradisce la ragazza con Barbara, compagna di appartamento di Amanda, e in pochi giorni sistema le cose minacciando il proprietario del fast food affinché la ragazza possa uscire dal nascondiglio e non temere più niente. Nel frattempo però, Martino, dopo lunghi silenzi, ha confessato il suo amore ad Amanda mostrandole un film particolare montato con spezzoni girati con la sua cinepresa d'epoca. Così Amanda, che da tempo si sente trascurata dal suo avventuroso fidanzato, cade tra le braccia del mite e taciturno Martino.
Tornata a casa, Amanda, combattuta tra il riprendere la relazione con l'angelo e intraprenderne una nuova con Martino, decide di non voler rinunciare a nessuno, dando così vita ad un rapporto a tre. La soluzione trovata è mal tollerata non solo dai due fidanzati, ma anche dall'amica del cuore Barbara, innamorata dell'angelo.
Quando la strana situazione sembra potersi finalmente risolvere positivamente per tutti, avviene l'imponderabile. L'angelo, per puro errore, è ucciso per mano di un metronotte. La più colpita è proprio Barbara, che ormai faceva dei progetti con lui, mentre Amanda, superato il dolore, è pronta per dividere il suo amore solo con Martino.
fonte: Wikipedia
FILMATO DI MARTINO
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